Alfonso Signorini, che ha un cognome ingannevole, non va criticato per il suo uso pecoreccio del giornalismo squadrista in vecchio stile berlusconiano. No, va messo al bando per abuso di cattivo gusto, nel senso più ampio possibile: uno che ancora gioca col doppio senso del gelato nella bocca di una donna è un cretino a prova di calci in culo, un irredimibile mascalzone che si finge intellettuale per mascherare il suo disprezzo verso ogni opera intellettuale (cioé dell’intelletto). Un infiltrato dei cretini per distruggere ogni residua resistenza del popolo dei normodotati. E infatti, con le sue 350 mila e passa copie mensili vendute, Chi è un cavallo di Troia nella fortificazione sociale delle famiglie medie che resistono come possono nella giungla di uno Stato grottescamente crudele coi deboli, ma che talvolta (purtroppo) cedono al fascino del finto glamour dell’house organ di una cosca che si spaccia partito.
Non credo quindi che la sortita del finto signorino Signorini debba essere materia per l’ordine dei giornalisti, ma che sia il sentire comune a dover fare il suo dovere. Come quando da bambini c’era il compagno di giochi che dava fuoco ai cardellini in gabbia o che sputava a chiunque osasse contraddirlo. A suo modo voleva essere figo, a nostro modo si svelava come un promettente, pericoloso, disadattato.
Signorini va lasciato lì dov’è, da solo, col suo patetico giornale che non racconta, ma sputa. E da oggi, oltre ad azzerare il debito pubblico, prendiamoci carico di un nuovo impegno sociale: azzerare quelle 350 mila copie mensili.
E non venite a romperci le palle con la storia dei posti di lavoro. Se io lavoro per Chi e non mi ribello dinanzi certe porcate, sono correo del signorino. E pago di conseguenza. Amen.
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Ingroia, che imbarazzo
Il gesto delle manette di Berlusconi? Con me è stato spiritoso, come sempre. Il mio nemico numero uno è Monti, non il Cavaliere.
Antonio Ingroia concede a “Chi” l’onore di scolpire nella pietra berlusconiana il suo pensiero e dà ai non lettori del settimanale e ai non elettori del Pdl una tragica certezza: l’ex magistrato è il più vecchio dei nuovi politici.
Il linguaggio intimidatorio ha via via lasciato spazio all’allusione, l’ammiccamento si è diluito progressivamente in un appello senza appelli: Ingroia non cerca di fare proseliti, se potesse convocherebbe con apposito ordine scritto i suoi elettori, uno per uno.
L’ultimo arrivato nell’arco costituzionale dà lezioni di costituzione e scandisce le tappe di una ipotetica costituente.
Prima Ingroia era dove i suoi cronisti lo rappresentavano, in una sorta di ubiquità giornalistica che spalmava il suo potere ben oltre i limiti delle sue competenze. Oggi è semplicemente dovunque, persino su “Chi”. E da buon neo-politico l’ex procuratore aggiunto di Palermo non ha vergogna di sovvertire la scala di valori che sino all’altro ieri era apparentemente la sua. Monti peggio di Berlusconi: il professore bianco peggio del cavaliere nero, il rimedio peggio del male, il commediografo più esilarante del clown, il bianco più nero del nero.
Tra diktat improvvisati e messe cantate senza sacramento, Antonio Ingroia è la più cocente delusione dell’antimafia militante degli ultimi trent’anni. Un dilettante della politica che non vedeva l’ora di spacciarsi per professionista della scienza della politica. Un ex valoroso che ha ceduto al valore effimero della vanità. Un aspirante saltimbanco che affolla ogni tribuna, ogni salottino, ogni rubrichetta, ogni tavola rotonda: dove c’è una telecamera c’è lui con quell’aria supponente, come se l’avessero trascinato a forza. Uno che, tanto per dire, adesso trova spiritoso persino Berlusconi. Uno senza rossore insomma.
Un politico fuori stagione per tutte le stagioni. Praticamente un frutto surgelato.
Fatti più in là
Fede e famiglia
La moglie di Emilio Fede, Diana De Feo, ha parole di speranza per suo marito: “Mi dispiace per tutto, ma credo che si risolverà presto. Ho fiducia in lui e nella giustizia. Sono convinta che quando le intercettazioni verranno esaminate, non verrà fuori nulla di compromettente”.
