Cultura, e sai cosa mangi

Questo post è una sfida. Una sfida all’algoritmo che controlla, pesa e valuta le parole in termini di scommessa sull’interazione. Potrei scrivere “social”, oppure “sesso”, oppure ancora “virus” e andrei liscio. Invece scrivo “cultura” e incrocio le dita.

Il momento complicato nel quale ci troviamo catapultati ha tra le vittime predestinate – la salute, il lavoro, la socialità, i sentimenti – un morto che cammina che parla, che scrive, che dipinge, che suona, che danza. È un corpo che è già stato accoltellato negli anni precedenti dalla politica distratta e dalle amministrazioni scellerate di molti enti, nonché dai congiurati del partito più trasversale che esista, quello dei cialtroni. Il morto da piangere nonostante non sia ancora definitivamente morto – ed è meno di un respiro di sollievo – è la cultura italiana.

Attenzione: prima di cedere allo sbadiglio o di smettere di leggere, datemi ancora qualche riga di fiducia perché magari così vi spiego perché se un teatro chiude o una libreria abbassa le saracinesche ne risente anche la vostra cena di stasera.

Siamo un popolo che vive di consuetudini, insomma che naviga sempre a favore di corrente. Quella per la cultura è l’abitudine più facile da perdere poiché in Italia la cultura è considerata una sorta di bene accessorio, una cosa in più, se resta spazio e tempo si concede qualcosa ad essa. In tal modo è più facile disabituarsi: perché non c’è nulla di più fragile di un’abitudine che non ha intenzione di sopravvivere a se stessa.

Si può essere ricchi e forti, amati, temuti e potenti, ma senza qualcuno che ti racconta una storia si è semplicemente nudi. Il “c’era una volta” non è solo l’inizio di qualcosa, ma è soprattutto una finestra aperta sul mondo migliore che riscatta la pochezza di quello in cui ci siamo ritrovati a vivere: quello della fantasia, l’unico posto in cui siamo davvero ciò che meritiamo di essere.

Se la convergenza astrale di questi tempi bui continuerà a incrociarsi con l’orgoglio strabico di chi ritiene che c’è sempre qualcosa di più importante di un palcoscenico vuoto o di un museo sprangato, resteremo senza il cibo per la nostra immaginazione. E questo digiuno, credetemi, non si placa con succedanei giacché la cultura è fatta di materia prima che non ha surrogati. C’è o non c’è. Non è un asparago che, se non lo trovi fresco, puoi sempre reperirlo tra i surgelati.

Ecco perché è importante tenerla viva, farla vivere di presenze e di presente. Andate a teatro fin quando è possibile, leggete un libro se non potete far altro, usate la musica come se fosse un vizio (non c’è mai un momento in cui è sconsigliato ascoltarla), divorate film e prodotti dell’ingegno che narrano, testimoniano, denunciano, chiamano a raccolta.

Con la cultura si mangia e si cresce. Senza si muore: dentro, fuori, intorno.

Elogio dello streaming

L‘articolo pubblicato su Il Foglio.

Si sa che il buio costringe ad aprire gli occhi, ma ci voleva davvero una pandemia per scoprire l’utilità dello streaming per tenere i cervelli connessi? Stando alle parole del ministro Dario Franceschini, che in pieno lockdown ha sparato l’idea della creazione di una “Netflix della Cultura”, sì. Stando alle carenze strutturali di un Paese che crede nell’innovazione tecnologica solo quando ha le pezze al culo e rischia di dover tornare ai telefoni a disco per ristabilire le comunicazioni, no: bisognava muoversi molto prima perché le idee partorite in piena emergenza sono a grande rischio di fallimento.

Il rapporto tra web e cultura in Italia risente di quelle stesse resistenze ideologiche che portarono il filosofo John Haugeland a gelare – sin dagli anni ’80 – le aspettative sull’intelligenza artificiale. “Ai computer non gliene frega niente” scrisse sulla distinzione tra la capacità di calcolo e quella di giudizio: laddove il calcolo è inteso nel suo senso etimologico originale, cioè il saper svolgere operazioni aritmetiche, e il giudizio è un impegno più complesso che richiede il coinvolgimento dell’intero sistema verso il mondo esterno. Oggi lo streaming è visto come uscita di sicurezza, come ultima spiaggia, e raramente come strumento utile anche in tempi di pace. È la stessa posizione di pregiudizio che, ben prima del Coronavirus, ha portato il mercato editoriale italiano fuori asse rispetto alle potenzialità del web.

