La politica del carciofo

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra

Dice il ministro Tremonti che il 2009 sarà un anno terribile per la nostra economia, nonostante il premier tenti di minimizzare da mesi la portata della crisi. Ora, se persino un fedele scudiero smentisce il verbo del padrone, c’è davvero da preoccuparsi. E non solo per il nostro conto in banca, ma per gli irritanti sofismi che chi ci governa sciorina a mo’ di filastrocca. Ci rimbambiscono avvertendoci che bisogna evitare la “stretta creditizia”, che ci sono “100 miliardi bloccati dall’eccesso di burocrazia”, che sui “bond non bisogna ragionare in termini di indebitamento”,  che il Pil è in calo. Nessuno però ha il coraggio di dire che la macchina burocratica, ancorché farraginosa, è vergognosamente costosa. Che i ministeri costano troppo e producono poco. Che i privilegi economici dei parlamentari andrebbero dimezzati. Che i prezzi al dettaglio dei beni primari dovrebbero essere tutelati per legge. Che il moltiplicarsi delle tasse genera il moltiplicarsi degli evasori. Che gli aiuti di Stato alle imprese sono un bicchiere d’acqua nella sabbia del Sahara.
Credo, ma posso sbagliare, che alle famiglie non si dia una mano promettendo “di potenziare gli strumenti per aiutarle nel pagamento delle rate dei mutui per la casa, l’acquisto di automobili e di altri beni”, ma impedendo che un carciofo costi un euro a Cerda (la patria del carciofo), che una famiglia media debba spendere quattro euro al giorno (ottomila lire) per comprare il pane, che una pizza margherita costi otto euro (sedicimila lire), che una birra nazionale al bar costi quattro euro, che una bottiglia d’acqua siciliana costi in un supermercato siciliano cinquanta centesimi (mille lire). Il “potenziamento di strumenti” di cui non si capisce un’acca insomma dovrebbe lasciar spazio al potenziamento della buona creanza. Che però come ogni cosa gratuita è difficile da reperire.

OT
A causa di un problema tecnico il blog non è stato raggiungibile per qualche ora. Mi scuso. Del resto, cose del genere succedono anche nelle migliori famiglie.

Libri appassionanti

Acrilico su carta di Gianni Allegra (da "Il diario", 2006)
Acrilico su carta di Gianni Allegra (da "Il diario", 2006)

Ho appena finito di leggere “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson e mi dispiace. Mi dispiace che il libro sia di sole 676 pagine, perché ne desideravo almeno altre cinquecento, tanto la storia è avvincente e ben costruita.
Sono sempre stato contrario all’uso di aggettivi quando si pronuncia (o si scrive, o addirittura si pensa) la parola arte. Alta, bassa, povera, colta, popolare e via modulando. Larsson, pur usando un linguaggio semplice che sembra esser stato studiato per i traduttori di mezzo mondo, costruisce un’opera di innegabile valore estetico che diverte e appassiona.
In un momento in cui, specialmente in Italia, abbondano i manifesti pseudo-idelogici imbottiti di cultura da Reader’s Digest (la cultura non celebra mai se stessa perché è la base di ogni celebrazione) è un piacere scoprire l’incanto di una vicenda narrata a meraviglia. Non so quanti di voi abbiano letto questo libro, però mi piacerebbe sapere se avete altri esempi da proporre. Libri che avete divorato, libri che vi dispiaceva abbandonare per colpa del sonno, libri di cui ricordate passi a memoria. Libri… mmmh, ci vorrebbe un aggettivo…  belli, ecco.

Aggiornamento. Rosa Maria Di Natale segnala quest’articolo, Giacomo Cacciatore invece propone di riflettere su questo.

