L’articolo pubblicato su Repubblica.
Ci sono situazioni che sembrano lontanissime eppure sono vicine, vicende che possono solo essere frutto di immaginazione e invece accadono. Ci sono tragedie che sono film, tanto è drammatica la teatralità che le avvolge, e invece sono reali, investono qualcuno che conosciamo o che abbiamo appena incrociato per strada. Giuseppe Liotta era un medico che curava i bambini e lo faceva con la passione di chi non confonde il lavoro con la routine. Infatti, sabato scorso, aveva deciso di andare in ospedale nonostante la natura gli avesse scatenato contro tutte le sue forze, quasi a voler mettere alla prova il suo eroismo. Ma Giuseppe Liotta non era un eroe. Era un medico, un medico che curava i bambini. E il suo ospedale non era a un tiro di schioppo, ma a Corleone. Così non ci ha pensato su manco mezza volta quando è salito sulla sua auto ed è partito verso ciò che per noi può essere solo frutto di immaginazione e invece accade. Hanno ritrovato il suo cadavere cinque giorni dopo a dieci chilometri dalla sua auto, sepolto dal fiume di fango che lo ha strappato alla sua straordinaria ordinarietà: la famiglia, il lavoro, il senso del dovere.
C’è qualcosa di medioevale nella congerie di acqua, terra, pietra e lamiere che punisce l’incolpevole, sacrificandolo per un merito e non per una colpa. Un imperscrutabile disegno divino per chi crede in un dio, un’atroce ingiustizia per tutti gli altri.
Giuseppe Liotta se ne va nel fiore degli anni come un fiore reciso ancor prima di sbocciare. E non è retorica, ma crudo realismo. Quanti altri Giuseppe Liotta ci sono nel nostro mondo di sopravvissuti? In un’Italia che ha abolito il lavoro chi è disposto a rischiare per fare semplicemente il proprio dovere? E chi è che lo fa senza sventolare bandiere o farsi bandiera egli stesso?
Giuseppe Liotta, il dottore Giuseppe Liotta, era il simbolo migliore di una forza silenziosa che dà il meglio di sé dietro le quinte, che olia gli ingranaggi di una solidarietà perduta, che aiuta per vocazione senza ricevuta di ritorno. Un signor nessuno che diventa ai nostri occhi un gigante quando improvvisamente non c’è più: perché eravamo distratti, perché ci occupiamo sempre delle stesse cose e delle stesse persone, spesso inutili se non perniciose, mentre trascuriamo il buono che non fa romanzo, il bello che non fa scena, l’utile che non fa audience.
Avvertire la mancanza di uno sconosciuto e soffrirne è il rimorso che ci meritiamo.