L’errore fondamentale è tradurre tutto in una mera guerra di supporti: carta contro internet, analogico contro digitale, pagine contro byte. Soprattutto nel mondo della cultura, e nel mercato a essa connesso, dovrebbe essere chiara da tempo la diversa vocazione dei mezzi. Prendiamo l’opera lirica, uno degli spettacoli più complessi. È ben noto ad appassionati e addetti ai lavori che, a differenza di altre attività – come una partita di calcio, una serata di cabaret o persino un concerto rock – l’ambito, cioè il luogo nell’opera, conta in modo determinante sul godimento da parte dello spettatore. Il teatro come struttura fisica in questo caso è infatti parte integrante della forma di narrazione, con la sua acustica, con la sua architettura, e nessun surrogato potrà mai sostituirlo. Il web dal canto suo sollecita una componente voyeuristica che stimola altri sensi. Ripeto altri sensi, quindi non è in alcun modo un concorrente diretto. Applicando questi codici si può dimostrare, ad esempio, che generalmente la diretta streaming di un’opera non cannibalizza biglietti d’ingresso giacché non può essere inquadrata come qualcosa che sostituisce lo spettacolo dal vivo, ma al contrario assolve una funzione determinante, da manuale di marketing: crea desiderio.                

Pagare o non pagare, questo è il dilemma: lo streaming gratuito è sbagliato? Qui è questione di strategie. Innanzitutto va detto che c’è gratis e gratis. Una cosa è il non farsi pagare, un’altra è il non essere pagato. È la differenza che passa tra il dono e il furto: perché chi vuole da te una prestazione o un manufatto pretendendo di non pagare, è un mezzo ladro.

Però giudicare sbagliato lo streaming gratuito, stroncandolo senza appello, è come dare dello scemo al tale che raccoglie l’uva e, anziché mangiarsela, la mette in un tino e la pesta. Questione di prospettive. In Italia gran parte delle polemiche su questo tema vertono più sulla questione di principio (non è giusto lavorare gratis) che sulla strategia imprenditoriale (non guadagno oggi perché penso di guadagnare di più domani). Scegliere un’economia di posizione, ad esempio pasturare una fetta di pubblico ben selezionata con proposte gratuite, potrebbe rivelarsi utile soprattutto alla luce dei cali di presenze registrati dalla Siae (dati 2017-2018): meno 18,72 per cento nell’attività teatrale totale; meno 46,16 per cento nella concertistica.

“Lo streaming uccide l’arte”: è un’argomentazione riempipista. Al pari di: leggere su carta è un’altra cosa; il teatro è teatro, il web è web; si stava meglio quando si stava peggio. Lo streaming e il web non hanno mai assassinato nessuno, lo hanno fatto gli imprudenti nelle grinfie dei quali certi strumenti sono finiti e soprattutto lo ha fatto l’ignoranza, ergo l’endemica mancanza di conoscenza. Rassegniamoci: persino un libro nelle mani sbagliate può diventare un oggetto contundente. In questo campo ci sono molte varianti che raccontano dell’analfabetismo digitale italiano: il web ammazza i giornali, il web ammazza il commercio, il web ammazza le famiglie e via assassinando. In ogni forma di progresso c’è un lato oscuro, persino nei vaccini salvavita ci sono le controindicazioni. E poi diciamolo fuori dai denti: oggi, nell’anno di disgrazia 2020, lo streaming può essere la salvezza di un’arte confinata in un gigantesco sanatorio. Non sappiamo ancora se il mondo finirà per un Grande Starnuto ma, nell’attesa che i teatri tornino ad essere luoghi di cultura e non più raduni di potenziali appestati, bisogna accettare che il rapporto tra arte e web può essere cambiato: da convivenza a integrazione.

