Assistiamo a una sconfortante carenza di programmi culturali in Rai, a beneficio di una televisione che insegue un ascolto becero.
Gabriella Carlucci, oggi deputata del Pdl, ieri conduttrice televisiva di Azzurro, Festivalbar, Nuovo Cantagiro, Buona Domenica, e molti altri programmi culturali.
Sapevo che avrei fatto il disegnatore di fumetti già da piccolo. Ma il primo devastante colpo ai miei sogni di gloria lo sferrò un bambino più grande di me di un anno. Lui praticamente era un pre-adolescente, io un pre-pre-adolescente. Portava il mio stesso nome ed essendo brutto come la morte, magro, ma di una magrezza malaticcia e con la forfora che lo faceva somigliare a un cucuzzolo innevato, lo odiavo ferocemente. Ma in silenzio. Era manesco, quel sacco d’ossa incatenate e con la cute in perpetua desquamazione!
Gianni (lui) rise, anzi sghignazzò quando gli dissi che volevo fare il fumettista. Il suo teschio sembrava in preda a una crisi epilettica quando rideva e spruzzava saliva da quella voragine che probabilmente era la bocca. “I fumetti non si disegnano, si stampano!”.
Per un paio d’anni rimasi paralizzato di fronte alla consapevolezza crudele alla quale ero stato richiamato da quel dracula in sedicesimo, e cominciai a considerare seriamente l’ipotesi di fare il piccolo travet, come spesso mio padre lasciava intendere, visto che negli studi non ero brillante a causa di quella maledetta mania di scarabocchiare pupetti e soldatini e Capitan Miki e Grande Blek ovunque. Poi le cose andarono come sono andate, per fortuna.
Sapevo che avrei fatto il pittore quando ormai non potevo anagraficamente più dirmi giovanissimo: a quarant’anni suonati. Il colore, passione coltivata a lungo e nell’inconscio più profondo, esplose furiosamente e io non potevo farci niente. Era una vendetta che veniva dall’abisso della mia anima: io da bambino non sapevo colorare. Disegnavo ed ero autisticamente attratto dal segno. Che fosse Bic blu macchiosa o pennino sopraffino, la cosa poco importava. Anzi, era la frugalità dei mezzi che mi rendeva eroico. Un eroe a metà: perché quel mostro teschiuto non riuscii ad assassinarlo mai.
Feci la prima mostra dopo cinque mesi scarsi di pittura furibonda, quando la mia cervicale non si lamentava così tanto. Non c’era posto per le mollezze del corpo stanco. Dovevo dipingere e basta. E dipingevo: pesci rossi volanti a tempera su cartoni telati. Una follia di cui ancora oggi non capisco il senso. Fu la Libreria del Mare, a Palermo, che mi battezzò “pittore”. Provai a togliere le virgolette da “pittore”, subito dopo. Il critico d’arte che vide i miei quadri si soffermò su un giallo che reputava pennellato male. “Perché non continui a disegnare fumetti?”. Avrei potuto rispondere che i fumetti si stampano e i critici vengono uccisi. Tacqui. Sono un pacifista, purtroppo.
Non ho cittadinanza nella veste di pittore a Palermo, per farla breve. Ho esposto in gallerie di Milano, Scicli, Siviglia, Londra. A Palermo solo in luoghi deputati ad altro. Questa volta devo l’ospitalità affettuosa ad una banca: Banca Etica (domani, alle 18). Il titolo della mia piccola personale è “Il Desiderio”. Nell’accezione freudiana: il desiderio che sollecita ogni gesto, la vitalità, l’eros. Stavolta, per favore, niente thanatos.
Ci sono due frasi che mi ronzano nella testa. “Crisi dei valori” ovvero frase A. E “ruolo degli intellettuali” ovvero frase B.
