Chi fa cosa

Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.

Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.

Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).

Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.     

Senza fiducia

Spesso (troppo) ci dimentichiamo che le cose funzionano bene solo se sono fatte bene. E che per essere fatte bene hanno bisogno di professionisti. E che i professionisti sono tali perché esercitano una professione: una, non dieci tutte insieme. E che se a un professionista viene imposto di lavorare per dieci, nel migliore dei casi farà un decimo del suo vero lavoro (quello per cui ha studiato) e per i restanti nove decimi farà cose abbozzate, magari sbagliate, comunque cagate. E che le cagate non piovono mai dal cielo, ma sono sempre meritate nonostante il fatto che per progettarle ci vuole più applicazione (storta) di quella che occorre per fare le cose bene. Che le cose fatte bene hanno bisogno di professionisti, di tempo, di organici adeguati, di pazienza, di lungimiranza. E soprattutto di fiducia.

Senza fiducia nessuno ordinerebbe un ponte a un tale che lo disegna assieme al suo team sulla carta, nessuno finanzierebbe una ricerca su un nuovo vaccino, nessuno commissionerebbe un’opera teatrale, nessuno allenerebbe una squadra sportiva di giovanissimi, nessuno potrebbe dirigere un giornale, e così via.
Senza fiducia si costruisce il nulla. E le cose fatte bene sono esattamente l’opposto.  

P.S.
Questo post è stato scritto senza maltrattare nessun datore di lavoro, senza nessuna rivendicazione in codice, senza un’urgenza di cronaca. E’ stato scritto semplicemente perché all’autore di questo blog pareva giusto scriverlo.

Acrobati (ma il circo non c’entra)

C’è un esercizio di fondamentale importanza per allenare alla resistenza il muscolo dell’autostima ed è l’abbattimento sistematico del concetto “non può succedere a me”.
Come tutti gli esercizi ha bisogno di tempo per poter essere svolto in modo fluido. Richiede applicazione costante, autocritica, resistenza alla disillusione e una buona dose di incoscienza trasversale. È soprattutto una pratica la cui utilità si rivela quando c’è davvero bisogno, quindi magari mai. Avete presente l’estintore del supermercato, incorniciato nella sua vetrinetta col megafono e una vetrofania che dice “da usare solo in caso di incendio” e che in realtà sussurra “ue’, ho detto solo in caso di incendio”? Ecco, il concetto è quello.
Il problema del tempo di pace è che funziona solo in funzione dei tempi di guerra in cui è incastonato quindi si porta appresso un’ontologica vagonata di incomprensioni: è giusto pensare al peggio quando si sta benissimo? È di buon gusto ipotizzare un piano B mentre il piano A sta ancora macinando successi? Ci si può ritenere statisticamente al riparo quando le tempeste travolgono gli altri, magari vicini, e non noi? Esiste una zona franca delle intenzioni? E soprattutto la Banca della Bontà dà conti sicuri e a prova di inflazione?
Chiunque si dia dato la pena di sopravvivere sa che il filo sul quale, da acrobati improvvisati quali siamo, ci muoviamo è solido e che il vero problema è la nostra capacità di rimanere in equilibrio, laddove l’equilibrio è solo un artifizio metaforico che non garantisce un bel nulla: esistono persone disequilibrate che se la passano infinitamente meglio di esemplari umani probi e morigerati e questo è il labilissimo confine tra ingiustizia e figata, tra religione ed epopea della bestemmia. Credere nel “non può succedere a me” è come comprare le azioni di una società di cui non si conosce il prodotto, come salire su una macchina del tempo che ha le marce bloccate, come dire senza aver mai ascoltato. In realtà le cose accadono a tutti, nessuno escluso, e quelli che si ritengono in salvo o sono incauti o sono defunti. È  una questione di tempo, nella lite tra il presente e il passato quello che è a rischio è sempre il futuro. Come in amore, dove negli inizi i difetti si trasfigurano in incantevoli attrattive che solo un presente cinico e puntuale riesce a tradurre in fastidiose interferenze. Come in guerra o in malattia, dove il fuoco è quello che brucia gli altri sin quando lo stupore doloroso non ci macchia di un sangue che non è altrui. Come nel tran tran delle nostre vite miserevoli, dove il giudizio degli altri – amici, nemici, sodali, concorrenti, correi, infami – dà frutti non commestibili in una pianta che non volevamo coltivare, ma che è cresciuta anche grazie alla nostra insipienza e/o distrazione, come un’erbaccia.
Meno red carpet più uscite di sicurezza, meno certezze più dubbi, meno benevolenza più intransigenza. Gli organismi più longevi al mondo non sono i più grandi e i più complessi, ma i più resistenti. Poco di tutto, senza fare ipoteche. Più difese che truppe d’assalto, più consapevolezza che fiducia, più audience interiore che claque. Il futuro è una terra straniera e tutto può succedere. Persino a noi.

Uova

Giuliano Ferrara a Qui Radio Londra tuona contro gli indignati: “Quelli hanno le uova”, dice alludendo alle proteste contro il parlamento e contro i parlamentari italiani.
Già, quelli hanno le uova. E gli altri? Glielo diciamo noi a Ferrara, ché lui non si è scomodato a indagare.
Gli altri hanno il potere politico che – è acclarato – gestiscono con una disinvoltura quasi criminale: dalla compravendita dei voti alla stesura di leggi su misura del premier, dal favoreggiamento nell’omicidio di questo Paese all’accoltellamento della libertà di espressione.
Le uova sono il minimo quando il Palazzo si arrocca su posizioni anticostituzionali che mettono in pericolo la stabilità della nazione in un momento più che delicato per l’economia mondiale.
Le uova sono per tutti, anche per l’opposizione che non riesce a stare unita neanche per una foto ricordo.
Le uova sono soprattutto per la politica del baratto. Ieri, dopo la prova di forza superata per un soffio, Berlusconi ha distribuito i premi. Totale: due nuovi sottosegretari e un viceministro in più.
Non ci sono uova che bastino. Ve lo dice uno che le adora cucinate in ogni modo (memorabile l’omelette della mia amica Mara) e che odia vederle spiaccicate sui muri.

Trova la differenza

 

Foto A

Foto B

 

Qual è la differenza tra il signore che vedete nella foto A e quello della foto B?
1) Nessuna, entrambi fingono per mestiere.
2) Nessuna, a parte la schiuma da barba.
3) Nessuna, entrambi hanno lo stesso senso della legge.

Deputati comprati

Berlusconi avrebbe comprato qualche deputato dell’opposizione. Stupore generale: sarebbero i primi soldi che investe in politica anziché in puttane.