Non so se la sentenza di condanna per i giovanissimi autori dello stupro del Foro Italico a Palermo sia congrua o meno. Di certo tra lo sconto per il rito abbreviato e altre imperscrutabili afferenze giuridiche mi pare giusto che ci sia una sentenza chiara e inequivoca. E soprattutto che questa serva da monito non tanto per futuri aspiranti stupratori (oddio) quanto per una generazione (non più fatta solo da giovanissimi, ahimè) che ritiene la vita reale un succedaneo di quella virtuale. Sin dall’inizio di questa storia gli smartphone e la smania di riprendere le gesta immonde del branco sono stati determinanti, come se un fatto non esistesse se non lo si può immortalare. Di più, anche dopo lo stupro alcuni protagonisti di questa storia terribile hanno continuato a imperversare sui social. E non era senso di onnipotenza, ma stupidità potentissima: e per quella non c’è pena che tenga, servono libri, libri, libri, un ergastolo di libri. Per questo non è il tintinnar delle manette che oggi conta (orribile vestigia di un passato crudele come la perversione di Torquemada senza coscienza) ma il suono antico della campana del diritto. Ciò che è sbagliato va punito senza fanfare, ciò che è giusto non consente di infierire su colui che sbaglia.
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Vergognarsi per crescere
C’è stato un tempo in cui ho sbagliato molto e pericolosamente. Ci pensavo leggendo le notizie sull’assassinio del povero Willy Monteiro Duarte, pestato a sangue per aver cercato di sedare una rissa. Nella mia adolescenza e anche nel periodo confinante, proprio sul limitare dell’età adulta, sono stato un tipo manesco. Non ero aiutato dal fisico – non ero muscoloso, ero sportivo sì, ma ben lontano dal modello palestrato – ma per una misteriosa convergenza di fattori sociali e psicologici, se gli eventi mi davano il la ero pericolosamente incline a menare le mani.
Poi un giorno incontrai la persona sbagliata, che oggi definirei invece la persona giusta. Un tale che mi diede tante di quelle legnate che, come si dice, mi tolsi il vizio: ancora oggi ho un incisivo spaccato che mi ricorda quell’incontro. E dire che di mazzate ne avevo prese anche prima, ma quella volta fu quella giusta. Si trattava di uno che aveva bloccato la strada col suo furgone per scaricare sacchi di farina destinati a un panificio. Ebbi la sventura di trovarmi dietro di lui e di avere fretta. Mi accorsi troppo tardi della sua stazza, ormai ero già troppo avanti nel battibecco. Finì con la mia faccia contro il cofano di un’auto, e tutto quel che ne consegue…
C’è solo un capitolo, quello finale, esilarante che posso rivelare oggi.
Tutt’e due passammo dal pronto soccorso e finimmo l’uno accanto all’altro: entrambi mentimmo sulle cause dei nostri guai (io avevo la bocca malconcia, lui aveva il classico occhio nero) e nessuno seppe mai nulla di questa cosa tranne, per quanto mi riguarda, un paio di miei amici fidati (di cui uno è, appunto, dentista).
Sono stato fortunato perché ho capito in tempo che questo atteggiamento non aveva nulla a che fare col mio progetto di vita: vengo da genitori colti e onesti che detestano persino la violenza cinematografica; non sono mai stato attratto dal machismo; sport tipo il pugilato mi annoiano a morte. Però mi metto nei panni di chi ha un figlio adolescente che una sera esce e che incappa in una rissa – le cose accadono e nulla può impedirlo. Che farà quel ragazzo? Interverrà? Farà finta di niente? Fuggirà?
Che tipo di insegnamento si può tramandare in questi casi?
“Fatti i cazzi tuoi”?
“Difendi il più debole”?
“Non ti fare calpestare da nessuno”?
È davvero difficile trovare una strada quando nessuno l’ha tracciata prima. Di certo contano la formazione, l’ambiente familiare, l’indole. Ma più di tutto pesa la fortuna. Magari quella di trovare un energumeno che hai sottovalutato, provocato incoscientemente e che ti fa assaggiare il cofano di un’auto come antipasto per la vita, per poi sedersi accanto a te al pronto soccorso e fare finta che nulla sia accaduto.
Provare vergogna è un buon modo di crescere.
Ventisei parole
Sto scrivendo una cosa che riguarda l’altro. Proprio l’altro, il diverso da noi, il vicino che ci spia o lo sconosciuto che ci ignora da lontano. Ma anche l’altro inteso come altra parte di noi stessi, quella che guardiamo allo specchio e che ci illudiamo di conoscere.
Un passaggio fondamentale per occuparsi dell’altro (in questo contesto non considereremo l’altruismo che è una virtù e non un’entità) è la capacità di saper stabilire un perimetro all’interno del quale i ragionamenti hanno un’unica cittadinanza. Questo è il perimetro della libertà certificata, cioè quella che va oltre il “faccioilcazzochemipare”.