Non la pensa così la regista Emma Dante, che in piena emergenza Covid, ha spiegato su Facebook la sua linea di (non) azione: “Non farò teatro sul web o utilizzando chissà quali tecnologie pazzesche: il mio teatro non diventerà mai virtuale, è più facile semmai che mi ritroverò a fare teatro con soli due spettatori. Ribadisco, se questo deve diventare il teatro, allora meglio aspettare. Ma l’attesa non deve essere un privilegio di pochi, il tempo della ricerca non può essere il lusso di chi può permetterselo. I lavoratori dello spettacolo devono essere messi nelle condizioni di poterlo fare. Devono essere tutelati”. E sull’idea del ministro della Cultura di una piattaforma online per rilanciare il settore in crisi: “Mi dispiace che dal ministro arrivino proposte del genere e che non ci sia, invece, un dibattito serio su questi temi, sulla cultura, proprio adesso che il Paese ne ha grande bisogno”.

Da convivenza a integrazione, dicevamo. Un esempio lo fornisce il Teatro Massimo di Palermo che, per la sua riapertura in epoca di distanziamento sociale, ha scelto di ridisegnare lo spazio scenico abolendo la platea. E lo ha fatto affidandosi a un regista come Roberto Andò che conosce i codici del cinema, dell’opera e del romanzo e che ha immaginato uno spazio nuovo: a misura di spettatore, ovunque lo spettatore sia, in teatro o a casa.

Fuori dall’emergenza Covid, ma dentro il dibattito sul purismo dell’arte, il capofila della crociata contro lo streaming  è stato Steven Spielberg, che conduce da tempo una battaglia contro Netflix. “Mi auguro che tutti noi continueremo a credere che il principale contributo che possiamo fornire da registi è offrire al pubblico un’esperienza cinematografica” ha dichiarato nel discorso di ringraziamento per il Filmmaker Award tributatogli lo scorso anno dalla Cinema Audio Society a Los Angeles. “Credo fermamente che le sale cinematografiche continueranno a esistere per sempre. Amo la televisione, amo le possibilità che offre. Alcuni dei più grandi lavori di scrittura sono stati fatti per la televisione, oggi alcune delle migliori performance sono in tv. Il suono nelle case è migliore di quanto sia mai stato, ma niente può sostituire un cinema buio con persone che non hai mai incontrato prima con cui condividere l’esperienza”.

Quella di Spielberg è però una crociata per l’ortodossia del godimento del cinefilo, contro l’inscatolamento dei contenuti dal grande al piccolo schermo, alta nel suo simbolismo artistico ma stratosfericamente distante dai problemi di casa nostra. Dove spesso si ragiona per slogan. Uno di questi è: il web ci toglie lo stipendio. Vero se, come detto, lo strumento viene usato come panacea. Falso se si guarda la realtà senza pregiudizi. Di solito questa argomentazione minuscola viene usata perlopiù da un (purtroppo) maiuscolo sindacale spalmato su tutti i settori produttivi. Invece è bene ricordarlo. Ci sono categorie di lavoratori che durante il lockdown, in svariati campi, hanno vissuto solo grazie alla contestata evanescenza del web, e non ci si può arroccare in tecnicismi quando si tratta di sopravvivenza. Osteggiare per principio internet è la cosa più pericolosa che si possa fare. Studiarlo con umiltà sarebbe un dovere, come frequentare un corso estivo per ripetenti.  

