Butterfly Blues, il podcast

Le piccole battaglie quotidiane, le grandi scommesse di sogni infranti, l’antimafia, il gioco di specchi della politica, le promesse e le disillusioni. “Butterfly Blues” è il canto dolente di una generazione che voleva cambiare il mondo e invece si è accapigliata solo per cercare qualcuno su cui scaricare le sue stesse colpe. “Butterfly Blues” è stato uno spettacolo che negli anni si è evoluto. Nato nel 2019 come orazione civile per voce narrante e pianoforti per “Piano City”, si è evoluto negli anni in opera corale e danza. Da oggi è anche un podcast, liberamente ispirato a quello spettacolo di cui trovate qui dettagli e protagonisti.
P.S. Grazie sempre a Gabriella Guarnera per la voce e la pazienza.

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Sedici

Arriva un momento in cui può capitare di aver bisogno di cambiare. Di cambiare tutto.
A me accadde sedici anni fa, nel modo più tranciante. A un certo punto mi resi conto che non ero più soddisfatto di quello che facevo, non mi divertivo più e anzi, a dire il vero, mi rompevo abbastanza le scatole per ogni giorno che il Signore mandava in terra. Decisi così la mia personale rivoluzione, una rivoluzione nella quale – va detto – fui molto fortunato giacché partivo, lancia in resta, con molte possibilità di fallire e addirittura di farmi male.
Nel giro di pochi mesi mollai un posto da viceredattore capo al Giornale di Sicilia (un posto di quelli ritenuti allora sicuri, ben retribuito), chiusi porte e portoni di ogni genere e finii a gambe all’aria. Vi dico solo che per una settimana dormii in auto, dato che non avevo più neanche una casa in cui stare.
Non sono mai stato ricco, provengo da una famiglia borghese ma di certo non ricca, quindi la situazione era abbastanza complicata. Fu così che una sera decisi di andare a casa dei miei genitori, fino a quel momento all’oscuro di tutto, e di metterli al corrente dei miei casini. Mi ero preparato al peggio, i miei mi avevano sempre ritenuto (almeno sino a quel momento) una testa calda ed ero pronto se non allo scontro, a sorbirmi una ramanzina.
Invece andò diversamente. E credo che lì, quella sera, tutto cambiò davvero.

Non appena cominciai a raccontare degli sfaceli che deliberatamente avevo scelto come estemporanea filosofia di vita (perché accade che le migliori scelte siano quelle che a prima vista sembrano le peggiori, ma lo veniamo a sapere sempre troppo tardi) mio padre aprì una bottiglia di vino mentre mia madre si mise ai fornelli. Eravamo tutti e tre in cucina ed il loro modo di ascoltare fu un misto di attenzione e cura; volevano fare con semplicità quello che sino ad allora non gli era riuscito facile, prevalentemente per colpa mia, cioè darmi una sensazione di sicurezza.
Fu così che in una sera feci il più importante giro di boa della mia vita.
Decisi di farmi una casa tutta mia, niente più affitti, convivenze in proprietà altrui, falso godimento della provvisorietà. Volevo mettere radici in un mondo in cui vivere soddisfatto. Imparai mestieri nuovi, grazie sempre alla scrittura: scoprii che c’erano pochi ghostwriter in Italia e riuscii in pochi mesi a trovare lavoro in un paio di importanti gruppi editoriali; scrissi da perfetto fantasma di tutto per tutti, dalle radio alla carta stampata; condussi una rivoluzione web in un paio di periodici nazionali; scrissi qualche libro e così via.
Ma soprattutto affrontai la prova delle prove: vivere a casa dei miei genitori, con i miei genitori, per sei mesi. In pratica a 43 anni mi ritrovai ragazzino, alle prese con riti che avevo dimenticato, con antiche usanze domestiche (tipo che si pranza e si cena sempre a una certa ora). Dovetti riprendere confidenza con la cura culinaria di mia madre che, pensandomi sempre denutrito nonostante la testimonianza inoppugnabile del girovita, alle 8 di mattina assieme al caffè serviva il menù della cena per il quale si era messa ai fornelli già alle 5 (perché certe cose se non le cucini all’alba non sono buone…). Imparai a condividere i cazzi miei con mio padre, il quale con amorevole candore riteneva naturale sedersi accanto a me quando ero al computer e commentare tutto, ma proprio tutto, ciò che scrivevo mentre lo scrivevo: soprattutto le cose più personali (la curiosità spudorata deve essere un tratto genetico). Insomma ero un figlio ritrovato e mio padre, affamato di storie, esercitava legittimamente il meraviglioso diritto all’invadenza affettiva.