Giornali, Sicilia, idee

Sta accadendo qualcosa di importante nel mondo dell’informazione siciliana. Il granitico sistema tripolare, ancorato a Giornale di Sicilia, La Sicilia e Gazzetta del Sud, deve fare i conti con gli spifferi di vitalità che provengono da nuove iniziative. E non parlo dell’edizione palermitana de La Repubblica, che in nove anni poco ha inciso sugli equilibri editoriali isolani.
La diffusione dei blog d’autore, quindi di spazi d’opinione di media-alta qualità, ha reso meno efficaci certe cortine fumogene che rallentavano (e a volte impedivano) la circolazione di molte notizie. Esempio: per diffondere un’opinione o per esprimere un parere titolato, prima o si aveva qualche santo in paradiso (leggi: redazione) o si ricorreva a un amico del santo in questione oppure si rimaneva socialmente afoni. Si assisteva, così, a un impoverimento di idee pubbliche poiché le voci “titolate” alle quali era consentito l’accesso alle colonne di un giornale erano poche e, ancor peggio, sempre le stesse. Oggi bastano un paio di blog ben fatti per raggiungere migliaia di persone e soprattutto per dar voce a chi non l’avrebbe mai trovata, pur meritandosela, nel “sistema tripolare”.
Ci sono poi nuovi eventi, inquadrati in una genuina ottica imprenditoriale, che rendono il panorama ancora più interessante. Un giovane gruppo palermitano, in circa due anni, ha messo su tre nuove riviste, ha assunto giovani disoccupati e valorizzato teste pensanti, ha creato un portale di informazione regionale, si è impegnato nella produzione di eventi di alta qualità e, con una buona dose di geniale coraggio, si è buttato nell’informazione cartacea on demand. Cioè nella pubblicazione di un giornale che va in edicola solo quando ci sono grandi notizie. Un bel passo avanti se considerate che qualche decennio fa un giornale siciliano dedicò la sua apertura a tutta pagina all’ennesima crisi dell’ennesimo governo Andreotti titolando: “Nessuna novità di rilievo”. In tempi più recenti, un altro quotidiano di casa nostra aprì col titolo: “E’ scoppiata l’estate”. Ed era giugno.
Oggi, sempre meno lettori hanno voglia di leggere e sempre più lettori hanno voglia di riflettere. Le notizie ci raggiungono ovunque ci troviamo, essere disinformati è un lavoro difficilissimo. Alcuni giornali si riciclano come risolutori di problemi (non so perché, ma mi ricordano il ruolo di Harvey Keitel in Pulp Fiction) ritenendo che i veri cronisti siano i cittadini che protestano per un rubinetto che perde o per un piccione che sfoga il suo attacco di dissenteria sul loro balcone. E’ come credere che il miglior medico sia il malato.
Quel che di buono sta accadendo nell’informazione siciliana è invece che ognuno, in queste nuove realtà, riprende il proprio ruolo e, se ne ha le capacità, ne sperimenta di nuovi. Senza ruffiane mediazioni e altro motivo d’ispirazione che non sia l’appassionante inseguimento di un’idea.

Sono sante canzonette

Paolo BonolisErano rimaste solo le canzonette. Il Vaticano si era espresso su tutto: famiglia, politica, presente, economia, futuro, astrofisica, letteratura, cinema, beghe condominiali, carovita, giornali, storia, crimini, giovani, morte, sopravvivenza, malati che non vogliono vivere, viventi che non vogliono ammalarsi, guerra, martiri, sesso e altro enciclopedicamente vagheggiando.
Ora la pulsione (re)censoria dei porporati che si spinge oltre la soglia del tempio dell’italica leggerezza umana, cioè il teatro Ariston di Sanremo, ci conferma che alla presunzione degli uomini “in missione per conto di Dio” non c’è argine.
Se, sul foglio della Santa Sede (e sulle sue fotocopie), si arriva a discettare  a proposito della liceità dei messaggi del Festival della canzone italiana e dei suoi contenuti, il segnale è allarmante.
Vuol dire che serve un Bonolis anche dalle parti di Piazza San Pietro.

