Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.
Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.
Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).
Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.