1979

C’è un anno nella storia recente che è il baricentro della musica, della cronaca, della politica. Ma anche dei misteri, della tecnologia e del costume. È un anno in cui il mondo cammina con tutta la sua umanità verso un assetto che sarebbe stato quello della fine della guerra fredda e dell’inizio di nuove ere sempre più convulse. In Sicilia la mafia spara e uccide, tra gli altri, un giornalista che ha capito prima degli altri che purtroppo i corleonesi non sono solo gli abitanti di Corleone. Stati Uniti e Cina fanno accordi che stabiliscono una priorità per entrambi in funzione antisovietica, e l’Unione sovietica, sentendosi circondata, pensa bene di invadere l’Afghanistan.
In Italia nasce RaiTre in quota Partito comunista. Le vetrine dei negozi di dischi sono per i Pink Floyd, per Michal Jackson, per i Police, i Clash, gli Ac/Dc, per Bob Marley e i Supertramp. Dalla e De Gregori attraversano l’Italia con un tour dai numeri mai visti prima. Il Supersantos, un pallone che andava a vento, cede il passo al Tango, un pallone più pesante che più semplicemente va a calci. Molte cose accadono in quell’anno illudendoci che i sogni, se proprio non si avverano, spingono il destino un po’ più in là.
E poi nasce Giuseppe, che è figlio di Giovanna e di Pasquale, e fratello di Vincenzo e di Antonella. Giuseppe vivrà quell’anno con l’incoscienza felice di un neonato, un’incoscienza che manterrà per sempre.
Questa è la storia dell’anno 1979. Una storia di canzoni e sangue, di congiure e discoteche, di menzogne e rivelazioni. Ma soprattutto è la storia del piccolo Giuseppe. Che non invecchierà mai.

Dopo l’esperienza di quattro opere inchiesta (“Le parole rubate”, “I traditori”, “Cenere” e “L’altro”) per il Teatro Massimo di Palermo e l’opera di teatro civile “Invertiti” su Pier Paolo Pasolini per Taormina Arte, Gery Palazzotto – con le musiche di Fabio Lannino – sperimenta una nuova forma di narrazione. Stavolta il racconto è un intreccio stretto di parole e note, che non conosce mediazioni. Una forma di confessione pubblica senza finzione scenica, dove ognuno è quello che è.
Un narratore.
Un musicista.
Una cantante.
Un dee-jay.

1979L’anno in cui sognammo di essere quelli che non saremmo mai stati
Real Teatro Santa Cecilia di Palermo – 7 marzo 2024

Scritto e raccontato da Gery Palazzotto
Musicato da Fabio Lannino con Laura Sfilio
Remixato da Mario Caminita

Fatti miei, fatti vostri (e grazie)

Contrariamente a quanto fatto in passato, quest’anno ho deciso di elencare gli articoli più letti di questo blog. E l’ho fatto perché dicono molto di me e soprattutto di voi. Come potete vedere, tra i temi che vi hanno interessato molti appartengono al settore “cazzi miei” e ciò non può che consolarmi: se la narrazione prende il sopravvento sulla cronaca vuol dire che la sete di suggestioni, di fantasia è forte, e che i cervelli vanno a buon regime.
Per questo nei miei sogni vorrei ringraziare uno per uno le migliaia di lettori che, da sedici anni, mi seguono con curiosità e alcuni – addirittura – con affetto. Ovviamente ciò è impossibile, ma l’ho detto e non per caso: chissà che un giorno non si possa organizzare qualcosa…

Comunque ecco la classifica e siccome i miei titoli non sempre sono esplicativi metto anche un brevissimo riassunto per rinfrescare la memoria di chi ha già letto e titillare quella di chi magari quel post se lo è perso. Del resto qui è tutto gratis e un clic in più non vi costa nulla.

1 Colleghi e guardati su una lettera ritrovata e su quello che accadde in un importante giornale siciliano.

2 La politica, l’informazione e la merda sulla violenza verbale di un politico rozzo e sguaiato, ergo premiato dell’elettorato.