Non chiedetemi dove le ho lette: dopo 46 anni di vita sarebbe più semplice testimoniare dove non le ho lette. Ogni volta che c’è da lamentarsi di qualcuno/qualcosa – e sappiamo che è uno sport in voga – si invoca la frase A. Quando invece è il momento di trovare una scusa per sottrarsi a un impegno civile si ricorre alla frase B. I valori e gli intellettuali, coi rispettivi crisi eruolo, sono insomma il parafulmine di ogni sventura. Mai che a qualcuno venga in mente di mescolare gli addendi per arrivare, in barba alla matematica, a un risultato diverso, più vicino alla realtà. Il ruolo dei valori (cioè 1/2 di B + 1/2 di A) e la crisidegli intellettuali (cioè 1/2 di A + 1/2 di B) potrebbero essere infatti temi più aderenti alla realtà.
Riuscire a capire a che punto in classifica siano le doti morali e quanto sia allarmante la carestia di portatori di cultura nel nostro Paese sarebbe già un bel traguardo. Quando il frigo è vuoto si censisce quel che non c’è, mica il tubetto floscio di maionese che s’affaccia dallo sportellino sopra il porta-uova.
Gli intellettuali non fanno la politica, i valori possono influenzarla. Gli intellettuali non sono pifferai, i valori sono cuffie contro insani pifferi. Gli intellettuali possono sbagliare, i valori possono essere rimedio.
Mi piacerebbe che un giorno, entro la mia scadenza biologica, qualcuno si chiedesse cosa manca nel grande frigo dell’Italia, piuttosto che additare, promettere, scontare, condonare.
Ci sono casi in cui la virtù letteraria diventa vizio. E ciò accade quando un criminale svela il suo lato intellettuale e di successo.
Cesare Battisti, terrorista condannato in via definitiva per quattro omicidi commessi in Italia negli anni Settanta, ha ottenuto la protezione del Brasile (dopo quella, fondamentale, della Francia) che ci ha anzi additati come fessi, retrogradi, incivili ma che ci ha evitato, almeno per ora, il gesto dell’ombrello.
La difesa istituzionale di un assassino ha molte chiavi di lettura, soprattutto in questo caso. Per brevità, ne voglio prendere in considerazione una sola: quella che conduce (o parte?) dall’ignoranza.
Nel 2004, un giornalista del settimanale Marianne, dopo aver scritto che la condanna di Battisti era stata emessa “per fatti non commessi”, confessò a Panorama “di sapere ben poco del dossier giudiziario di Battisti”. Nello stesso periodo Erri De Luca scrisse (sempre sui giornali francesi) che Battisti apparteneva a una “generazione di vinti”, saltando a piè pari la considerazione che il tizio in questione faceva parte in realtà di un sodalizio di criminali. Costoro, con acrobazie illecite ed evasioni, si erano sottratti al destino che madre natura, religione, buona politica e norme civili hanno in calendario per chi ha una colpa: espiare la pena.
Il terrorismo ha fatto in Italia quasi 350 morti e circa 750 feriti (cifre dell’Associazione vittime del terrorismo). Le pallottole sono di piombo e, anche se accompagnate da una citazione filosofica, da una frase di Bernard-Henri Lévy o da una semplice preghiera, generalmente uccidono. Gli ideali non sono né giubbotto antiproiettile né lasciapassare.
Non era stata dichiarata una guerra negli anni Settanta: che senso ha parlare quindi di vinti?
Chi ha voglia di approfondire le radici di un certo atteggiamento francese – perché è dalla Francia che parte il caso Battisti – si documenti sulla dottrina Mitterand che ammetteva l’asilo per i terroristi italiani purché rinunciassero alla lotta armata. Il cardine di tale linea di pensiero (ineluttabilmente politica) era la certezza che in Italia non fossero possibili processi giusti. Una generalizzazione che fa a pugni con la statistica: come dire che tutti i terroristi subiscono ingiustizie nel nostro Paese e nessuna corte giudiziaria azzecca un verdetto che ben si abbini a una Raclette e a un bicchiere di Bordeaux.
L’intellettuale Battisti, autore di decine di volumi (mi dicono ben scritti), secondo quest’ottica inaccettabile, non può che essere innocente. Il mondo della cultura è il peggiore tribunale che si possa incontrare. Perché inventa intoccabili nel nome del corporativismo.
No, no e no.
Nel cielo dell’arte, le nuvole non si spostano per avere un’ombra di comodo.