Nel 1996 Ottaviano Del Turco, appena eletto presidente della Commissione antimafia, venne in Sicilia. L’occasione era non so quale visita ufficiale/commemorazione. La sera prima dell’evento pubblico la sua addetta stampa mi telefonò per comunicarmi che il presidente aveva il piacere di cenare con me e con altri due cronisti siciliani. Ai tempi ero, giornalisticamente parlando, un appassionato, un cane da caccia: ovviamente mi presentai, con la giacca meno stazzonata che trovai nel fondo di un armadio.
Attorno a un tavolo di Villa Igiea, io e gli altri colleghi ci trovammo davanti una persona seria, preparata e soprattutto con la voglia di fare bene e presto. Ci fece domande su tutto: sulla politica, sulla magistratura e, fondamentalmente, su Cosa Nostra. Ascoltò le nostre testimonianze e prese appunti, tra un piatto di pasta con le melanzane e un bicchiere di vino bianco. Poi ci salutò, ringraziandoci per aver accettato l’insolito interrogatorio.
A quella sera ho pensato molto in questi giorni, leggendo della tremenda disavventura giudiziaria nella quale è incappato Del Turco. Le accuse contro di lui sono pesanti e ben supportate da testimonianze e indizi. Una persona che oggi non c’è più, alla quale ero molto affezionato, una volta mi disse che non è vero che “l’occasione fa l’uomo ladro”: al massimo lo fa furbo o rincitrullito, l’onestà è un valore che non dipende dall’ambito, ma dalla sostanza.
Pensare che Del Turco possa essere vittima di una gigantesca macchinazione è francamente difficile. E se c’è una possibilità su un milione che le accuse nei suoi confronti non siano “pure”, non ho dubbi che sarà valutata con attenzione. Nel frattempo resta in me lo sconforto per aver scambiato un uomo con il suo ologramma.
Brutti tempi questi: nel fiorire degli eventi, c’è puzza di delusione e di rassegnazione.
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