3 Siamo merde su una donna che un giorno si denuda al balcone e butta giù pezzi della sua vita.

4 Poi sono successe due cose su un toccante incrocio di destini durante il cammino sulla Via Francigena.

5 Per via di due culi su una storia che inizia duemila anni fa e arriva ai giorni nostri (podcast).

6 La magistrata Cuffaro sulla forza e la determinazione di chi non conosce la parola “arrendersi”.

7 Materia Prima sulla storia dimenticata (ma stracitata a casaccio) di Libero Grassi (podcast).

8 Sedici su quando arriva il momento in cui devi cambiare tutto anche a rischio di perdere tutto.

9 Katia (e non è una donna) sul file di un romanzo nato per rimanere nascosto in un file.

10 Il tempo e il lusso dei sogni su “Cenere” l’opera inchiesta scritta per il Teatro Massimo di Palermo e sulla fatica di raccontare oggi.

Sedici

Arriva un momento in cui può capitare di aver bisogno di cambiare. Di cambiare tutto.
A me accadde sedici anni fa, nel modo più tranciante. A un certo punto mi resi conto che non ero più soddisfatto di quello che facevo, non mi divertivo più e anzi, a dire il vero, mi rompevo abbastanza le scatole per ogni giorno che il Signore mandava in terra. Decisi così la mia personale rivoluzione, una rivoluzione nella quale – va detto – fui molto fortunato giacché partivo, lancia in resta, con molte possibilità di fallire e addirittura di farmi male.
Nel giro di pochi mesi mollai un posto da viceredattore capo al Giornale di Sicilia (un posto di quelli ritenuti allora sicuri, ben retribuito), chiusi porte e portoni di ogni genere e finii a gambe all’aria. Vi dico solo che per una settimana dormii in auto, dato che non avevo più neanche una casa in cui stare.
Non sono mai stato ricco, provengo da una famiglia borghese ma di certo non ricca, quindi la situazione era abbastanza complicata. Fu così che una sera decisi di andare a casa dei miei genitori, fino a quel momento all’oscuro di tutto, e di metterli al corrente dei miei casini. Mi ero preparato al peggio, i miei mi avevano sempre ritenuto (almeno sino a quel momento) una testa calda ed ero pronto se non allo scontro, a sorbirmi una ramanzina.
Invece andò diversamente. E credo che lì, quella sera, tutto cambiò davvero.

Non appena cominciai a raccontare degli sfaceli che deliberatamente avevo scelto come estemporanea filosofia di vita (perché accade che le migliori scelte siano quelle che a prima vista sembrano le peggiori, ma lo veniamo a sapere sempre troppo tardi) mio padre aprì una bottiglia di vino mentre mia madre si mise ai fornelli. Eravamo tutti e tre in cucina ed il loro modo di ascoltare fu un misto di attenzione e cura; volevano fare con semplicità quello che sino ad allora non gli era riuscito facile, prevalentemente per colpa mia, cioè darmi una sensazione di sicurezza.
Fu così che in una sera feci il più importante giro di boa della mia vita.
Decisi di farmi una casa tutta mia, niente più affitti, convivenze in proprietà altrui, falso godimento della provvisorietà. Volevo mettere radici in un mondo in cui vivere soddisfatto. Imparai mestieri nuovi, grazie sempre alla scrittura: scoprii che c’erano pochi ghostwriter in Italia e riuscii in pochi mesi a trovare lavoro in un paio di importanti gruppi editoriali; scrissi da perfetto fantasma di tutto per tutti, dalle radio alla carta stampata; condussi una rivoluzione web in un paio di periodici nazionali; scrissi qualche libro e così via.
Ma soprattutto affrontai la prova delle prove: vivere a casa dei miei genitori, con i miei genitori, per sei mesi. In pratica a 43 anni mi ritrovai ragazzino, alle prese con riti che avevo dimenticato, con antiche usanze domestiche (tipo che si pranza e si cena sempre a una certa ora). Dovetti riprendere confidenza con la cura culinaria di mia madre che, pensandomi sempre denutrito nonostante la testimonianza inoppugnabile del girovita, alle 8 di mattina assieme al caffè serviva il menù della cena per il quale si era messa ai fornelli già alle 5 (perché certe cose se non le cucini all’alba non sono buone…). Imparai a condividere i cazzi miei con mio padre, il quale con amorevole candore riteneva naturale sedersi accanto a me quando ero al computer e commentare tutto, ma proprio tutto, ciò che scrivevo mentre lo scrivevo: soprattutto le cose più personali (la curiosità spudorata deve essere un tratto genetico). Insomma ero un figlio ritrovato e mio padre, affamato di storie, esercitava legittimamente il meraviglioso diritto all’invadenza affettiva.