Alla luce di tutto questo proviamo a rileggere la proposta della “Netflix della Cultura” lanciata da Franceschini. In un Paese che per aumentare la sua alfabetizzazione digitale ha avuto bisogno di una pandemia – basti pensare all’esplosione dello smartworking e del telelavoro, per non parlare dello choc collettivo della didattica digitale con insegnanti che non distinguevano un computer da una caffettiera costretti a prendere lezioni di chat dai loro alunni – non serve creare nuovi portali nel deserto. Basterebbe usare i mezzi che ci sono: le reti Rai ad esempio, che hanno una ramificazione territoriale e una dotazione tecnologica ben rodata. E soprattutto tenere d’occhio i grandi cambiamenti del web che in questo momento è di fatto nelle mani di quattro grandi aziende private statunitensi (Google, Facebook, Apple e Amazon). La Cina si è fatta avanti per imporre un nuovo modello di protocollo internet centralizzato che, di fatto toglie il pallino dalle mani dei privati e lo dà ai governi: una sorta di brace dopo la padella insomma. Il Financial Times ha visto in anteprima il progetto presentato nel settembre scorso agli uffici dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni a Ginevra, un’agenzia dell’Onu che definisce gli standard mondiali per le tecnologie, dalla squadra cinese che si compone essenzialmente di ingegneri in forza al colosso Huawei. E lo ha descritto come una “architettura calata dall’alto” che nelle intenzioni dei creatori dovrebbe favorire progetti di condivisione tra governi “per metterli al servizio dell’intelligenza artificiale, della raccolta dati e di ogni altro tipo di applicazione”. In pratica è più di una larvata ipotesi che con questo nuovo tipo di Rete i fornitori di accesso a internet sarebbero generalmente di proprietà statale e avrebbero il controllo totale di tutti i dispositivi collegati. Insomma, con questi chiari di luna quando si accoppiano le parole “internet” e “cultura” bisogna stare molto attenti giacché si maneggia un materiale come la conoscenza che ha valore in quanto trasmissibile, cioè soggetto a scambio, a movimento. Se c’è una cosa che il lockdown ci ha insegnato è che da una difficoltà si esce solo con un cambiamento, e che non c’è tempo per perdere tempo. Il Darwinismo applicato agli enti culturali, come teoria di sopravvivenza dei più forti e soprattutto adattabili, può risultare crudele ma appare come una strada obbligata.          

Incontrovertibile

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

La parola del giorno è: incontrovertibile. E mi sovviene dal sovrapporsi di due notizie. Una riguarda il neo assessore regionale alla Cultura Alberto Samonà che, in un suo libro di molti anni fa, cita quantomeno con eccessiva leggerezza letteraria le SS (non credo che inneggi, ma di certo offre il fianco a chi ha il difettuccio di odiare il fascismo e i suoi nauseabondi surrogati): soprattutto nell’era in cui la memoria di cui difettiamo quando si tratta di riconoscere meriti si acuisce, magari a mezzo social, per ripescare scivoloni e cadute di stile. L’altra riguarda il direttore del parco archeologico della Valle dei Templi Roberto Sciarratta che, con la sua sedia a rotelle, ha fatto in modo (e verificato personalmente) che il parco sia perfettamente accessibile anche a chi ha difficoltà di deambulazione. L’abbattimento delle barriere architettoniche è da sempre considerato un optional nella nostra società e il fatto che ci sia bisogno di un dirigente in carrozzina per elevare il nostro grado di civiltà, ci mette dinanzi a un’evidenza sulla quale dovremmo riflettere tutti: la disabilità è un modo ingegnoso di vivere, quindi in molti campi rappresenta una competenza in più.

Sono due temi, due ambiti, due scenari diversi, certamente. Ma con un denominatore comune: quando si parla di amministrazione della cultura bisogna sempre tener conto che si maneggia qualcosa di prezioso, addirittura pericoloso se usato maldestramente. Per troppo tempo le politiche culturali sono state affidate ai venti termici delle segreterie di partito, qui più che altrove giacché qui più che altrove un museo o un teatro non sono visti come luoghi di comunità, ma come luoghi di spartizione e/o elargizione: cioè l’esatto contrario della loro natura.  Ecco perché quell’incontrovertibile. Perché dal raffronto di queste due notizie forti, mi è sorta l’esigenza di una garanzia di incontrovertibilità. Che in un caso c’è, ed è evidente. Nell’altro no.     

La rivoluzione dei piccoli passi

Non ho colto nessun elemento di scandalo nella polemica sulla frase del ministro delle politiche per il Sud Giuseppe Provenzano, secondo il quale “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. Neanche dopo la correzione di tiro che tendeva a puntualizzare come la colpa di questa disparità non fosse di Milano, ma del resto d’Italia che non è in grado di assorbire e far proprio quel modello”. Se proprio si vuole trovare una colpa per Provenzano, allora forse si potrebbe criticare il modulo di comunicazione non blindato che, mediante un ragionamento che poteva essere frainteso, andava a grattare (anzi a tentare di grattare) la corazza dell’unico modello cittadino che davvero funziona in Italia. Insomma, in un Paese dove l’unica maestà per la quale ci si sbraccia è quella lesa, forse si poteva inventare una metafora più prudente per raccontare qualcosa che esiste realmente, e cioè il gap economico e sociale che trancia l’Italia e la necessità di politiche di sviluppo che curino le ferite ancor prima che suturarle.