L’arma dell’arte

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra

Nel marasma quotidiano di fabbriche che chiudono, decreti armati, intelligenze disarmate, politica inutile, cassetti pieni di cose utili, saltimbanchi in doppio petto, idioti impettiti, morti spacciati per vivi, vivi che insegnano a piangere ai morti, cattive intenzioni fatte passare per soluzioni e soluzioni bruciate come cattive intenzioni, mi sento meglio quando leggo un libro o ascolto musica. E più vado avanti negli anni, più ho la consapevolezza che l’arte sia una specie di vaccino. Il culto del bello è uno scudo contro le offese del non bello, perché non prevede l’inquinamento dell’etica, non si impantana nelle convenzioni. E’ la strada migliore verso la libertà, ognuno ha la sua e nessuno può piazzare divieti per capriccio.
C’è un tale che sta ravanando tra le rovine di questo paese. Quest’uomo, forte delle regole che detta lui stesso (salvo smontarle e rimontarle in modo diverso, ogni giorno, tipo Lego), non si fermerà fin quando non troverà quel che inconsapevolmente cerca: il seme della propria follia.
Se dedichiamo attenzione a ciò che a lui è ontologicamente estraneo, cioè all’arte, gli toglieremo l’audience che è il suo ossigeno.
Parliamo di libri, di musica, di pittura, di cinema. Tanto, anche se il Dittatore delle macerie ci spiasse, non capirebbe un tubo.
Ad esempio, in tempi di disperazione, suggerisco la lettura de “L’esistenza di dio” di Raul Montanari.

Aboliamo il Grande Fratello

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra

Su Blob, ieri, ho visto un frammento del Grande Fratello. Ho sbirciato tra le pieghe di un tradimento (anzi, dei suoi postumi) in diretta, con lacrime finte e ignoranza genuina. Mi è salito un malumore che ha imbarazzato i miei ospiti.
Il fatto è che in questa trasmissione le peggiori intenzioni diventano manifesto, l’umana idiozia assurge al ruolo di fenomeno di costume, il peggio fa spettacolo. Ci sono psicopatici che dettano regole di vita e comparse senza un briciolo di talento costrette a ruoli di improbabili protagonisti. La parte più raffinata del programma sono le scene di sesso clandestino.
Eppure tra un film porno, dove l’oscenità e i paradossi sono dichiarati, e il Grande Fratello, che ammorba le menti con una finzione banalmente volgare, c’è un’enorme differenza: il sesso è di (quasi) tutti, l’imbecillità no.
Tra i motivi che giustificano la decretazione d’urgenza io metterei la tutela della decenza intellettuale. Il Grande Fratello va abolito per legge.

Eluana, il silenzio e l’ipocrisia

C’è una parola che, più delle altre, traduce in queste ore il senso di ipocrisia per la morte di Eluana Englaro. Quella parola è: silenzio.
L’ho letta troppe volte sui giornali, sul web, l’ho ascoltata in televisione e alla radio. Quando non si sa che dire su un tema difficile, quando ci si deve schierare per manifestare almeno la propria esistenza in vita, il più delle volte ci si rifugia nel silenzio.
Il caso di Eluana Englaro ci insegna che il silenzio blaterato come fosse chiacchiera da bar è il peggior nemico della ragione.
Non si può star zitti davanti al comportamento di un governo che ha imboccato la traversa di un populismo simil-cattolico con la Cadillac di una cristianità dittatoriale.
Non si può inghiottire il primo commento del Vaticano: “Che il Signore li perdoni”. Chi? I vescovi lontani dal pulsare dell’umanità? I politici dell’ultima ora che si fanno padri costituenti? Un premier e i suoi accoliti che si pongono in diretta concorrenza con Gesù e i suoi apostoli?
Il silenzio è più che fuori luogo, ora che Eluana Englaro è morta.
C’è di che urlare per ripristinare una realtà dei fatti che, se non ci fosse un dramma di mezzo, sarebbe da far sganasciare dalle risate per la ridicolaggine. “Eluana potrebbe avere dei figli”, “Ha le mestruazioni”, “Tossisce e sbadiglia”. Un cardinale che vive più di qualifica che di nome e cognome (è prefetto per la Congregazione della causa dei santi e membro del pontificio consiglio della pastorale degli operatori sanitari, in pratica un ossimoro vivente e, quel che è peggio, officiante), grida all’omicidio.
Banditi e imbroglioni!
Eluana è morta diciassette anni fa.
L’ha detto suo padre, l’unico a cui ho creduto, credo, e a cui crederò.
L’unico che, adesso, può invocare il silenzio.