Questa storia ha un paio di passaggi che, ancora oggi, mi sembrano irreali: sapete, quei ricordi che col tempo diventano un film e vivono per decenni in un limbo tra fantasia e realtà…
Una mattina, la prima in cui mi svegliai in quella casa nella rinnovata veste di figliol prodigo, rimarrà memorabile negli annali della mia famiglia.
Mi alzai ed ero solo poiché i miei avevano programmato una gita fuori porta. Poco male, mi dissi, così mi ambiento senza rompere le scatole a nessuno (ovviamente i miei sensi di colpa erano alle stelle). Feci colazione con vista sul mare, poi stancamente fumai la prima sigaretta. Dopo andai a lavarmi i denti nel bagno dei miei. Mentre agivo di spazzolino sentivo qualcosa di strano, ma pensai che era colpa di quella sigaretta prematura (solitamente non fumavo mai di mattina, ma in quei giorni ero incasinato, preoccupato, scazzato e fumavo il fumabile sempre e dappertutto). Quando mi accorsi che l’impasto tra i denti aveva assunto una preoccupante consistenza oleosa decisi di inforcare gli occhiali e presi il tubetto.
Crema per i piedi.
Così imparai la prima regola del manuale del figliol prodigo più figliol che prodigo: casa che vai stranezze che trovi e più non dimandar.
I miei genitori nella loro categorizzazione delle cose tenevano in buon conto quella dei tubetti, a prescindere da ciò che essi contenevano. Quindi la crema per i piedi stava insieme al dentifricio, e non ho mai avuto l’opportunità – perché da allora misi attenzione (e occhiali) prima di compiere un’azione in cui c’era da spremere un contenitore – di verificare altre coesistenze balzane: chissà, con un po’ di impegno un giorno avrei spalmato della maionese per contrastare le occhiaie o avrei usato del Lasonil per lucidare le scarpe. Comunque ci misi un’ora per sciacquarmi la bocca e cinque sigarette per riacquistare lucidità. Poi, data la bella giornata, decisi di mettermi al sole.
Sparai musica a palla dalla radio dell’auto parcheggiata vicino, e chiusi gli occhi.
Uno spruzzo in volto.
La sensazione di qualcosa che viene giù dal cielo.
“Cazzo, piove!”
Apro un occhio ma il sole è abbagliante.
Altra roba addosso. Frammenti umidi, sempre di più.
Non era pioggia. Ma… sardine.
Sì, sardine. O comunque pesciolini che venivano giù dal cielo.
In un paio di minuti dovetti fuggire perché ero tempestato da una pioggia di animali (io, vegetariano!).
Ci misi un bel po’ a razionalizzare come accade quando ci si trova dinanzi a un evento che si annuncia figlio (indegno) del paranormale.
Alzai gli occhi e vidi una battaglia di gabbiani che si disputavano qualcosa proprio sopra la mia sedia a sdraio. Capite bene che il passaggio dal “tubetto selvaggio” al “piovono pesci” fu traumatico. E soprattutto indelebile.

Tutto ciò accadde nel primo giorno della mia emancipazione da una vita insoddisfacente. E, ne sono certo, ci fu una “mano de Dios” per darmi una lezione: della serie impara a vivere, non ti meravigliare troppo per ciò di non sai e non rompere il cazzo con ciò che credi di sapere.
Da lì la convivenza coi miei fu una discesa. Mi abituai a discutere di pasta coi broccoli arriminati e di peperoni ripieni appena sveglio, e a rispondere a mio padre che all’una di notte, allarmato perché non ero ancora rientrato a casa (a 43 anni!), mi telefonava e affettuosamente si diceva preoccupato: “Tranquillo pa’, sto bene. Tra poco torno”, biascicavo da un pub la cui unica attrattiva era la birra era che costava poco.
La cosa che ho imparato da quell’esperienza – che qui ho riassunto togliendo il 90 per cento degli aneddoti (alcuni dei quali mi riservo di raccontarvi) – è che non è mai troppo tardi per tornare sui nostri passi, che i pregiudizi non sono giudizi anticipati ma cazzate definitive.