In tempi di Coronavirus il mondo nel quale cercare e trovare un altro da osservare, additare persino ignorare (ma con gusto), è quello del web. E per capire di cosa stiamo parlando è utile tornare al 1996 e alle seguenti 26 parole: “Nessun fornitore o utilizzatore di un servizio interattivo telematico sarà trattato come un editore o un portavoce delle informazioni prodotte da un altro fornitore di contenuto”. È un passaggio fondamentale (eppure sconosciuto al 99,9 per cento dei fruitori di internet) contenuto nella sezione 230 del Communications decency act approvato dal Congresso americano, sotto la presidenza di Bill Clinton. In pratica con quel provvedimento si evitava che i primi provider, tipo Prodigy e CompuServe, fossero responsabili di ciò che si scriveva negli spazi primordiali di interazione (chatroom, bulletin board, newsletter). Il concetto cardine fu quello di considerarli come intermediari, come mezzi di trasmissione e non come editori: alla stregua di una libreria o una di biblioteca che ospitano tutti i libri che vogliono e/o possono.
Ecco, il nostro concetto di libertà, fondamentale per indagare l’altro senza incorrere in sanzioni o in errori di prospettiva, dipende almeno nell’era moderna soprattutto da quelle 26 parole. Perché più di altre legislazioni al mondo, la sezione 230 degli Usa ha protetto la libertà nel web e l’ha veicolata nei mille rivoli delle sue stesse contraddizioni: la diffusione dell’odio online, l’impossibile differenza tra provocazione e offesa, la tomba del diritto d’autore, l’agonia dei giornali, la nascita di nuove forme di violenza. Tutte sviluppatesi al riparo di un provvedimento che doveva garantire la forma più ampia di democrazia, quella orizzontale, e che invece oggi rischia di elargire impunità a chi manco sa cosa sta maneggiando. Perché l’attenzione verso l’altro risente degli strumenti che servono ad accorciare la distanza: un cannocchiale, un libro, un pensiero trasversale, un account di Facebook, o una pistola.
La città ostaggio
Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.
In “1997 Fuga da New York” si narra di un’intera città diventata carcere, dilaniata al suo interno da una violenta anarchia che tiene a distanza persino le forze dell’ordine: solo un galeotto senza scrupoli e nerboruto come Jena Plissken riuscirà a penetrare all’interno di quella terra di nessuno, a compiere la sua missione e a riportare a casa la dura scorza. Nella Palermo del 2014 la situazione, al netto degli effetti speciali cinematografici, è analoga, con abitanti del centro ostaggio di abusivi e baby gang, e vigili urbani che si rifiutano pubblicamente di addentrarsi in alcune strade per paura di essere presi a mazzate. Al momento manca solo un erede di Ken Russel, probabilmente perché fanno più paura le bottigliate della movida che le pallottole degli scagnozzi del “Duca” Isaac Hayes, ma non è questo il problema giacché, non essendo un film, qui non servono atti di eroismo a buon mercato. Quel che invece serve è un enorme tasto di reset da schiacciare col ditone della democrazia. Le regole, i ruoli, le garanzie, i doveri sparsi e mescolati come le tessere di un puzzle, vanno recuperati e soprattutto contati: il vero problema è infatti che qualcosa si è perso in un trambusto sociale in cui persino il tempo libero dei nottambuli diventa un’emergenza di pubblica sicurezza (…). E non occorrono poteri speciali o mezzi più moderni, ma un rigore antico che non tralasci violazione. Non invochiamo più vigili, censiamo le coscienze vigili. Solo così capiremo se la Palermo da salvare vuole essere davvero salvata.
Lo sparatore di Roma e gli sparatori di cazzate
Dopo la sparatoria di ieri davanti a Palazzo Chigi il mondo della PP, Politica Pelosa, ha ceduto alla tentazione di banalizzare il banalizzabile. Di chi è la colpa? Di Grillo, del Movimento 5 Stelle e di chi usa toni accesi su blog e giornali, mica di un fallito che si è giocato tutti i suoi soldi al videopoker e che qualche media ha dipinto frettolosamente come “un disperato che ha perso il suo lavoro”.
Le parole forti in politica non le ha inventate il M5S, basti pensare senza andare troppo lontano nel tempo alle delicatezze linguistiche di Bossi, Calderoli e vari altri intellettuali della Lega Nord. O basti rievocare gli attacchi di Berlusconi ai coglioni che votano a sinistra e ai malati di mente che affollano la magistratura.
Ora se un idiota si mette a sparare all’impazzata e subito dopo ha l’accortezza di pronunciare le parole “politica, politici”, automaticamente viene come deresponsabilizzato dai media: chi alimenta il clima d’odio? Chi carica di tensione sociale gli strati deboli della popolazione? Chi bla bla bla?
Ci vorrebbe un pizzico di buonsenso prima di sfornare opinioni come se fossero pagnotte. Il clima d’odio e la tensione sociale sono frutto di ventenni di politiche dissennate, di vergognose ruberie, di atteggiamenti criminali da parte di chi dovrebbe rappresentare lo Stato e invece rappresenta il lato oscuro di uno stato fantasma.
Non sono i comizi di un comico prestato alla politica che armano la mano di un delinquente, ma l’ignoranza diffusa in un Paese sottosviluppato e affamato da una classe politica corrotta o nel migliore dei casi incapace.
