La memoria coatta

C’è un gran casino, forse per il caldo e forse anche per la noia d’agosto, sulla vicenda del parco di Parma intitolato a Sandra Mondaini e Raimondo Vianello anziché a Falcone e Borsellino.
Spesso quando c’è di mezzo l’antimafia la vista si annebbia e la capacità di analisi si appiattisce: è più comodo spararla grossa e mancare il bersaglio che tenere il colpo in canna e mostrarsi prudenti.
La storia di Parma ha un retroscena non di poco conto. Il parco, anzi una porzione di parco, non è più intitolata ai due giudici dal 2007, da quando cioè vi fu l’unificazione con un’altra parte di verde. L’area si chiama Parco Eridania, e tutti in città la conoscono così. Continua a leggere La memoria coatta

Mentre Borsellino moriva


Quando ammazzarono Paolo Borsellino io ero in ferie, a Levanzo. Mentre il tritolo lacerava il giudice e gli agenti della scorta, io dormivo.
La mattina ero andato a pescare con i miei cugini per poi rivendere il pesce al ristorante presso il quale avremmo cenato la sera stessa: consumando e pagando più del doppio il pesce che noi stessi avevamo fornito.
Avevo già un telefono cellulare, un Mitsubishi, che incastravo sul bordo di una finestra socchiusa, nella stanza in cui vivevo per quelle settimane di leggendaria spensieratezza. La linea era sempre disturbata e la posizione millimetrica dell’apparecchio era determinante per ricevere una telefonata oppure niente.
Quel pomeriggio quando mi risvegliai mi accorsi che un colpo di vento aveva fatto cadere il cellulare per terra. Non appena lo ricomposi e lo riaccesi, l’apparecchio squillò con tutti gli arretrati di notizie che mi ero perso. Mio fratello fu il primo a dirmi cosa era successo. Poi un collega del giornale. Poi un altro collega di una tv. Accesi il televisore, Canale 5, e vidi un giovanissimo Salvo Sottile, irriconoscibile – che pure avevo visto crescere accanto a me – che biascicava frasi di circostanza davanti al nulla di una strage assurda.
La sera non andai a mangiare al ristorante al quale avevamo consegnato una cernia di quattro chili e optai per una frittata che mi offrì Nitto Mineo, il padrone dell’albergo in cui mi trovavo.
Parlò solo lui, tavolo per due. Mi raccontò delle tonnare, del mare, e di quando uno squalo lo aveva mancato per un paio di centimetri. Poi quasi si scusò per quella narrazione lontana dal fumo oleoso di via D’Amelio.
Io lo ringraziai e, dopo una generosa dose di Fernet, andai a letto.
Ci misi un paio di ore prima di addormentarmi. Poi cedetti alla stanchezza.
Tutto questo mi sembra che sia accaduto ieri. Invece sono passati 19 anni.
Ero giovane, ora non lo sono più.
Si invecchia in un attimo, giusto il tempo di fermarsi a ricordare.

Un signor fotografo

Foto di Roberto Gentile

Sapete chi è quest’uomo? Sbirciate alle sue spalle per trovare un indizio. Un altro aiuto: è un fotografo. E ha una bella storia da raccontare. Se volete la trovate qua.
Però domani ne parliamo qua.

 

Je so’ pazzo

«Borsellino e Falcone li hanno uccisi perché erano vicini alla verità. Pensate che se Saviano fosse davvero pericoloso non lo avrebbero già ucciso? Io nella camorra ci sono nato, so come agisce».

Mi era sfuggita questa entrata a gamba tesa di Pino Daniele su Roberto Saviano.

L’albero Falcone, i fogli e le foglie

L’indignazione prêt-à-porter per l’oltraggio all’albero Falcone meriterebbe come minimo un convegno (al quale mi piacerebbe partecipare, anche come cameriere). Invece viene liquidata dai media come la reazione a un fatto di cronaca: come un evento e non come un fenomeno.
Ebbene, secondo me, dietro c’è molto altro.

C’è l’affezione comoda al simbolo più comodo. Un albero non è – per esempio – una scuola, non c’è bisogno di mantenerlo, non costa nulla e vale tantissimo in termini di ritorno d’immagine. Non a caso l’albero Falcone è il ritrovo ideale per politici di ogni stagione. In un luogo del genere le fedine penali dovrebbero valere più delle cariche istituzionali, eppure la coltura estensiva della memoria a buon mercato fa tali miracoli che nemmeno la più truce riforma berlusconiana potrebbe eguagliare. E poi i morti non possono protestare.

C’è un costume furbo di mostrarsi senza schierarsi. Davanti all’albero Falcone chiunque gode dello status di rifugiato antimafioso senza dover dimostrare nulla fuorché la propria presenza. Non è richiesta un’opinione, men che meno un’intenzione.

C’è l’usurpazione di un passato che è di tutti, ma non per tutti. Falcone e Borsellino appartengono alla nostra storia ma, è bene ricordarlo, non sono – e non sono mai stati – un modello universale. Tra quelli che passeggiano sotto l’albero di via Notarbartolo ci sono ancora mandanti più o meno occulti ed esecutori più o meno coperti di delitti che hanno rischiato di radere al suolo le nostre speranze.