È un argomento complesso che, per semplificare, vi sottopongo prendendo come spunto le politiche culturali e il loro rapporto con l’innovazione, sulla base della mia minima esperienza.

Quando il Teatro Massimo porta l’opera o i pianoforti di Piano City in un quartiere come lo Zen, fa un’operazione di grande impatto sociale che punta all’effetto contagio. Cerca cioè di inoculare un virus del bello in un corpo che ha un sistema immunitario complesso e interessante. E lo fa strizzando l’occhio alla risposta di Lev Tolstoj alla domanda “Cos’è l’arte?”.

“Eppure c’è un segno certo e infallibile per distinguere l’arte vera dalle sue contraffazioni; ed è ciò che io chiamo il contagio artistico. Se un uomo senza alcun sforzo da parte sua dinanzi all’opera d’un altro uomo, prova un’emozione che lo unisce a questo e ad altri ancora ricevendo contemporaneamente la stessa impressione, ciò significa che l’opera dinanzi a cui si trova è un’opera d’arte”.

Quando invece sempre il Teatro Massimo imbastisce un’operazione come quella de L’elisir o della Cenerentola di Danisinni fa una cosa diversa. Amplifica a dismisura l’effetto contagio giacché non solo gli abitanti del quartiere assistono all’opera, ma ne sono essi stessi protagonisti perché sono stati formati in mesi di prove e prove.
Ecco l’esempio di una vera politica culturale.
Ed ecco il link al ragionamento del ministro Provenzano.
L’innovazione è uno dei principali metodi di sviluppo e di contagio di sviluppo. Laddove per innovazione non si deve intendere necessariamente qualcosa che derivi dal silicio o che abbia a che fare col web e con la tecnologia. Innovazione è linguaggio, è orizzontalità della cultura, è diffusione della parola. Anche l’opera, cioè una delle più antiche e resistenti forme d’arte, può essere enzima di innovazione, ad esempio se coinvolge un quartiere popolare in una messinscena che stimola i suoi abitanti a cimentarsi in qualcosa che non conoscevano e che adesso li incanta.

I processi di cambiamento vanno guidati, non vanno decretati. E il miglior modo per accompagnarli è farli precedere da formazione e informazione per creare una sorta di consapevolezza guidata, senza la quale qualunque provvedimento economico o tentativo di spinta sociale è acqua che si perde tra le zolle di una terra assetata.
Di questo, a mio modesto parere, si deve parlare, non di rivoluzioni. Ma di politiche di piccoli passi, di innovazione del giorno per giorno.    

Sgarbi senza sorprese

Dopo il flop della prima (e conseguentemente unica) puntata del suo nuovo programma, Vittorio Sgarbi, pur facendo autocritica, dà la colpa alla Rai perché non sarebbe interessata alla cultura.
E in qualche modo instilla il ragionamento secondo il quale, con questo pubblico, in prima serata hanno successo solo morbosità di cronaca e reality.
Non siamo lontani dalla realtà.
Tuttavia è giusto chiedersi se Sgarbi sia il protagonista ideale per un programma di buon livello culturale. E qui dobbiamo distinguere il critico dal personaggio. Se da un lato Sgarbi, piaccia o no, ha tutte le carte in regola per parlare di arte, dall’altro la sua frequentazione continua di ogni salotto televisivo in cui si discetta di Avetrana come del Grande Fratello, di sesso come di politica, di veline come di santi, lo rende mediaticamente vulnerabile: perché la sovraesposizione toglie appeal, e un personaggio che si rispetti deve (anche) incuriosire.
Invece di Sgarbi sappiamo tutto, anzi sappiamo tutto di ciò che Sgarbi sa.
Il programma su Raiuno doveva essere il contrappeso alla tv di sinistra, la celebrazione della fulgida cultura nazionale, un kolossal costosissimo, il nuovo modello di televisione di qualità.
Gli italiani non l’hanno guardato. Probabilmente perché non era scritto bene, probabilmente perché preferivano qualche tetta e qualche culo, probabilmente perché a nessuno piace aprire un pacco in cui c’è scritto “sorpresa” e trovarci dentro la solita bottiglia di whisky avanzata da Natale.