Questa storia ha un paio di passaggi che, ancora oggi, mi sembrano irreali: sapete, quei ricordi che col tempo diventano un film e vivono per decenni in un limbo tra fantasia e realtà…
Una mattina, la prima in cui mi svegliai in quella casa nella rinnovata veste di figliol prodigo, rimarrà memorabile negli annali della mia famiglia.
Mi alzai ed ero solo poiché i miei avevano programmato una gita fuori porta. Poco male, mi dissi, così mi ambiento senza rompere le scatole a nessuno (ovviamente i miei sensi di colpa erano alle stelle). Feci colazione con vista sul mare, poi stancamente fumai la prima sigaretta. Dopo andai a lavarmi i denti nel bagno dei miei. Mentre agivo di spazzolino sentivo qualcosa di strano, ma pensai che era colpa di quella sigaretta prematura (solitamente non fumavo mai di mattina, ma in quei giorni ero incasinato, preoccupato, scazzato e fumavo il fumabile sempre e dappertutto). Quando mi accorsi che l’impasto tra i denti aveva assunto una preoccupante consistenza oleosa decisi di inforcare gli occhiali e presi il tubetto.
Crema per i piedi.
Così imparai la prima regola del manuale del figliol prodigo più figliol che prodigo: casa che vai stranezze che trovi e più non dimandar.
I miei genitori nella loro categorizzazione delle cose tenevano in buon conto quella dei tubetti, a prescindere da ciò che essi contenevano. Quindi la crema per i piedi stava insieme al dentifricio, e non ho mai avuto l’opportunità – perché da allora misi attenzione (e occhiali) prima di compiere un’azione in cui c’era da spremere un contenitore – di verificare altre coesistenze balzane: chissà, con un po’ di impegno un giorno avrei spalmato della maionese per contrastare le occhiaie o avrei usato del Lasonil per lucidare le scarpe. Comunque ci misi un’ora per sciacquarmi la bocca e cinque sigarette per riacquistare lucidità. Poi, data la bella giornata, decisi di mettermi al sole.
Sparai musica a palla dalla radio dell’auto parcheggiata vicino, e chiusi gli occhi.
Uno spruzzo in volto.
La sensazione di qualcosa che viene giù dal cielo.
“Cazzo, piove!”
Apro un occhio ma il sole è abbagliante.
Altra roba addosso. Frammenti umidi, sempre di più.
Non era pioggia. Ma… sardine.
Sì, sardine. O comunque pesciolini che venivano giù dal cielo.
In un paio di minuti dovetti fuggire perché ero tempestato da una pioggia di animali (io, vegetariano!).
Ci misi un bel po’ a razionalizzare come accade quando ci si trova dinanzi a un evento che si annuncia figlio (indegno) del paranormale.
Alzai gli occhi e vidi una battaglia di gabbiani che si disputavano qualcosa proprio sopra la mia sedia a sdraio. Capite bene che il passaggio dal “tubetto selvaggio” al “piovono pesci” fu traumatico. E soprattutto indelebile.

