Se è vero che le colpe dei padri non possono ricadere sui figli, è anche vero che spesso le colpe dei padri plasmano i figli. L’harem di Arcore è in tal senso una miniera di storie che andrebbero analizzate da psicologi e psichiatri, ancor prima che dai magistrati.
Ecco due esempi di rapporto tra genitori e figli nell’Italia berlusconiana (perché qui l’elemento Berlusconi, come vedrete, è determinante).
Il padre di Barbara Guerra, perfettamente al corrente delle serate della figlia col premier, le chiede se può far sapere a Berlusconi che lui sarebbe in grado di piazzare delle cimici nella sede milanese di Futuro e Libertà. La figlia si lamenta perché non riesce a parlare con Berlusconi, impegnato in “sta cazzo di riunione”, ma poi riferisce al padre che è meglio che non se ne faccia niente.
Riassumiamo: un padre sa che la figlia anima a pagamento le notti di un uomo che ha 41 anni più di lei e anziché imbufalirsi (come farebbe qualsiasi padre non degenere del pianeta) si offre per compiere un reato mettendo a rischio il proprio posto di lavoro.
La madre di Elisa Toti parla al telefono con la figlia che le dice di essere reduce da una settimana ad Arcore e di essere stremata. L’unico argomento sul quale la signora batte è il compenso: seimila euro.
Riassumiamo: una mamma non chiede cosa è successo né si mostra preoccupata per la sorte di una figlia che ha trascorso sette giorni con un uomo che potrebbe essere suo nonno. No, si preoccupa solo di sapere quanto ha guadagnato esentasse la figliola.
Le due storie ci dicono molto della spregiudicatezza tramandata di genitore in figlio e ci dimostrano che il sistema dei valori ha radici familiari. La Guerra e la Toti credono di vivere nel migliore dei mondi possibili perché probabilmente hanno avuto trasmesso un imprinting secondo il quale è quello il migliore dei mondi possibili. Il mondo in cui tutto ha un prezzo, in cui il merito non conta, in cui la gavetta è roba da sfigati, in cui il primo motore immobile ha un nome, cognome e codice Iban.