L’articolo pubblicato ieri sul Foglio.
Sino a qualche anno fa il dilemma del web era: nickname o nome e cognome? Cioè libertà di opinione senza i laccioli delle questioni anagrafiche (il valore di un commento prescinde da chi lo esprime) oppure certificazione blindata dell’autore (un commento senza maschera vale di più)?
Non si era ancora scatenata la pandemia delle fake news e la rivista statunitense The Atlantic s’interrogava sull’alchimia giusta per “far emergere i contenuti di valore isolando il rumore di fondo” ed evitare di cadere nel tranello secondo il quale i commenti anonimi sono scadenti mentre quelli firmati sono un surrogato dei versetti della bibbia. Era il 2011 e il sito del New York Times metteva in campo i cosiddetti trusted commenters, cioè “commentatori affidabili” che avevano licenza di dire la loro senza passare dalle forche caudine della moderazione.
Oggi le cose sono cambiate, come se fossero passati vent’anni. L’antica maldicenza, che aveva già trovato megafono nei blog, ha invaso intere lande di internet come una malapianta che accerchia e soffoca. Mentre lo sfogo del frustrato ha perso il volto del suo autore nel cammino senza pietà verso la gogna mediatica.
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