Tutto ciò accadde nel primo giorno della mia emancipazione da una vita insoddisfacente. E, ne sono certo, ci fu una “mano de Dios” per darmi una lezione: della serie impara a vivere, non ti meravigliare troppo per ciò di non sai e non rompere il cazzo con ciò che credi di sapere.
Da lì la convivenza coi miei fu una discesa. Mi abituai a discutere di pasta coi broccoli arriminati e di peperoni ripieni appena sveglio, e a rispondere a mio padre che all’una di notte, allarmato perché non ero ancora rientrato a casa (a 43 anni!), mi telefonava e affettuosamente si diceva preoccupato: “Tranquillo pa’, sto bene. Tra poco torno”, biascicavo da un pub la cui unica attrattiva era la birra era che costava poco.
La cosa che ho imparato da quell’esperienza – che qui ho riassunto togliendo il 90 per cento degli aneddoti (alcuni dei quali mi riservo di raccontarvi) – è che non è mai troppo tardi per tornare sui nostri passi, che i pregiudizi non sono giudizi anticipati ma cazzate definitive.

Soprattutto mi preme dirvi perché vi ho raccontato questa storia.

Sedici anni fa, in quel ciclone di follie, mi inventavo una casa virtuale mentre costruivo una casa reale.
Esattamente sedici anni fa nasceva questo blog. Con una consapevolezza: che avrei vissuto giorni da radice e giorni da foglia in un’esistenza, virtuale e reale, che è sia albero che vento.
Per ora, buon vento.

Chiacchiere da radio

Ho avuto il privilegio di parlare di me in una bella trasmissione radiofonica andata in onda su Rai Radio1. Ci troverete un po’ di chiacchiere su ciò che volevo essere e su ciò che sono diventato, sulla mia musica, i miei errori, le cose che ho scritto, le mie illusioni e le mie piccole soddisfazioni. Tutto ciò grazie alla delicatezza di Eliana Escheri che ha saputo lasciarmi libero di parlare senza concedermi di straparlare.

Il podcast lo trovate qui.

L’uomo del sorriso

La sua forza era la leggerezza. Persino nel suo ultimo articolo, quello dell’addio che ancora oggi non si riesce a leggere senza una vagonata di fazzolettini, una risata va e viene tra le parole che pesano come i macigni del per sempre (e noi sappiamo che l’unico per sempre che ci viene dato di tastare con mano è quello dell’estrema assenza).
Eppure Francesco Foresta era un uomo di grande concretezza e di vaporosa razionalità. Al punto da scavare, tra noi sopravvissuti alla sua arte giornalistica, un prima e un dopo di lui.
Del dopo non c’è voglia di discutere: se un dopo è un dopo doloroso, meglio relegarlo all’ordinario terreno dei rimpianti, non serve tirarlo fuori nei momenti speciali come questo, quando la memoria si illude di farci sorridere delle tragedie.
Del prima, di quel prima invece è bello tirar fuori le vecchie foto dal cassetto e accarezzarle senza cedere alla nostalgia: ascoltarle, lasciare che narrino… narrino di lui, di Francesco, la cui confidenza con la tecnologia era limitata al tasto di accensione di un computer. Funzioni basilari: apri file, chiudi file, copia, elimina… Eppure il suo genio non si lasciò imbrigliare: ci mise qualche anno a capire come funzionava il web, sul quale pure aveva avuto molte riserve in principio, poi partorì l’idea cruciale. “Live Sicilia”, il primo vero portale di informazione online in Sicilia pensato con un’ottica moderna, spiazzò tutti. C’erano dentro tutta la sua prorompenza giornalistica e la sua lungimiranza professionale che già qualche anno prima avevano figliato “I love Sicilia”. C’erano soprattutto la sua abilità nel saper scegliere le forze migliori per raggiungere un obiettivo, la sua divertita umiltà nel saper chiedere aiuto quando si muoveva in terreni nuovi. Era un vero capitano, Francesco Foresta: un fuoriclasse che aveva il fiuto del gol, ma che sapeva anche lasciare la palla al compagno per l’ultimo tocco a porta vuota.