Servizi inutili
C’è una domanda ricorrente – una delle tante – che mi viene in mente ogni volta che si verificano eventi di cronaca tanto drammatici quanto annunciati come gli incidenti del corteo degli indignati di Roma.
La domanda è: ma i nostri servizi segreti che caspita fanno?
La manifestazione era prevista e prevedibile, l’azione dei disturbatori anche, il ruolo dei criminali scontato. C’era un ambito più urgente e importante sul quale i nostri Servizi, nelle ultime settimane, avrebbero dovuto concentrarsi? Credo proprio di no. A meno che non si debba rendere commestibile l’idea che gli agenti segreti si debbano occupare solo di sistemi talmente massimi da esistere solo nei film di James Bond.
L’azione dei black-bloc, chiamiamoli così per praticità, era pianificata quindi disinnescabile, se solo un agente, un funzionario, un qualunque impiegato dei servizi segreti italiani si fosse occupato della vicenda.
Invece così non è accaduto. Questo è lo scandalo, non l’emergere dei soliti violenti. E’ inaudito che l’intelligence, stipendiata per pensare cogitare tramare, sia rimasta al balcone a guardare l’orribile devastazione perpetrata da un manipolo di delinquenti. Che non sono, come dice quel fesso di Emilio Fede, di sinistra. No, sono delinquenti qualunquisti, beceri, ignoranti.
Ogni picchiatore è bello a mamma soia
Una lettura
Ve la segnalo perché c’è molto di buono che vi riguarda.
Armiamoci e partite
Donna, rischi di essere violentata quando vai in giro di notte e invece ti vorresti sentire sicura? C’è un antidoto. E non si tratta di evitare minigonne e scollature.
Uomo, vuoi arruolarti in una simpatica e rassicurante ronda notturna? Devi attrezzarti. E dato che le armi non sono consentite, bisogna ricorrere ad altro.
Forza, allora: tutti a tonificare i muscoli e ad allenare la mente alla reazione!
Non ci sono centri di addestramento statali. Non ancora, almeno, per quanto ne so io.
Ma si può stare tranquilli lo stesso: ci pensano dei solerti privati, con un’idea eccelsa, a risolvere ogni emergenza e a sopperire (non è una novità, d’altronde) a quello che il governo non dà. Inoltre è cosa nota che chi fa da sé fa per tre. E non escluderei che fra poco si possa tornare a dormire con le famose porte aperte.
Apprendo infatti da una newsletter che ho ricevuto un paio di giorni addietro che la benemerita palestra Body Star di Palermo – in viale Piemonte 66, per chi volesse andarci – offre gratuitamente per oggi, dalle 10.30 alle 12.30, un corso di difesa personale. Motivato dai “tristi e ricorrenti episodi di cronaca”. Testuale, lo giuro. C’è persino un sito, Palermoweb, che spalleggia questa strabiliante iniziativa. Il corso, recita la mail, “è assolutamente gratuito, è gestito da maestri del Krav Maga e prevede sessioni teorico-pratiche aperte a tutti, senza distinzione di sesso o di età”.
Cos’è il Krav Maga?, vi chiederete, ignoranti come me. Eccovi serviti, dal sito kravmaga.it (del quale vi invito a leggere anche i cenni storici): “Il Krav Maga è la quintessenza della tattica per l’autodifesa, il combattimento corpo a corpo e la protezione di terza persona, insegna ad affrontare i reali pericoli della strada, e con un’intelligente e immediata valutazione della pericolosità dell’aggressione e delle circostanze, anche ambientali, in cui ci si trova, si impara a scegliere l’azione più opportuna da utilizzare per salvaguardare la propria incolumità. Nelle tecniche del Krav Maga non vi è nulla di superfluo o estetico, ma solo estrema efficacia, istintività, condizionamento, velocità di esecuzione delle combinazioni fino all’eliminazione del problema, che può voler dire sia dileguarsi che colpire e fuggire o arrivare alla risoluzione più estrema. Riconosciuto a livello mondiale è lo studio delle tattiche e delle tecniche per la protezione di terza persona contro gli attacchi e/o minacce armate, siano esse effettuate con armi bianche o da fuoco, comprese quelle automatiche e militari”.
Andate avanti voi, che io già mi sento male.
Violenza + violenza
Un branco di imbecilli a Nettuno dà fuoco a un immigrato “per divertimento”.
Il ministro degli Interni Maroni dichiara che “bisogna essere cattivi coi clandestini”.
Le notizie non si sommano, semmai si sommano i ragionamenti che dalle notizie scaturiscono.
Ecco la mia somma.
C’è una violenza aberrante, frutto della pianta malata dell’ignoranza e del vuoto della ragione. Poi c’è una violenza che si finge strategia, frutto di uno strabismo politico e di una grande approssimazione. Sono violenze diverse, per cause ed effetti. La prima lascia il vuoto dietro di sé, la seconda lo riempie di altro vuoto. La politica dovrebbe essere mattone e cemento per riedificare, consolidare, proteggere. Nelle parole di Maroni è invece solo una pietra da scagliare a occhi bendati.