Soprattutto mi preme dirvi perché vi ho raccontato questa storia.

Sedici anni fa, in quel ciclone di follie, mi inventavo una casa virtuale mentre costruivo una casa reale.
Esattamente sedici anni fa nasceva questo blog. Con una consapevolezza: che avrei vissuto giorni da radice e giorni da foglia in un’esistenza, virtuale e reale, che è sia albero che vento.
Per ora, buon vento.

Scopro le carte

Qualche giorno fa ho scritto sui miei ispiratori, persone e personaggi che in qualche modo mi hanno influenzato nella professione, nelle passioni, nello sport e in generale nella visione delle cose del mondo.
Non è una classifica, né una walk of fame. Non ci sono etica e rimbalzi sociali a condizionarmi. Non è una lista di buoni, di geni, di perfetti, di modelli: alcuni di loro lo sono innegabilmente, altri sono persone qualunque che hanno “funzionato” magari solo con me, a loro insaputa. Non è nemmeno una resa dei conti. Perché sono grato a ognuno di loro e se mai ci fosse da pagare un conto, dovrei essere io a mettere la mano al portafoglio.
Insomma completiamola, quest’opera. E spieghiamo. Spiegare non è mai superfluo. Magari provateci anche voi: a una certa età mettere nero su bianco le cose importanti fa sempre bene.

Donald Fagen è la mia musica con e senza gli Steely Dan, la mia vita si divide tra prima e dopo The Nightfly. (Lo sto ascoltando mentre scrivo queste righe)

Stephen King è il maestro anzi il Re. Non ho mai letto un suo libro distrattamente, neanche quelli che mi sono piaciuti meno.

Gino Vannelli è la colonna sonora delle mie imprese sciistiche. Ancora oggi quando ascolto Brother to Brother sento odore di sciolina nell’aria.

Phil Collins, perché non è ancora morto.

Sheila E., la vidi in concerto con Prince (di cui sotto) e capii che grazia e potenza e bellezza stavano tutte lì, davanti ai miei occhi stralunati.

Manolo l’ho frequentato da ex arrampicatore, da giornalista e poi da amico.

Toni Valeruz mi fece venire la più insana delle idee della mia vita: buttarmi con gli sci da una pietraia di Monte Pellegrino. Per fortuna ci ripensai, altrimenti non sarei qui. O ci sarei a rate.

Prince è stato il mio alfabeto musicale.

Clare H. Torry perché è la voce più bella della canzone più bella.

Nick Hornby scrive con la fluidità e la serena spensieratezza che vorrei avere io e che nessuno ha, a parte lui.

Ernest Shackleton è il mio eroe della più grande avventura cinematografica che non è mai stata un film.

Moana Pozzi, perché l’ho conosciuta e non dimenticherò mai che l’intelligenza è sexy.

Salvo Licata è stato il mio maestro di giornalismo e, diciamolo, di vita.

Wassily Kandinsky, perché i suoi colori visti all’Hermitage di San Pietroburgo li ho ancora negli occhi.

Italo Calvino, le “Lezioni Americane” è il libro che mi ha cambiato la vita. E che mi ha costretto a fare conferenze sui libri che cambiano la vita…

Claudio Magris, ovvero il Sommo Magris.

Roger “Verbal” Kint (attenzione spoiler!) è Keyser Söze, il protagonista del più bel giallo-thriller di tutti i tempi.

Oriana Fallaci, perché non essere d’accordo con lei era insostituibile spunto di arricchimento.

Graham Vick, un grande regista teatrale, uno dei giganti che ti metteva a tuo agio con idee di una genialità sconvolgente e che non ti guardava mai dall’alto in basso. Una volta con lui realizzammo un fotoromanzo…

Pat Metheny, la chitarra e il chitarrismo quando volevo essere un chitarrista.

Donna Summer, il primo turbamento sensuale per un sussurro che veniva fuori da un vinile.

Filippo Carollo, l’amico che mi manca ormai quasi da trent’anni. Un amico che non sono riuscito a salvare.

Peppino Sottile, il giornalista che mi ha dato fiducia nonostante la sua intransigente ferocia. Ancora oggi quando ci sentiamo cito a memoria le sue cazziate.