C’è infine una certa antimafia casual, figlia dell’anti-antimafia degli anni ’80 che contrastava la Primavera di Palermo e flirtava coi poteri forti ancora (e per poco) non insozzati di sangue. Esiste un’ampia pubblicistica al riguardo, basta andare a consultare le collezioni del Giornale di Sicilia degli anni Ottanta: dalla signora che protesta per le sirene delle scorte, alle campagne di stampa contro i metodi del pool antimafia orchestrate dai soliti noti.

Il titolo del Gds ieri, a proposito di quello che veniva definito “misterioso assalto all’albero Falcone” era: “Sfregio alla città”.
Per lo sfregio alla civiltà scrivere al direttore.

A Biagio, Giuditta e Paolo

C’è una vicenda dolorosa di cui si discute in questi giorni a Palermo e per la quale è stata avviata persino una petizione su Facebook. L’aula del liceo Meli di Palermo intitolata a Biagio Siciliano e Giuditta Milella, i due studenti investiti e uccisi nel 1985 dall’autoscorta di Paolo Borsellino, ha cambiato nome ed è stata dedicata allo stesso Borsellino.
Il dolore, almeno il mio, proviene proprio da quest’intreccio di destini, dall’insana consapevolezza che per far posto a un giusto si debbano spostare due giusti.
La gestione della memoria ha, in questa città smemorata, picchi di schizofrenia. Perché comprimere con forza il ricordo di due ragazzini felici, falciati da un’auto che schizzava attraverso la Palermo/Beirut per non diventare carcassa, e annullarlo in quello dedicato a un giudice martire?
Biagio, Giuditta, Paolo – qualcuno dovrebbe ricordarlo – pretendevano una vita felice. Non l’hanno avuta, gli è stata sottratta.
Invece di pasticciare tra professorini, presidi, tentazioni politiche e un certo cattivo gusto, facciamo una cosa: non necessariamente ottima, ma appena sufficiente a evitare l’oltraggio alla memoria.  Intitoliamola a tutti e tre, quell’aula.
A Biagio, Giuditta e Paolo.

Premio “cittadino civile”

laurea

Nella vicenda del fuorionda di Fini, lo spunto di riflessione più interessante lo fornisce l’autore dello scoop, Vincenzo Cicconi, uno che di mestiere si occupa di filmati di matrimoni e che il 6 novembre era stato ingaggiato per piazzare due telecamere nella sala in cui si svolgeva l’ormai celebre convegno su Borsellino.
Dice, e c’è motivo di credergli, di essersi accorto per caso delle dichiarazioni catturate dai microfoni accesi e di averci pensato su per settimane prima di renderle pubbliche.
“Poi su facebook ho letto un post di Sandro Ruotolo, c’era scritto che un giornalista non deve stare a guardare se una cosa danneggia o favorisce qualcuno, ma solo raccontare il fatto. Io non sono un giornalista, ma così ho fatto”.
A Vincenzo Cicconi non andrebbe data una tessera di giornalista ad honorem, ma una laurea honoris causa in civiltà. Ha infatti ascoltato, pensato, pesato e agito. Come dovrebbero fare tutti.

La memoria e la nudità

La foto è di Tony Gentile
La foto è di Tony Gentile

Per un errore nel cerimoniale, che ha il sapore di una vendetta politica, alla cena organizzata dal presidente della regione siciliana Raffaele Lombardo in onore del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, non sono stati invitati il presidente del Senato Renato Schifani, il presidente dell’Ars Francesco Cascio, il sindaco di Palermo Diego Cammarata e altri illustrissimi e bravissimi e preziosissimi rappresentanti istituzionali.
L’occasione era quella del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci.
Col passare del tempo, credo sempre più nel potere taumaturgico della memoria e sempre meno nell’ostentazione di essa.
Oso: tanto una ricorrenza è dolorosa, quanto dovrebbe essere allontanata dalla vetrina. Il modo perfetto per ricordare i martiri come Falcone, Borsellino a tanti altri dovrebbe essere quello che più rispetta l’intimità dei cari. E per “cari” non intendo solo i familiari, ma tutte le persone a cui uomini di tal coraggio mancano nella vita di ogni giorno. Mi piacerebbero manifestazioni private aperte ai singoli privati, che siano presidenti di qualcosa o di nulla, cittadini privilegiati o qualsiasi. Un coro di preghiere, magari ognuno verso il proprio dio, senza il vizio del censo, dell’investitura, del ruolo. Del resto, in questi casi non è il dato anagrafico del mittente che conta, ma la destinazione.
La parola “cerimoniale” in questi casi stride come una bestemmia in chiesa. Se c’è un momento in cui ci si ritrova nudi, quindi tutti inesorabilmente sullo stesso piano, è quello del ricordo: ognuno ha il suo, intimo, personale. Se c’è qualcuno che sgomita per essere in prima fila, magari per ostentare l’abito o la divisa nuovi, è un uomo senza nudità. Una persona falsa, insomma.