Eluana, mio padre e le foglie

di Roberto Puglisi

L’highlander al fast food

Suocerando

di Abbattiamo i termosifoni

Man mano che il tempo passa, mia suocera ringiovanisce. E’ una specie di highlander femmina. L’ultima sua trovata è in stile Happy Days: con un paio di fuseaux, i calzini corti e un foulard al collo, proprio come le ragazze che nel telefilm americano frequentavano il mitico Arnold’s, questa indomabile ottantenne ha preso l’abitudine di fare due pellegrinaggi bisettimanali. Non, come farebbero tante pie vecchiette, a San Giovanni Rotondo o – per restare in zona – al santuario di Santa Rosalia. Lei da qualche mese va da Mac Donald’s. Dove non era mai stata prima.
Alla sua età ha scoperto il fast food. Con la badante al seguito, si accomoda ai tavolini, beata tra bambini che schiamazzano lanciandosi patatine fritte, musica a palla e puzza di grassi non meglio identificati, e ordina. Rigorosamente un Happy meal. Quello o nient’altro: e non per il panino che c’è dentro – sul contenuto non ha preferenze, purché sia vagamente commestibile nonostante la sottiletta arancione e tutto il resto – ma perché vuole la sorpresa: orsetti, giraffe, delfini di plastica, robot, peluche. Purché non siano viola. Per carità! E’ superstiziosissima e se pesca un gadget di quel colore, protesta e se lo fa cambiare.
In proposito, proprio oggi mi ha raccontato che giovedì scorso le hanno dato (testuale) “il panino con la giraffa”…
Ho sempre pensato che il ripieno dei prodotti Mac Donald’s fosse di dubbia natura, ma non fino a questo punto.
L’unico problema, la prima volta che mia suocera è stata nel suo nuovo paradiso artificiale (è il caso di dirlo, basta appunto guardare la carne che usano), è stato capire dove avesse imposto alla badante di portarla.
“Francesca, dove hai cenato?”, le ho chiesto.
“Da Marco Macchi”, ha risposto senza esitazione. Io ho pensato che fosse il nome di battesimo di un ristoratore che non conoscevo.
La seconda volta non è andata meglio:
“Sono stata da Macchi Macchi”, ha trillato.
“Ah…”. L’interpretazione, per me, si faceva più complessa.
Poi, un giorno, è tornata con un palloncino in mano. Alcune promotrici del Conad che sta accanto al suo Mac Donald’s preferito avevano regalato ai clienti del fast food palloncini pubblicitari gialli, attaccati a un bastoncino. Sulla plastica, in rosso e con caratteri così grandi da non sfuggire nemmeno alle cataratte più accanite, c’era il nome del supermercato.
Così Mac Donald’s, nel vocabolario di mia suocera, è diventato Conàid. Due giorni dopo riadattato in Conàld.
Quando questa bizzarra donna cena lì, da Marco Macchi o da Conàld che dir si voglia, mangia sempre quello che lei chiama l’“amburgo”.
Mastica di certo molti “amburgo”, ma poco, pochissimo, l’inglese.

Le mille bolle blu

Mi concedo qualche giorno di vacanza. E vi lascio con una segnalazione che spero apprezzerete.  Da oggi (15) a domenica (18), torna in scena, al Teatro Nuovo Montevergini di Palermo, “Le mille bolle blu”, il monologo scritto dal giornalista Salvatore Rizzo, interpretato e diretto da Filippo Luna.
“Le mille bolle blu” racconta la struggente storia di un amore omosessuale vissuto per trent’anni nella clandestinità. Protagonisti sono Nardino ed Emanuele, barbiere il primo e avvocato il secondo: la scintilla tra i due giovani scocca proprio nella bottega di Nardino, tra una poltrona in acciaio, pelle e bianca ceramica e una saracinesca abbassata.
La bottega diventa così il cuore pulsante di un amore che infrange le regole di una società abituata a relazioni di tutt’altra natura, un sentimento segreto che costeggia – senza mai scalfirla – la  loro normale vita di mariti e padri di famiglia.
“Le Mille bolle blu” è tratto dall’omonimo racconto contenuto nel libro “Muore lentamente chi evita una passione. Diverse storie diverse”, pubblicato lo scorso anno da Sigma Edizioni (da giugno Pietro Vittorietti Edizioni), una raccolta di dieci storie, tutte autentiche, di omosessualità maschile in Sicilia, dai primi anni del Novecento fino ai nostri giorni. I racconti sono firmati da tre giornalisti palermitani: Salvatore Rizzo, Angela Mannino e Maria Elena Vittorietti.

Palermo, via Cammarata

E non è un indirizzo.

Grazie a Gianni Allegra.