Il senso dei vivi per la morte

Ogni tanto mi capita di pensare alla morte. Talvolta basta un dolorino in zona inaspettata, altre volte constatare che i vivi con i quali ho condiviso la giovinezza cominciano a diminuire di numero. Eppure non ho manco 60 anni ma francamente non aspiro alla longevità: non mi piacciono i film troppo lunghi, così come non mi piacciono gli articoli troppo lunghi (non a caso la mia rubrica su Repubblica si chiama Trentarighe).

“A chiunque non sia nell’oscurità di una bara, ricordagli che ha abbastanza”: il monito asciutto del poeta Walt Whitman riassume in modo mirabile il senso della vita e quello del suo opposto. Perché dinanzi all’eterno dilemma di cosa fare tra la nascita e la morte non è ancora stata scalfita l’importanza di godersi l’intervallo.
È naturale aver paura della fine, qualunque essa sia. È naturale concedersi la più ampia vastità di pensieri, del resto la morte è l’unico ambito nel quale noi e gli altri (viventi o no) siamo uguali. Nella sua poesia “’A livella”, il grande Totò ironizza sul concetto di uguaglianza in un dialogo immaginario tra un netturbino e un marchese defunti e seppelliti l’uno accanto all’altro. Il nobile si lamenta perché la salma del netturbino è stata deposta accanto alla sua: troppa miseria vicino ai suoi blasonati resti mortali. Ma l’altro lo riporta alla realtà dei fatti, dato che indipendentemente da ciò che si era in vita, quando si arriva a fine corsa, si diventa uguali grazie proprio all’azione della morte che livella tutto e tutti. E lo esorta a non perdersi in simili pagliacciate che sono esclusivo appannaggio dei vivi: “Nuje simmo serie… appartenimmo a morte”.

Nel 2014 fece scalpore la morte del cantante Mango che se ne andò mentre si esibiva sul palcoscenico. Parlammo proprio su questo blog di “morte felice”, quella di un artista che lasciò il palco della vita mentre era ancora – fisicamente – sul palco di un teatro. Una sorta di ossimoro biologico, un azzardo del destino. Più prosaicamente l’unica fortuna che ci viene incontro quando moriamo è probabilmente legata al nostro ultimo sguardo. C’è chi vede l’asfalto (e qui molto modestamente posso discettare di un certo miracolo), chi la faccia stralunata di un medico, chi il ghigno di un killer, chi le lacrime di coloro che ci sopravvivono, c’è chi chiude gli occhi per non vedere e chi li sgrana per rubare l’ultimo filo di luce. Ma è sempre questione di fortuna. Quella sera Mango uscì di scena tra gli applausi e non importa se erano disperati. Andarsene così, quando si percorre quella impervia strada obbligata che è la vita, è un modo per lasciare lo spartito sempre aperto, per far suonare all’infinito la canzone più bella.
Nel caso di Mango scrissi che in fondo si è davvero fortunati quando ci si trova al cospetto della morte senza che ci sia stato il tempo di fare le presentazioni.

Pensare alla morte non significa necessariamente temerla. Ma muoversi per tempo, non farsi cogliere in fallo, per saggezza o se volete per scaramanzia. Qui un link che ha del divertente, perché si può sempre ridere di tutto: basta che ci sia sostanza di idee.
Qualche anno fa l’americana Heather McManamy morì di cancro, ma prima ebbe il tempo di scrivere una serie di lettere alla figlioletta di 4 anni. Gliene scrisse parecchie e diede incarico al marito di centellinarle per ogni importante traguardo della bambina. E così andò. La prima, pubblicata su Facebook, iniziava così: “Ho una buona e una cattiva notizia. Quella cattiva è che, a quanto pare, sono morta. Quella buona, se stai leggendo tutto ciò, è che tu, invece, non lo sei affatto (a meno che non ci sia il wi-fi nell’aldilà)”.
Ecco un modo originale per guardare al dopo con ironia. Ci penso spesso a Heather McManamy di cui non avrei mai saputo nulla se nulla le fosse accaduto.
Il suo insegnamento è per me definitivo: almeno fin quando siamo in gioco su questo mondo, non dobbiamo mai dimenticare che se non riusciamo a ridere di noi, è giusto che lo facciano gli altri.

P.S.
Ops, questo post è più lungo della media…

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

Un commento su “Il senso dei vivi per la morte”

  1. “L’unica fortuna……è collegata all’ultimo sguardo “.È proprio questo che rende insopportabile il mio dolore

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