La fortuna di saper essere tristi

Tutti quanti abbiamo momenti difficili. E per non darvene uno a tradimento vi preavviso che questo post fa degnamente parte della categoria long form. Quindi leggete solo se avete tempo e voglia di mettere mano a un argomento che inesorabilmente ci riguarda tutti, ma altrettanto inesorabilmente è nascosto e/o mascherato da molti.
Premessa dello scrivente in nome e per conto dello stesso, a scanso di equivoci: parlare di difficoltà, di sentimenti urenti, di tristezza non significa necessariamente essere in difficoltà o avere le zampe impantanate nelle sabbie mobili della vita.
Si può, e si dovrebbe, discuterne senza remore, senza aver paura di disvelarsi o di schermarsi. Quindi io ci provo e mi tolgo subito il dente delle questioni personali: sono un Doc (da disturbo ossessivo compulsivo), ho avuto la fortuna di trovare una psicologa che mi ha illuminato e non disdegno di vivere appieno i miei momenti difficili. Inoltre, sbagliando, non condivido i miei problemi se non quando ho trovato una soluzione: non fatelo, è un atto di presunzione di cui aver vergogna.
Non sono mai stato un depresso, anzi la mia condizione vira esattamente verso l’opposto (e ciò non significa automaticamente che vada verso la felicità, eh).

Qualche anno fa la Pixar ambientò un cartone animato dentro il cervello di una ragazzina di undici anni. Ne venne fuori “Inside Out”, un’opera geniale e coraggiosa. Perché ci vuole genio per trasformare le emozioni umane nei personaggi di una storia. E ci vuole coraggio per rivendicare, tra queste emozioni, il ruolo fondamentale della tristezza, raffigurata come una bambina occhialuta, goffa e blu: blu, il colore dello spirito. Quante volte ci siamo sentiti inutilmente blu…
In pratica per buona parte del film la tristezza si accompagna alla gioia come un intralcio, una sabotatrice dell’ottimismo e della felicità. Ma alla fine la sua importanza viene riconosciuta.
Non è così nella vita vera, dove la tristezza è stata espulsa da qualsiasi discorso pubblico e privato. Trattata come un segnale di debolezza, una forma di sabotaggio.
Oggi come sempre il nostro sforzo quotidiano di giovani, vecchi, genitori, amici, figli, sopravviventi consiste nell’allontanare da chi ci è caro il fantasma della tristezza, quasi fosse una condanna a morte anziché un’occasione di crescita. È una questione culturale, frutto anche di una lunga epoca di imbonitori della politica che ci hanno sempre voluti pervasi da un entusiasmo ilare e beota. 
Per il pensiero comune e purtroppo dominante la tristezza è una iattura, è nemica dell’ottimismo nazionale, del negazionismo dei problemi, della sterilizzazione a uso social dei guai, insomma è un peso economico e sociale. In realtà basterebbe dare ascolto a un buon psicologo o a un’insegnante illuminata per rendersi conto che un essere umano incapace di accogliere la tristezza non è un essere umano, ma nel migliore dei casi un automa. Io la tristezza l’ho sempre vista come uno squarcio nel buio che ci permette di avere una visione delle nostre cose dall’interno, sotto una luce diversa, con una preziosa prospettiva. Talvolta mi sono rammaricato di non aver saputo essere triste abbastanza. Perché saper essere tristi significa essere consapevoli. E la consapevolezza è un buon grimaldello per le serrature dei momenti difficili.