Guido e Maurizio De Angelis. Il primo 33 giri che ho consumato sino a piallarlo. Un The Best delle loro colonne sonore: da “Piedone lo sbirro” a “Altrimenti ci arrabbiamo”, da “Per grazia ricevuta” a “Orzowei”.

Niccolò Ammaniti perché “Ti prendo e ti porto via” è il mio romanzo d’amore.

Maria Cefalù è stata una regista della Rai siciliana che per prima mi ha affidato un programma radiofonico – avevo vent’anni – ed ebbe il coraggio di anticipare a mio padre che no, non sarei stato un medico.

Stanley Kubrick perché non conosco un regista che ha attraversato generi e scritture così diverse come ha fatto lui.

Olivia Newton John per la sua grazia eterna. Di grazia siamo affamati, ma non ce lo confessiamo.

P.S. La foto è di trent’anni fa – Val Thorens, 3.500 metri di quota, 26 gradi sotto zero – e ha dentro gran parte di ciò che ho scritto in queste righe. Basta guardarla con un pizzico di compassione ;)

Contro il fascismo del dolore

Tutti quanti, prima o poi, ci dobbiamo confrontare col senso di mancanza. Ed è un errore gravissimo ritenere che la propria voragine, quella dalla quale crediamo di non poter riemergere, sia più profonda di quelle degli altri. Soffriamo tutti, ognuno in modo diverso per cose diverse e al contempo con lo stesso diritto. Abbiamo vertigini di dolore tutte nostre e non abbiamo il diritto di imporle. Soprattutto non dobbiamo mai sovrapporle a quelle degli altri.

Sono due anni che mio padre se n’è andato e so, per certo, che il senso di mancanza è qualcosa di non recensibile. Però so anche che il miglior modo per celebrare qualcuno che non c’è più – prima o poi è un’incombenza che tocca tutti – è non infliggere il proprio dolore al mondo.
Quindi per prudenza, almeno per un giorno, oggi nella mia giornata ordinaria non mi lamenterò dei casini personali, leggerò i giornali con un distacco artificiale, lavorerò senza curarmi dei problemi acuminati che possono stare dietro l’angolo, cucinerò cantando e brinderò a una felicità prossima ventura (c’è sempre qualcosa in agguato e chissà mai che non sia qualcosa di lieto, e che cazzo).

Scrivevo qualche giorno fa che bisogna avere il coraggio di cambiare le nostre preghiere laiche. Di celebrare i nostri morti (ammazzati o no) in un modo nuovo, di sterilizzare le ferite riducendo al minimo il rischio che si riaprano, anche involontariamente. E scrivevo a proposito dei morti di mafia: “Meno intitolazioni, più narrazioni. Meno stucchi, più informazione. Meno contrapposizioni, più testa bassa e pedalare”.
Ecco, credo che questo proposito valga non solo per i morti (illustri) di morte violenta.
Dobbiamo imparare a seppellire i nostri defunti. Raccontandoli più che rimpiangendoli. Diluendoli in una risata più che imponendoli a ogni cena, tra il primo e il secondo lasciati a metà. Lasciandoci guidare dalla loro stella anziché brancolare nel buio della loro assenza.
Io mio padre l’ho raccontato in mille modi (orgogliosamente e senza farne una bandiera), e altrettanti sono quelli che ho taciuto perché una vita fa romanzo solo se riassunta e scremata.  Oggi mi piace pensare che lui non stia lassù a vegliarmi, tipo santino, ma che se ne fotta di quel mondo terreno nel quale se l’è goduta, dando e ricevendo con divertita equanimità. E soprattutto che si sbracci per convincere tutti i suoi beati colleghi di sorte a farci desistere dal rimpianto social piagnucolante e diciamo anche un po’ ridicolo.
La dignità dei nostri cari, quando non ci sono più, è nelle nostre mani. Più ci mancano, più serve ritegno. Il ritegno è l’unica promessa di fedeltà che possiamo fare a una persona che non c’è più.