Affari di Bondi

Il ministro del dicastero più disastrato, la cultura, dice che non ci sono più soldi, assiste impotente alla protesta del mondo del cinema, al crollo di Pompei e ad altre catastrofi culturali senza però dimenticarsi di assumere al ministero il fratello della sua compagna ed elargire venticinquemila euro di finanziamento all’ex marito di lei dichiarando che si trattava di due casi umani, giustificazione alla moda tra i berlusconiani, e spingendosi a far godere di soldi pubblici anche la banda musicale del paese in cui vive sempre la solita compagna e persino la compagnia teatrale di un paesello vicino al suo, suo di lui non della compagna, e non contento ottiene che a Venezia s’inventi un premio per far contenta una sconosciuta regista e attrice bulgara molto amica di Berlusconi che ha un concetto di sé del tipo “in quanto a popolarità sto tra Papa Giovanni XIII e Gino Bartali” e che per la cronaca fa soltanto Michelle Bonev, non si sa quanto Michelle ma abbastanza Bonev, il che spiega molte cose.

La cultura di Morgan

Morgan (…) si è esercitato in una serie di imbarazzanti (per lui) contumelie. (…) È ridicolo che uno che si riempie la bocca della parola «cultura» non riesca a fare un discorso di senso compiuto.

Aldo Grasso usa le stesse parole e richiama gli stessi concetti che il sottoscritto ha sommessamente espresso qualche settimana fa a proposito del “talento” di Morgan. Ora, siccome io non sono più esperto, intelligente, furbo, colto di Grasso, evidentemente la realtà è quella che è. Basta prendersi la briga di osservarla.

Grazie alla Contessa.

Il nemico giurato della lingua italiana

di Tony Gaudesi

Assurdo, grottesco, vergognoso…
Anche saccheggiando tutti gli aggettivi tendenti al ribasso del nostro vocabolario non si riuscirebbe a fotografare alla perfezione l’ennesima italica boiata: il premio “Spettacolo cultura e società”,  assegnato  nei giorni scorsi a Luca Giurato nell’ambito dell’Amalfi media award 2010.
Un riconoscimento dall’Alto Patronato (quello del Presidente della Repubblica), ma evidentemente dal basso profilo, se arriva a  gratificare chi quotidianamente ostenta la stessa frequentazione con grammatica e sintassi di uno Zulu con il Galateo.
E siccome la brutte notizie, come i carabinieri, viaggiano sempre in coppia, ecco impigliata nella Rete la seconda mediatica bastonata: il nostro fuoriclasse  della parola era stato insignito appena qualche mese prima del premio culturale e giornalistico Civiltà De Marsì, per i suoi cinquant’anni di giornalismo.
E’ vero che chi parla in maniche di camicia, spesso riesce anche a scrivere in giacca e cravatta, ma riesce difficile credere che il capocannoniere degli strafalcioni via etere, il Terminator di congiuntivi e perfino indicativi, possa essere Mister Hyde e dottor Jekill, ascia e fioretto, trattore e cabriolet, capace di  pubblici scivoloni e carbonare virtù,  riuscendo,  a riflettori spenti, a martellare pezzi corretti e persino brandelli di prosa alata sulla tastiera del suo pc.
Per il nemico-Giurato della lingua di Dante era già forse un premio eccessivo la tessera dell’Ordine, che  non credo possa gonfiarsi il petto di annoverarlo tra gli iscritti. Se la tessera di giornalista fosse una patente a punti, quella di Giurato sarebbe in rosso perenne. E, invece, ecco fioccare i premi e le conduzioni  Rai per un giornalista che, evidentemente, si ostinano a considerare di prima fascia e non, come sarebbe forse più opportuno, da fascia protetta.

La cultura del cinepanettone

Me ne sono accorto in ritardo, ma c’è una notizia che merita una pausa di riflessione.
La Commissione cinema del ministero dei Beni culturali (quello del poeta Bondi, sì) ha riconosciuto l’interesse culturale del film “Natale a Beverly Hills”  di Neri Parenti. Ripeto: interesse culturale.

Una lettura

Ve la segnalo perché c’è molto di buono che vi riguarda.