Brevissima parentesi didascalica: ogni tanto serve, sennò discutiamo del sesso degli angeli. Oggi sappiamo che le emozioni fondamentali sono sette:
Gioia
Rabbia
Disgusto
Disprezzo
Tristezza
Sorpresa
Paura
Secondo gli psicologi servono a recapitarci dei messaggi. Come dei fedeli messaggeri, le nostre emozioni hanno uno spiccato senso del dovere: non accetterebbero mai l’idea di rinunciare alla loro missione. Quindi ogni volta che cerchiamo di intralciare la strada dei messaggeri, loro faranno in modo da trovarne una nuova: facendosi largo con ogni mezzo, scavando strade nuove, scavalcando muri e magari facendo qualche danno. Tutti abbiamo contezza di cosa significhi vivere una rabbia sempre più bruciante, oppure lasciare che una tristezza si tramuti, incontrollata, in un dolore sempre meno sopportabile.
Nel mio piccolo io adotto un metodo abbastanza semplice. Ogni volta che mi sto incasinando (e non immaginate quanto ciò accada spesso) cerco di riconoscere il messaggio, e soprattutto il messaggero, e di capire che minchia vuole.
Nei momenti difficili ad esempio ho decrittato che la tristezza incarna l’incontro tra il desiderio e i suoi limiti. E in particolare, spesso nel mio caso, non è l’esterno che in qualche modo delimita il desiderio, bensì è il limite stesso che è elemento costitutivo del desiderio. Quindi provare ad accettare la mia limitatezza aiuta in qualche modo a superare la tristezza. Ho detto provare, eh. Mica qui vendiamo le pozioni di Vanna Marchi.

E siamo alla parte più creativa del ragionamento: il rapporto tra tristezza e malinconia.
Victor Hugo scriveva della malinconia che è “la gioia di sentirsi tristi”. Non piace, ma è vero. A me non piace per niente, ma è innegabile che la malinconia genera creatività: non scriverei queste righe adesso se non fossi alimentato da una preziosissima malinconia, pur nella invidiabile serenità di casa mia.
Charles Baudelaire parlava di spleen: quel piccolo miracolo che si realizza quando la malinconia si traduce in una fertile produzione artistica e la sofferenza si trasforma in creatività.
Ecco, credo che solo se non viene scacciata subito, la malinconia può liberare questa energia ispiratrice. Poi c’è sempre un efficace termometro dell’umore facile da usare, ma questa ve la dico in un orecchio: quando siete felici vi piace la musica, quando siete triste capite i testi. Sssst!

Per finire vi riferisco di un’altra domanda che mi pongo quando il mio cervello rasenta il surriscaldamento: possibile che siamo prevalentemente chimica?
Qualche studio psichiatrico di cui ho letto (e di cui non trovo il link, mannaggia, ma fidatevi perché questa cosa l’avevo messa nei miei appunti di cassettista) è arrivato alla conclusione che un po’ di tristezza è utile alla nostra salute, mentre qualche altro, corroborato dalla nuda cronaca, ci dice che il mal d’amore può davvero uccidere.
Molti di noi conoscono il disagio o addirittura il dramma della depressione, pochi (io vorrei ardentemente essere tra questi) sanno leggere tra le righe del libro che scriviamo, giorno dopo giorno, con i nostri entusiasmi, le nostre incazzature, le nostre passioni e le relative delusioni. Siamo chimica, ci ricordano gli scienziati, siamo il frutto di un complicatissimo dosaggio istantaneo di ormoni, neurotrasmettitori, enzimi e chissà cos’altro. Dietro un sorriso c’è uno schizzo infinitesimale di serotonina. In una porta sbattuta c’è una mano dell’adrenalina. La visione biochimica delle emozioni mi ha consolato in qualche momento difficile, eppure mi ostino a valutare il calore di un abbraccio o l’incanto di un tramonto come qualcosa di estraneo ai composti del carbonio. Che la tristezza sia una tappa ineludibile nel lungo cammino verso la felicità ce lo insegnano i grandi artisti. Dietro un’opera memorabile c’è quasi sempre uno stato di insoddisfazione: uno scoppio propulsivo verso il meglio che si cerca e che non si trova. E – arrendiamoci – è questa tensione che ci regala il bello che non teme il tempo.