L’arte di (lasciar) correre

Mi capita spesso di rivivere eventi vissuti come se li osservassi dall’esterno. Prima di leggere un interessante articolo di Jacob Stern su The Atlantic mi sentivo un po’ a disagio perché credevo che fosse colpa di un mio impulso a revisionare continuamente, a cercare di diluire le mie responsabilità, a esternalizzare i miei complessi di colpa. Invece, con sommo sollievo, apprendo che questo fenomeno non è solo associato a vari disturbi mentali (oddio, ci manca solo questo!), ma è abbastanza diffuso tra le persone, diciamo, sane.
Liquido subito la parte ecumenica del ragionamento, quella larvatamente scientifica.
Come scrive Stern “la distinzione tra ricordi in prima e terza persona risale almeno a Sigmund Freud” e oggi sappiamo, da recenti ricerche, che “più un ricordo è lontano, più è probabile che lo si rievochi in terza persona”.
Solo che a me capita spesso di vedermi in azione, magari in un’azione non ordinaria (tipo visitare un luogo strano, cucinare un piatto mai provato, incontrare una persona che mai mi sarei sognato di incontrare) e sganciare la soggettiva dai miei occhi.

E qui inizia l’abbondante e inarrestabile fase del dopo.

Come accade a tutti, la mia vita è fatta di scelte. E le scelte sono scommesse.
Traducendo: nonostante uno si ostini a caricare di importanza (etica, sociale, religiosa, affettiva) scelte e consigli, le conseguenze sono sempre sgonfie di questo plusvalore poiché la quota di influenza ambientale è talmente alta da renderle per molti versi indipendenti dalle nostre reali intenzioni.
È qui che entra in gioco l’arte di (lasciar) correre, intesa come invito a mollare ormeggi e ad abbandonarsi al flusso del presente senza sbattersi per contrastarlo.
Uno psicologo te la racconterebbe così: “Lasciar correre significa rinunciare alla coercizione, alla resistenza, alla lotta, in cambio di qualcosa di più forte e completo, la conseguenza immediata del lasciare le cose come stanno, senza farsi condizionare da propensioni o repulsioni, dall’intrinseca viscosità di desideri, simpatie, antipatie”.
Io invece la traduco così: “Lasciar correre significa vedere un torto all’orizzonte ed evitare di buttarcisi a capofitto, rinunciare alle pulsioni di giustiziere per affidare ad altri, più in alto e chissà dove, il compito di tirare le somme, vivere di quiete zen, e dotarsi di un ampio repertorio di guance da porgere sin quando ci saranno mani cariche di schiaffi”.
Non è una cosa semplice da archiviare come fatta.
Molto spesso il “lasciar correre” è il rifugio del “chi me lo ha fatto fare”. Ma è anche vero che, soprattutto dalle mie parti, far finta di niente è il succo di una cultura che, lasciando correre, ha macinato morti, umiliazioni e distruzione.

Insomma l’arte di (lasciar) correre è uno di quegli argomenti che si misurano con un’addizione di esperienze. Non basta la mia, non basta la tua, ce ne vogliono molte, incrociate. Possibilmente con un concerto di visioni in terza persona. Per questo andrebbero incrementati per decreto il dibattito, lo scontro ideologico, la crasi di culture. Invece è tutto un appiattirsi di consuetudini. Di atteggiamenti preconfezionati che vorrebbero farsi cultura, ma sono ozio, sonnecchiamento della ragione. Nel mio mondo perfetto ci si accapiglia di continuo per un progetto, si discute allo sfinimento per costruire una nuova città delle idee, si cercano gli opposti e anziché separarli si mettono a confronto. Ma è il mio mondo visto in terza persona, con tutte le cautele del caso.
Per storia personale ho approfondito l’arte di correre. Quanto a quella parola tra parentesi mi sto attrezzando, ma non sono certo di riuscire.

Eretici

Hanno la forza di mettere in discussione il sistema senza negarlo, usano le verità rivelate per tirare fuori verità nascoste, hanno il coraggio di fare rivoluzioni di saggezza e bellezza.
Sono un prete (Cosimo Scordato), un prete mancato (Biagio Conte), e un mangiapreti (Antonio Presti).
Tre moderni eretici. In questo podcast vi racconto le loro storie.

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Materia Prima

Strana storia quella in cui c’è un delitto, c’è il movente, ci sono i colpevoli, c’è il tempo che ha provato a lasciar sedimentare la rabbia (anche se la rabbia non sedimenta mai, al limite si cementifica, cresce in verticale come un pilone di autostrada) eppure non c’è la fine. Una storia senza fine non è una storia, è una bici senza ruote, un coltello senza lama, una minestra senza ingredienti.
In questo podcast si ripercorre la vicenda dimenticata di Libero Grassi, l’imprenditore coraggioso che osò ribellarsi al racket delle estorsioni a Palermo e che per questo fu ucciso in uno dei più annunciati delitti di mafia. Ma soprattutto si ricostruisce il contesto in cui quell’omicidio nacque: tra imprenditori apertamente collusi, giornali ipergarantisti, antimafiosi incauti e giudici soli.
Soli come lui.
Cadaveri ambulanti come lui. Buon ascolto.