Fu così che s’inventò il giornale on demand, la sua trovata più geniale. Capovolgendo il rapporto classico quasi conseguenziale tra lettore e notizia, studiò un foglio che si stampava solo quando il flusso della notizia era tale da farsi largo da solo tra i lettori: sfruttando la forza di certi avvenimenti, mise su una macchina editoriale che si azionava solo quando poteva fare una tiratura memorabile. Era un giornale che arrivava in edicola quasi a tradimento, ma con una solidità di argomenti tale da andare esaurito in poche ore.
Ci volevano abilità e fortuna per certe avventure. E se la prima era garantita da un fiuto professionale incredibile, la seconda andava assecondata in qualche modo. Non era nato con la camicia, Francesco, ma quando la indossava gli stava benissimo (se la metafora può in qualche modo aiutare): la sua fortuna era che della fortuna gli importava pochissimo, come chiunque viva del qui e adesso, ma quando gli passava davanti sapeva come afferrarla senza scottarsi.
E poi le risate, quelle risate che non lo hanno mai abbandonato neanche nei tempi in cui c’era poco da ridere. Rideva per festeggiare, per canzonare, per incitare (gli altri ancora prima che se stesso). Rideva convinto – e a ragione – che il mondo avrebbe riso con lui anche senza capire il perché: perché la musica delle sue risate era la colonna sonora di interminabili giornate di lavoro quando i giornali si facevano di notte e, soprattutto, esistevano ancora. Rideva per esorcizzare la paura che, giunto ormai alla fine, gli rendeva la vita impossibile: ma vaglielo a dire alla paura che nulla è impossibile per uno che non si lascia disinnescare il sorriso neanche dal più subdolo dei mali. Rideva per vivere e sopravvivere, convinto che solo chi piange resta davvero solo. A che servono quindi le lacrime se non a scavare una distanza dagli altri, sembrava chiedersi.

Oggi, a sei anni di distanza da quell’ultimo sorriso, c’è un mondo completamente diverso da quello che i suoi occhi terreni scrutarono. Ma siamo nel dopo, in quel famoso dopo doloroso di cui non c’è voglia di discutere. C’è un pensiero che ricacciamo indietro a forza, ma che emerge galleggiando nel mare di incertezze di questo nostro presente senza emozioni tattili, senza abbracci che non siano metafore, senza la gioia del superfluo e la consolazione del contatto.
Chissà come avrebbe raccontato l’era della tristezza, l’uomo del sorriso.

(non) siamo solo noi

In realtà di questi tempi non si fa quel che si può, ma si fa quel che si vuole. Perché in una situazione di emergenza l’alibi è sempre più a portata di mano. Quindi siamo quello che vogliamo essere, nulla di più e nulla di meno.
Ecco perché è bene parlare in prima persona, siamo una comunità di isole senza traghetto e senza ponti.  
Qui ho scelto di vestire i miei modesti panni e di confrontarmi con Marco Betta, un amico sensibile e un artista raffinato. Ne è scaturito questo dialogo in cui parliamo del buio della paura e della luce dell’arte, del passato che abbiamo scampato e del futuro che stiamo inseguendo. E poi di Palermo, della mafia, di un luogo meraviglioso come il Teatro Massimo, e delle contraddizioni di una città che si vanta persino di essere irredimibile e che deve faticare per sopravvivere a se stessa.
Fate voi.  