Soundtrack creata appositamente dalla mia amica Sarah

Non siamo alberi (purtroppo)

Gli alberi hanno sempre esercitato un grande fascino nei miei confronti. Da bambino ci saltavo su e mi ci arrampicavo, da grande mi sono lasciato affascinare dai loro numeri (il più alto, il più vecchio…) e sono andato a cercare in giro per il mondo quelli che andavano omaggiati di persona. È accaduto sulle montagne di casa mia, come sulle Alpi, come in California eccetera…
Gli alberi sono l’ispirazione di una metafora che mi serve per spiegare un concetto universale e ostico, che è perfetto in una frase di Snoopy: “Se non ci piace dove stiamo possiamo spostarci, non siamo alberi”.
Non siamo alberi, purtroppo.
Perché gli alberi crescono senza curarsi della parte più noiosa di ogni cambiamento, il trasloco.
Perché non conoscono la moneta di ogni mutazione, la responsabilità.
Perché se ardono non urlano, e se anche urlassero non potrebbero arrossire per la vergogna di mostrarsi nudi dinanzi alla resa di un sentimento.
Perché cambiano se stessi senza avere fisime di cambiare il mondo.
Perché se ne fottono di una foglia ingiallita, che non sarà mai come un capello bianco.  
Perché non amano nulla se non ciò in cui hanno radici.
Perché cambiano loro stessi prima che qualcuno o qualcosa li costringa a farlo.
Perché non hanno idee, ma foglie: e con le idee non si fabbrica ossigeno a buon mercato.
Perché sanno che la base di ogni vero cambiamento radicale è la perseveranza.
Perché sono fonte che trabocca e bacino che conserva.
Perché non hanno né invidia né riconoscenza: se si scassano la minchia ti muoiono nel giardino (per chi ce l’ha), se decidono di scassarti la minchia ti sopravvivono riempiendoti di foglie il balcone, il patio, la tomba.

Ecco perché cambiare, per noi non-alberi, è soprattutto un problema di posizione. Pensate a quanto la vostra vita avrebbe risentito di un posto diverso sul divano, di un aperitivo in un altro bar, di una passeggiata sul lungomare anziché in centro, di un sonno prolungato invece di una sveglia anticipata. Siamo dove siamo stati. Con chi è una semplice conseguenza.
Le radici, in fondo, sono solo degli alberi.  

La strada

Quando impari che c’è un rosé che ti può piacere, a patto che abbia le bollicine.

Quando pur di arrivare alla fine di un libro scegli di non dormire per una notte intera.

Quando chi c’è c’è e chi non c’è non è un caso che non ci sia.

Quando lo sport non è più schiavitù da endorfine, ma divertimento.

Quando il sentimento diventa una questione tua e solo tua.

Quando tutto si acquieta con Purple Rain e tutto si scatena con Back in Black.

Quando vedi qualcuno parlare di sé in terza persona e ti guardi intorno per capire con chi cazzo sta parlando: e quello se ne accorge.

Quando per prendere una decisione (più o meno importante) la prima riunione che convochi d’urgenza è quella con te stesso.

Quando hai il privilegio di poter scrivere quello che vuoi, ma scrivi quello che è giusto che tu voglia.

Quando gli amici non si contano, ma si pesano.

Quando i programmi dei comici sulla politica sono quelli televisivi e non quelli di governo.

Quando ti decidi a esercitare il tuo diritto al non perdono.

Quando perdoni e non sai bene perché, ma è forse un effetto delle scie chimiche.

Quando hai una minima occasione per esercitare un potere e la prima cosa che ti viene in mente è fare qualcosa che faccia sghignazzare chi ti sta intorno.

Quando magari ti piace essere riconosciuto, ma ancora di più mimetizzarti.

Quando una ruga non è più una rottura di coglioni, ma la cicatrice di un’infinita risata.

Quando le chiamate non risposte non ti danno più ansia.

Quando l’invidia è solo il refuso di un’insalata.

Quando sei pronto per il giro del mondo e manca solo per il mondo che non ti ha ancora proposto un programma compatibile con la tua Millemiglia.

Quando la bontà non è interessante se non c’è una persona debole di mezzo.

Quando l’ex potente che non ti ha mai salutato ti chiede un piccolo favore, e tu glielo fai col sadismo di chi vola alto ma mira al di sotto della cintola.

Quando la migliore parola non è quella che non si dice.

Quando la migliore parola non è quella che si vuol sentire dire.

Quando la libertà prevede una sola eccezione, essere padroni di se stessi…

… allora la strada è quella giusta, questo so.

Buon Natale, cari.