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Per chi suona Eddie Van Halen?

Per chi sta suonando ora Eddie Van Halen? Domanda oziosa. Eppure me lo chiedevo stasera mentre rientravo a casa ascoltando, a volume adeguato, “Main Street”, una delle canzoni meno memorabili dei Van Halen. Probabilmente è una cosa che succede sempre più di frequente con l’età che avanza, o è questione di influssi astrali, oppure ancora è semplicemente indole trasversale. Ma a me capita sempre più spesso di interrogarmi su ciò che potrebbe accadere là dove non sappiamo se davvero qualcosa accada. Prevalentemente roba di defunti quindi.

Giuro, non penso quasi mai alla morte. Ma ai morti sì. Del resto come faremmo senza i morti? O meglio, senza la gioia di quel che ci hanno lasciato.

Io a Oscar Wilde farei passare egoisticamente altre mille pene dell’inferno pur di avere un secondo De Profundis. O affonderei dieci Endurance per avere ancora il brivido di impersonare il capitano Shackleton che conta i suoi uomini dopo due anni di tribolazioni inaudite e scoprire che sono tutti vivi, grazie a me. O riascolterei mille volte la tragica avventura di Walter Bonatti sul K2 per ribadire che non si muore mai invano se in ballo c’è la più importante delle nostre missioni, quella di dimostrare che non si vive invano appunto.
Insomma chiedendomi che minchia sta facendo Eddie Van Halen adesso, lì nell’alto dei cieli con adeguata amplificazione I suppose, mi sono ricordato da dove originava questa domanda.
Dalla mia complicata visione dell’aldilà.

Premesso che non sono ancora – almeno lo spero – in età di rendiconti affrettati, è giusto che dichiari la mia provenienza incolpevole: sono cresciuto dai preti.
È un capitolo complesso della mia infanzia perché mi sono trovato, per scelte ovviamente non mie, a essere convogliato in una scuola di gesuiti nella quale stavo malissimo e dalla quale sono venuto fuori a tentoni. Dopo è stato tutto più semplice, ma durante è stato un casino.
In ogni caso – poi magari ne parliamo un’altra volta – in tutti quegli anni di scuola cattolica-bene-imbalsamata ci fu un solo avvenimento che mi colpì positivamente. Anzi che mi stravolse.

Era un pomeriggio di inverno, nel 1977.

Il mio insegnante di religione si chiamava Giovanni Pintacuda, ed era il fratello ignoto di Ennio un prete che di lì a un decennio sarebbe diventato un pilastro della società civile antimafia e della cosiddetta Primavera di Palermo.
Io a scuola non andavo bene. Facevo il chitarrista rock, scrivevo canzoni al limite dell’orribile, avevo ottimi voti nei temi d’italiano nonostante certi professori che 45 anni dopo hanno il coraggio di seguirmi sui social (probabilmente perché oggi come ieri non capiscono un cazzo di quello che scrivo), organizzavo cose teatrali, inseguivo le femmine, non mi drogavo e galleggiavo in quella realtà che mi era stata imposta (in buona fede) dalla mia borghesissima famiglia borghese.
In quel pomeriggio padre Giovanni Pintacuda mi aveva convocato per parlarmi. Io mi ero presentato, capelli lunghi e maglione alla coscia, annoiato a dovere: immaginavo la solita ramanzina. Tra l’altro mia madre aveva scoperto proprio pochi giorni prima che avevo marinato la scuola, falsificando le giustificazioni, tipo per due settimane di seguito… Quindi immaginate il clima.
Nel viale alberato dell’Istituto Gonzaga di Palermo padre Giovanni Pintacuda mi venne incontro e mi prese sottobraccio.
Lui era piccolo di statura e io, che non ero un gigante, lo sovrastavo di almeno una decina di centimetri di pura adolescenza post puberale.
Facemmo due passi e lui dal nulla disse: “Gery, parliamo di donne”.
Poteva dirmi qualunque cosa, tipo che cazzo combini, o che cosa ci fai qui, o fai finta di niente e parliamo in playback.
Invece disse proprio quella frase.
“Gery, parliamo di donne”. Un prete colto e un adolescente pulcioso.
Fu un flash. Una sventola. Un pugno e un abbraccio.
Una svolta.
Nessuno mi aveva mai parlato così. Anzi, nessuno mi aveva mai svegliato così.
Quel pomeriggio padre Giovanni mi porse il primo dei mattoncini di Lego coi quali edificare il mio castello. Mi insegnò a guardare dritto per capire cosa sta ai lati e cosa mettere al fuoco anche se non sta al centro, mi diede la prima lezione di vista periferica insomma. Come Messi.
Ci raccontammo cose che rimarranno sempre tra noi e che del resto non sarebbero interessanti per nessuno.
Però ci fu un concetto che allora presi sottogamba e che invece col tempo imparai ad apprezzare sino addirittura a farne un mantra (invecchiando ci rincoglioniamo di cose note, un tempo sottovalutate, fingendo stupore tipo scimmie primordiali davanti al Meteorite): la vita non è come il cinema, tra il primo e il secondo tempo quello che conta è l’intervallo.