Dodici anni

È stato un anno difficile ma entusiasmante. Il dodicesimo di anni difficili ma entusiasmanti, da quando cioè vive questo blog che oggi fa il compleanno. Non sono molti i blog che resistono da tanto tempo, perché non è l’usura il peggiore nemico ma la consunzione delle idee o la loro diluizione nell’acquitrino dei social, acqua che sembra mare aperto ed è invece una pozzanghera che ce l’ha fatta. Dodici anni sono almeno due o tre vite per me, tanto sono cambiate le cose intorno a queste pagine. La compagnia di giro, i suonatori, i nani, le ballerine, i figuranti e i protagonisti, fossimo stati in un frullatore ci saremmo riposati di più. Grazie a questo blog – l’ho già scritto e lo ripeto – ho imparato molto, soprattutto a sbagliare da solo e a non dare mai la colpa agli altri se un ingranaggio si inceppa. Ho anche cambiato lavoro e imparato a fare nuove cose, sempre partendo dall’esperienza maturata su questo campo: in questi dodici anni non c’è giro di boa, non c’è emozione degna di nota che non abbia avuto un riverbero qui. Ed è un orgoglio immaginare che quel manipolo di coraggiosi che ogni giorno passa da queste parti abbia in comune col tenutario del blog la voglia di tenere lontana l’imparzialità. Io non sono imparziale, non lo voglio essere e quando è accaduto è stato sempre perché ero distratto, o costretto dalle circostanze, o magari facevo finta e non me ne rendevo conto: comunque per colpa mia (vedi sopra). Imparziale è il giudice, l’arbitro. Non chi scrive, chi racconta, chi sogna e chi crede. Nel mondo delle idee, da quelle più alte a quelle al di sotto della cintola, ci si schiera. Un tempo si credeva nella penna come una spada, oggi le metafore possono contare su nuove armi. Di sicuro la penna non sarà una bilancia perché la ragione non ha un peso forma e tenerla a stecchetto significa lasciarla morire.

Se siete qui so che sapete meglio di me dove potrei andare a parare, perché noi imparziali e felici ci capiamo senza dispendio di inutili sillabe.
Per questo, anche per questo, vi ringrazio.
Felicità.

Undici anni, stiamo insieme

Undici anni. Cazzo, undici anni è un ragazzino che va in prima media, è la durata del ciclo solare, è la condanna in primo grado a Francantonio Genovese per lo scandalo sulla Formazione professionale in Sicilia, è il numero della missione Apollo che portò il primo uomo sulla Luna,  è il tempo che ci separa dall’ultima coppa del mondo di calcio vinta dalla nostra nazionale e dalla morte di Piergiorgio Welby, è il nome della giovane protagonista di Stranger Things, è il punteggio con cui il vecchio Totocalcio ci faceva mangiare le mani e il Totip invece godere così così, è l’età in cui scoprii il Super8, è il numero dei cornuti.
Ed è l’età di questo blog.
Undici anni fa. Lavoro, domicili, sentimenti, prospettive, musica, amicizie. Un cataclisma entusiasmante di passioni, delusioni, rivincite. Comunque un inanellarsi di elementi di stupore spesso estremo. Negli altri anniversari, su queste pagine, ho parlato di voi, della pattuglia inscalfibile di lettori, delle notizie che ci avevano affascinato, dei mood nei quali eravamo incappati. Stavolta c’è un contesto molto più invadente al quale dare spazio.
Il mondo è cambiato nel modo più complicato possibile, cioè nei microcosmi delle piccole cose. Un esempio per tutti sintonizzato su queste frequenze: prima si commentava nel blog, cioè nel luogo dello spunto, della notizia, oggi si commenta altrove, sui social, cioè nel luogo del riverbero, una agorà che usurpa contenuti non suoi e che declina ogni responsabilità rispetto ai contenuti tutti suoi.
Il tema della post verità ha aperto una nuova fase della mia vita professionale: da quando esiste questo blog ho cambiato lavoro almeno quattro volte, sempre con gioiosa fatica e con le mie sole forze. Oggi la vera soddisfazione arriva dalle università che mi chiamano a raccontare quel che ho appreso in questo lungo e periglioso cammino, dalla libertà con cui posso scrivere concedendomi il beneficio del dubbio, dall’orgogliosa insoddisfazione di aver scelto di guadagnare meno di chi mi ha preceduto e dal malcelato orgoglio di aver raggiunto risultati che i miei predecessori si sognano. Lo scrivo con presunzione perché ognuno a casa sua può mettere i piedi sul tavolino quando, alla sera, è giunto il momento di un rilassato bilancio. E nessuno può recensire le sue gambe stanche.
Perché questo è il mio blog e ho la concessione di suonarmela e di cantarmela: è inebriante quando qualcuno mi incontra e mi dice “ti leggo sempre” e io ringrazio sempre con la stessa frase, “Questo è il vero premio, il Signore te lo paga”. E giù benedizioni laiche che solitamente si traducono in aperitivo pagato. È accaduto sino a ieri con una persona sconosciuta, giuro.
Undici anni sono una vita e il giro di boa di una vita: oltre 3.600 post sono poco meno di un post al giorno, festivi e cazzi miei compresi. Converrete che è un dato che merita se non rispetto, almeno compassione.
Sorvolo su questo 2017 che se ne sta andando, un anno orribile per il sottoscritto, e guardo al futuro quando anche questo formato, con ogni probabilità, dovrà cambiare. I giornali poveri di idee e l’aggressività degli haters impongono mutazioni genetiche che non mi spaventano. Uno degli elementi che più mi inorgoglisce è la crescita esponenziale dei miei detrattori: quest’anno la magistratura penale ha condannato in sede definitiva un mio diffamatore con sentenza destinata a essere una pietra miliare nell’era delle fake news. Ciò vuol dire che vale ancora la pena di grattare la ruggine delle verità di comodo e di disarcionare gli improvvisati di un mestiere che al giorno d’oggi, purtroppo,  è fatto più di nostalgia che di illuminazioni.
Insomma in un clima da sopravvissuti vi dico grazie e una volta tanto vi chiedo di restare vigili.
Stiamo insieme che fuori fa freddo.

