L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
In questo 23 maggio che sa di primavera sociale, di luce che allontana il buio, di vita da riabbracciare dopo i patemi del Covid, Palermo si sveglia immersa in una mostra che vuole ricordare altri inverni, altri tempi bui. I murales e le installazioni del progetto di memoria “Spazi Capaci” è un moltiplicatore di simboli: opere simbolo in luoghi simbolo in un giorno simbolo. Nel ricordo delle vittime delle stragi di Capaci e via d’Amelio i volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino veglieranno sulle strade che portano all’aula bunker. L’opera, “La porta dei Giganti” di Andrea Buglisi, prevede due enormi ritratti su parete, uno che è già piazzato sulla facciata di un palazzo in via Duca Della Verdura, l’altro che sarà realizzato in estate su un edificio in via Sampolo. A Brancaccio, in quella che è stata per anni una periferia urbana e di legalità, c’è il polittico urbano “Roveto Ardente” di Igor Scalisi Palminteri che ritrae don Pino Puglisi e un enorme fiammifero spento che “ha appiccato il fuoco eterno della vampa del coraggio”. In via Notarbartolo, davanti all’Albero Falcone, la statua di Peter Demetz intitolata “L’attesa” rappresenta una giovane donna che aspetta: il ritorno a casa di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, il compimento di una qualche giustizia terrena, il riscatto di una terra che pure disprezzò i suoi simboli, quando ancora la distrazione civile era un modo di vivere al passo coi tempi.
E poi i cani dell’aula bunker dell’Ucciardone. Un’imponente installazione di Velasco Vitali dal titolo “Branco”, con 54 cani a grandezza naturale, in ferro, cemento e persino uno in oro ci ricorda che i simboli non si giudicano, al limite quando si fanno arte si recensiscono. E non è questo il momento di interrogarsi sull’efficacia del mood dell’artista, ma di trovarci un’allegoria, un link, uno spunto di riflessione. O almeno di provarci.
In una terra dominata per anni oltre che dalla mafia, da un’antimafia pubblicitaria che ragiona per spot e slogan e che ripropone sempre le stesse messe cantate di una resistenza immaginaria, un coinvolgimento così totale dell’arte è una buona notizia. Tornano i lenzuoli – c’è l’immagine stilizzata dei due magistrati uccisi realizzata dai laboratori di Brancaccio del Teatro Massimo che è stata esposta in venti luoghi di cultura italiani – ed è un appiglio per la memoria. Ventinove anni fa il movimento dei drappi bianchi nacque da un volantino, altro che social, è funzionò. Forse perché c’era un contesto drammaticamente forte, forse perché i circuiti analogici della coscienza civile non risentivano di certe vacuità della partecipazione digitale: allora per esserci bisognava esserci e basta, niente clic e like. Oggi la rarefazione dell’emergenza mafiosa, che c’è ma non si vede, che trasuda ma non allaga, alimenta le illusioni. Che tutto sia passato. Che i simboli servano solo a ricordare. E che l’esercizio della memoria ci assolva dalla nostra disattenzione quotidiana.
Ecco, l’arte serve a questo: a ricordarci non chi siamo, ma chi diventeremo.