Chi fa cosa

Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.

Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.

Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).

Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.     

Si perdono 20.000 euro al giorno. La responsabilità? E’ di nessuno

soldi

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Mettiamo che lavoriate in una piccola azienda privata e che dobbiate provvedere al trasloco di un ufficio, due scrivanie, due computer, un fax, un piccolo armadio, varie suppellettili. L’operazione vi è stata annunciata da tre mesi e voi dovete solo assicurarvi che tutto sia a posto: impresa di trasporti allertata, nuovi locali puliti, volture effettuate. Arriva il giorno X e al momento di accedere ai nuovi locali vi rendete conto di esservi dimenticati di farvi dare la chiave dal padrone dell’immobile, che adesso è partito per la Papuasia, e dovete rimandare tutto indietro costringendo la vostra azienda a pagare per un trasloco inutile. Mettiamo anche che i vecchi locali non siano più disponibili e che si debbano sborsare tot euro al giorno per il deposito, perché scrivanie, armadio e tutto il resto non ve li potete portare a casa. Passano i giorni e le chiavi non ci sono. Mannaggia, com’è potuto succedere… è stato un disguido, un malinteso. Alla fine la vostra azienda ci rimette qualche migliaio di euro. Voi credete di farla franca? Ovviamente no, perché se avrete la fortuna di non essere licenziati in tronco, sarete costretti a risarcire il danno.
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Il comune senso di responsabilità


C’è una domanda alla quale la politica dovrebbe dare urgentemente risposta: in cosa consisterebbe il senso di responsabilità di Silvio Berlusconi nel farsi da parte?
Uno si candida se ha ragionevole certezza di farcela. Tanto più sei potente tanto minore deve essere il rischio di non vincere, perché l’entità di una figuraccia è direttamente proporzionale al tuo ruolo.
Ora noi siamo al cospetto di un uomo che ha inquinato la vita italiana, dalla tv allo sport, dalla politica all’economia, che per la prima volta teme di non farcela.
L’età avanza, le promesse non mantenute lo circondano, la probabile condanna  nel processo per il Rubygate incombe, i big internazionali (eccezion fatta per un paio di dittatori con attitudine a delinquere) lo scansano come la peste, la stampa dell’intero globo lo deride: meglio mettersi di lato che essere investito.
Ah, ecco. L’unico senso di responsabilità di Berlusconi che viene in mente è quello a tutela di se stesso. Sceglie di andarsene per non essere cacciato.
Però gli inchini e gli onori no, per pietà.

I grandi all’altezza

tacchi di berlusconi

C’è una caratteristica fondamentale che rende veramente grandi gli uomini di potere: è il loro sapersi mettere in gioco quando il gioco gira male.
Se in Italia si fosse verificato un buco nella sicurezza nazionale come quello del fallito attentato di Natale negli Usa, lo scaricabarile, gli insabbiamenti e le risse politiche avrebbero paralizzato ogni attività di ricerca della verità.
Già me li vedo i Capezzoni, i Di Pietri, i Gasparri (lui è avvantaggiato perché ha un cognome che è già un plurale) che consumano ugole e saliva. Monica Setta che imbastisce un programma per dimostrare che il terrorismo è solo di sinistra e che addirittura ha una radice genetica nel mancinismo. Bruno Vespa che indossa un plastico delle mutande esplosive come quelle strappate – tra qualche gridolino ammirato delle hostess – all’attentatore.
Invece in America il presidente ha usato la più raffinata arma di persuasione di massa: l’ammissione personale di responsabilità. Ha detto al popolo “è colpa mia” ottenendo un duplice risultato: sedare al più presto le polemiche politiche (se uno ammette, ammette e basta, inutile continuare a battere i pugni sui tavoli) e rassicurare la sua gente (se uno si mette in discussione riscuote una maggiore fiducia).
Per uno come Barak Obama mettersi in gioco quando il gioco gira male significa prendersi tutte le responsabilità: reali, metaforiche, ipotizzabili.
Per altri mettersi in gioco quando il gioco gira male significa litigare con tutti, arbitro compreso, e magari tentare di comprarsi la partita.