Ecco, nell’intervallo io mi sono chiesto cosa accade quando la proiezione è finita.
Per chi lavorano gli artisti a sala chiusa.
Che pubblico ha il privilegio di godersi uno spettacolo che non va più in scena.
E da lì ho trovato la risposta alla domanda di stasera: per chi sta suonando ora Eddie Van Halen?
Magari l’avete trovata anche voi. Anche se non avete avuto il privilegio di aver conosciuto padre Giovanni Pintacuda.              

La lunga notte…

Di nottate elettorali è fatta la vita di un giornalista. Modestamente le ho affrontate sin dagli anni ’80 e ho attraversato tutte le difficoltà tecniche possibili. Dalla fotocomposizione all’impaginazione digitale, dalle telescriventi alle agenzie online, dai dimafonisti alle chat di internet, dalla carta al web, non c’è notte elettorale che sia semplice: perché per assioma se uno spoglio è semplice o stai sognando o sei nel Donbass.

Coi colleghi che al contrario di me ancora oggi resistono in trincea, abbiamo rievocato spesso quelle notti in cui un corrispondente si dava latitante (famoso il caso di uno che approfittò dell’alibi elettorale per andarsene con l’amante) e tutto si fermava, o abbiamo rivissuto l’incubo delle elezioni nel Messinese dove con 108 comuni, alcuni di pochissime anime, era praticamente impossibile avere i definitivi entro l’ora stabilita e a volte entro le ore che seguivano. A tutto ciò si aggiunga la grottesca esigenza delle aziende editoriali di anticipare sempre più l’orario di chiusura e quindi il crescente ricorso, da parte nostra, ai salti mortali per mandare in edicola una versione almeno plausibile di ciò che era accaduto e stava ancora accadendo.

All’alba del suo pensionamento un anziano caporedattore del giornale in cui lavoravo, ripescando le collezioni, scoprì addirittura che in questa foga di anticipare, anticipare, anticipare, di alcune tornate elettorali non avevamo mai pubblicato i risultati definitivi.
Ancora oggi con alcuni colleghi di cui sopra abbiamo una sorta di parola d’ordine che facciamo circolare via whatsapp a ogni elezione. È una frase: “La lunga notte…”. E rievoca, appunto, una notte che nella nostra memoria si arricchisce col tempo – sapete, i vecchi quando non ricordano, inventano – di particolari fantasiosi.

Elezioni del 1996. Avevamo mandato Enrico del Mercato, allora cronista parlamentare del Giornale di Sicilia, a fare un reportage nel quartier generale della Rete e lui, in assenza di un briciolo di dati che non fossero quelli scarni dell’affluenza, aveva temporeggiato sino all’ultimo per cercare di mettere più sostanza possibile in quelle cento righe di pezzo. Solo che era tardi. Anzi tardissimo. Fumavamo nervosamente intorno a lui, mentre scriveva una frase che avrebbe dovuto imboccare la fine agognata dell’articolo, ma lui stava ancora lì a scegliere le parole, a cercare un’arguta metafora.
Aveva appena digitato “la lunga notte…” quando il caporedattore Nonuccio Anselmo mi scansò di peso, letteralmente vista la stazza, tolse la tastiera dalle mani di Enrico e scrisse: “…finisce qui”.
Poi schiacciò i comandi “control – assegna” e la lunga notte, almeno per quel pezzo, finì davvero lì. Per poi entrare nella nostra minima leggenda di giornalisti sopravvissuti e non rassegnati.