Lui, il direttore del Tg4, le scrive: “Berlusconi qualche volta mi dice: ‘Diana è la parte migliore della famiglia’. Credo che abbia ragione. Continua a esserlo”.
L’ostentata buona fede della signora è talmente patinata da non poter essere messa in discussione da queste parti, sarebbe come incidere il burro con la fiamma ossidrica.
La pervicace ossessione di lui, Emilio Fede, è invece messa a nudo. Persino in un messaggio che – si intuisce – dovrebbe avere qualche attinenza con l’amore, il direttore non riesce a non farsi precedere dal simulacro del Capo.
Ci sarebbe da scrivere molto, molto altro se tutti questi virgolettati non fossero tratti dalla nuova bibbia dell’Italia che galleggia (e non solo sul mare), il settimanale Chi, e se la devota De Feo non fosse senatrice del Pdl.
Ha ragione Berlusconi a parlare di famiglia. Anzi, come si dice dalle mie parti, famigghia.
Rispondere è cortesia
Il premier Berlusconi riesce ad aggirare persino le stringenti domande del signorino Signorini, direttore dell’organo ufficiale del governo italiano.
Dove trascorrerà la sua vacanza fino alla fine di agosto?
Quest’anno di giorni ne ho davvero troppo pochi. Le ho detto che lavoro più degli altri. Ma sono ricompensato nel vedere che gli italiani apprezzano il mio impegno e mi manifestano gratitudine. Ovunque io mi trovi la gente mi si fa d’intorno, mi incoraggia e mi festeggia, confermandomi così quel 68,4 per cento di stima e di apprezzamento che è rilevato dai sondaggi…
Grazie a Raffaella Catalano.
Cene simpatiche
Berlusconi dichiara di “non aver mai partecipato a festini” ma solo “a cene simpatiche”. Fin qui nulla di nuovo, della serie dacci oggi la nostra fandonia quotidiana. Ma l’elemento culturalmente rilevante dell’intervista del premier è tutto nella scelta del giornale che raccoglie il suo verbo. Il nuovo organo ufficiale del governo, contro le bordate di Repubblica, Avvenire, Financial Times, El Pais e altri, è Chi.
A Emilio Fede, da ieri, viene garantita assistenza psicologica 24 ore su 24.
Gheddafi, l’uomo dei record
Uno dei casi più eclatanti di amnesia istituzionale è quello che riguarda Muammar Gheddafi, uno che è a capo di una Nazione, la Libia, senza alcuna investitura ufficiale.
Il leader libico o il colonnello, come lo si chiama in mancanza di altra attribuzione ufficiale, arriva oggi a Roma come un qualunque uomo di stato. Per l’occasione il ruolo di guastafeste viene affibbiato a uno sparuto gruppo di intellettuali (che per i giornalisti italiani sembrano esistere solo quando non si sa come riempire le ultime quattro righe del pezzo da consegnare al capocronista) e a nessun altro.
Muammar Gheddafi è l’uomo dei record.
Vanta ben 37 modi diversi di pronunciare o scrivere il suo nome. E’ l’unico potente dell’emisfero boreale ad aver sostenuto, anche se per un breve periodo, un galantuomo come Bokassa. Nel 1986 lanciò due missili contro la Sicilia e la scorsa estate Berlusconi gli ha pure chiesto scusa. Ha definito la Corte penale internazionale un’organizzazione terroristica e per tutta risposta il preside di giurisprudenza della Facoltà di Sassari ha chiesto di conferirgli una laurea honoris causa, in giurisprudenza naturalmente. Nel 2002 ha fatto saltare il vertice della Lega Araba che aveva in agenda l’offerta di esilio a Saddam Hussein, esilio che avrebbe reso possibile un’ alternativa alla guerra in Iraq, e miracolosamente ha visto la sua Libia scomparire dall’elenco Usa degli Stati canaglia. E’ stato coinvolto nel più sanguinoso attentato prima dell’11 settembre, quello di Lockerbie, eppure nessuno gli ha mai dichiarato guerra. Non ammette, a casa propria, il bipartitismo e, quel che è peggio, legge “Chi”.