L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
C’era un uomo che si chiamava Vincenzo Agostino. Molti lo conoscevano per via di una storia nota che in realtà non è mai stata abbastanza nota. A quell’uomo, il 5 agosto 1989, avevano ammazzato sotto gli occhi il figlio Antonino e la nuora Ida Castelluccio: erano sposini, lei era incinta da cinque mesi. Antonino era un agente di polizia e stava conducendo indagini delicatissime che, se non ci fosse di mezzo una tragedia, sarebbero state perfette come plot di un thriller cinematografico. Quell’uomo, Vincenzo Agostino, aveva sopportato la peggiore tortura alla quale un essere umano può essere sottoposto: sopravvivere a un figlio. Aveva lottato fino alla fine dei suoi giorni per sapere chi aveva spento la luce nella sua vita, lo aveva fatto dal basso contro silenzi e depistaggi altissimi.
Di quell’uomo, tuonante nel suo essere disarmato, abbiamo imparato una cosa. Che si può essere solidi quando si è in un baratro.
Conoscevamo la sua barba, ogni giorno più lunga nell’attesa non di una verità, ma della verità. Una verità inseguita come un miraggio nel vuoto di mille ragioni giudiziarie.
Nella città in cui i simboli sono spesso frutto di tardivi rimorsi diffusi, Vincenzo Agostino incarnava l’icona di un dolore eterno, di una sconfitta che giorno dopo giorno – come in un grottesco ossimoro – appariva sempre più annunciata.
Per decenni lo abbiamo visto in prima fila in tutti i luoghi in cui si poteva immaginare una rivalsa sociale: tribunali, cortei, commemorazioni. Lui e la sua barba bianca come la cenere della memoria, lunga come una richiesta d’aiuto che si perde nel vuoto.
Vincenzo Agostino aveva giurato di non tagliarla, quella barba: “Non lo farò sino a quando non avrò giustizia”. Oggi, dopo la sentenza di condanna del boss Gaetano Scotto come mandante ed esecutore del duplice omicidio, avrebbe finalmente potuto svelare il suo viso senza quella cornice candida se solo non fosse morto quasi sei mesi fa.
Agostino se n’è andato senza la consolazione di vedere puniti i colpevoli di quel delitto che gli aveva sconvolto l’esistenza. Nell’evitare i luoghi comuni che vedono la giustizia “trionfare” solo perché, dopo anni di estenuante attesa, si arriva a una sentenza, quel che ci resta è la figura di un uomo semplice e determinato, indebolito dalla malattia eppure combattivo, cosciente di un ruolo fondamentale per ricordarci che anche se quando perdi la terra intorno si fa arida, esiste un semino che può crescere nelle lande della sconfitta: dipende dalla fermezza e dalla dignità col quale lo annaffi.
Siamo il Paese delle mille trame e del più grande depistaggio rimasto impunito, quello della strage di via D’Amelio. Nonostante l’impegno di molti magistrati coraggiosi e determinati, restano troppe zone colpevolmente tenute al buio. Sappiamo che sono spesso i familiari delle vittime a mettersi fisicamente in gioco per cercare di ottenere un barlume di risposta.
La storia di Vincenzo Agostino ci illumina anche sull’insondabilità di un sentimento doloroso che spinge un padre a scegliere come atto estremo per la sua protesta un gesto onesto e modesto: farsi crescere la barba. In un mondo di urlatori a sproposito, di complottisti patentati, di esibizionisti senza ritegno, lui ci ha messo la faccia, una faccia che cambiava giorno dopo giorno, senza effetti speciali, semplicemente senza il favore di un rasoio.
Ora che una parte di verità – perché i misteri sulla morte di Antonio Agostino e Ida Castelluccio rimangono – è venuta a galla, una morale piccola e avulsa dalla cronaca potremmo andarla a cercare, sperando di trovarla, nelle pieghe delle nostre vite intonse, dove le cose capitano sempre agli altri.
In questa epoca in cui siamo tutti confratelli di hashtag quando c’è da sposare una moda lacrimevole (un’indignazione prêt-à-porter in giro si trova sempre), spesso non sappiamo nulla della peggiore tortura che si è consumata dietro casa nostra. Perché siamo rimbambiti dall’effetto più che dalla causa. E allora, quando ci rendiamo conto che la nostra coscienza sociale si è indurita, che stiamo per cedere alla falsa universalità che mette sullo stesso piano criminali e vittime, pensiamo che c’era un uomo con la barba lunga, lunghissima. Un uomo composto e disperato che si chiamava Vincenzo Agostino.