Ancora oggi una notte elettorale non si evita, si scampa.

Vedi alla voce massimalismo

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’esperienza ci ha insegnato che in Sicilia le quattro parole più incaute sono: questa volta è diverso. E non c’è nulla di gattopardesco giacché la teoria dell’immobilismo funzionale a se stesso ha una sua grottesca, e interessante, radice nella più multiforme delle espressioni sociali di questa terra: l’antimafia.

L’altro giorno, in occasione del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio, il neo sindaco di Palermo Roberto Lagalla è stato contestato dal movimento delle Agende Rosse.
Fatto salvo il diritto di dissentire civilmente da chiunque e in qualunque situazione il dissenso abbia un ruolo costruttivo, quest’episodio è sintomatico di un massimalismo che è nel dna dell’antimafia militante. E in “antimafia militante” non si deve leggere un’accezione negativa, ma al contrario si deve inquadrare un’attività di passione, impegno tangibile, missione civile.
Il massimalismo dicevamo, cioè quella sorta di estremismo ostentato che non prevede soluzioni intermedie, non vede risultati parziali. Nero o bianco, dentro o fuori, con me o contro di me.
Vi ricorda qualcuno?

Agli albori dell’antimafia così come la conosciamo oggi, quella degli eroi e delle stelle cadenti, degli slogan e delle intuizioni geniali, dei lenzuoli ai balconi e sui corpi dei morti ammazzati, il massimalismo è stato l’elettrochoc nel cervello in panne della società siciliana indolente e marcia della sua stessa noia. Ha figliato partiti politici e carriere fulminanti, grandi traditori e ammirevoli chiodi dritti. Ma, nel generoso abbraccio che protegge da minacce e tentazioni, ha peccato per senso di prospettiva. Perché il massimalismo ha questo di sbagliato: considera la strategia come qualcosa che inquina la purezza di un ragionamento.
Contestare Lagalla alla sua prima uscita importante nell’agone della cosiddetta società civile (o di quel che ne resta) è lecito, lo ripetiamo, ma può non essere giusto.

Diciamole come stanno, le cose.

Questo sindaco ha accettato incautamente l’appoggio (o l’investitura) di Cuffaro e Dell’Utri, ma, alla luce di tutto, dire che è stato eletto grazie ai voti della mafia è una forzatura. Perché è comunque un sindaco che sta lì, democraticamente, coi voti dei palermitani, la stragrande maggioranza dei quali persone oneste. Non ha ancora avuto modo di farsi giudicare, almeno sul fronte dell’impegno contro Cosa nostra. Una cosa però la sappiamo: non è con i manifesti tipo “la mafia è una montagna di merda” che si riscuotono patenti di legalità, la storia infima di inganni infimi ce lo ha insegnato. È vero, resta quel peccato originale, il fattore DC – Dell’Utri Cuffaro – condizionerà ancora a lungo l’attività di questo sindaco: il fattore DC è stato un errore politico e sarà interessante vedere se e come Lagalla riuscirà a uscire dall’impasse. Però adesso lo si lasci fare qualcosa di visibile, reale, prima di umiliarlo a freddo. E soprattutto se si è intransigenti lo si deve essere sempre, e non a corrente alternata.
Lo stesso movimento che contesta Lagalla non ha avuto nulla da dire, ad esempio, su un magistrato come Nino Di Matteo che, meno di un mese fa, l’avvocato della famiglia Borsellino Fabio Trizzino ha accusato di aver pervicacemente difeso il depistaggio della strage di via D’Amelio tramite la gestione del falso pentito Scarantino. Non uno slogan, non un corteo sullo specifico. Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti. Se uno posa l’agenda rossa e va ad abbracciare Massimo Ciancimino a favore di telecamera poi qualche domanda se la pone. E se si interroga trova qualche soluzione intermedia, senza estremismi, accettando le critiche e magari ricordando che è proprio la mancanza di prudenza che ha depotenziato l’antimafia.