Una storia da manuale

La storia è da manuale. Come probabilmente sapete un “esperto tecnoinformatico, consulente in comunicazione, operatore audiovideo, scrittore, event planner” che si chiama Davide Guida è stato condannato in via definitiva per diffamazione dopo avermi ucciso sul web nel 2011. La sentenza è chiara e in qualche modo rappresenta una pietra miliare dato che parliamo di fake news ante litteram. Quello che apparentemente manca è il movente.
Però quello ve lo ricostruisco io con ragionevole approssimazione.
Esiste un collegamento (di IP) tra il sabotaggio della mia voce su Wikipedia e le provocazioni che si erano accese proprio il giorno prima su questo blog in questo preciso post in cui si parlava della propensione politica del centrodestra campano per le belle ragazze. Nello specifico si faceva il nome di una signorina che lega il post in questione a Guida. Questa ragazza – che ovviamente non ha alcuna colpa – viene indicata nel mio post (con foto) in un contesto ironico sulla situazione politica campana nel 2010. E la stessa signorina è una sorta di ossessione per Guida che, nel corso degli anni, le dedica su Facebook centinaia di post di ammirazione. Addirittura, due giorni dopo essere stato interrogato dalla polizia mette online una foto che lo ritrae insieme a lei come profilo del suo account Facebook.
Insomma in mancanza di altri possibili moventi, questo è quello più grottescamente probabile: una sorta di vendetta, un sabotaggio per d’onore. O chissà.
Resta un’ultima considerazione: un “esperto tecnicoinformatico” che si fa scoprire senza troppa fatica tramite il suo IP non è proprio garanzia di inossidabile professionalità. Ma ognuno è libero di scegliersi l’esperto che vuole.
Ve lo dicevo che questa è una storia da manuale. Di istruzioni.

Da oggi i podcast del Giustiziere

Siccome da queste parti non ci facciamo mancare niente, da oggi in questo blog c’è anche una sezione dedicata ai podcast. È una selezione di interventi del mio programma su Radio Time, il Giustiziere. Ci troverete cronaca, cazzeggio, provocazioni, musica e qualche incazzatura: insomma un modesto tranche de vie. Se proprio non avete nulla da fare, fate una visitina: e non fate caso alla mia dizione (l’infanzia trascorsa a Padova si sente), ma cercate di entrare in sintonia. Buon ascolto.

Grazie a Giuseppe Giglio e Alex Armao per la consulenza tecnica.