In una bella intervista di Antonella Filippi, pubblicata oggi sul Giornale di Sicilia, il filosofo Umberto Galimberti traccia un percorso chiaro e sintetico del ruolo che i professori dovrebbero avere con i “nuovi giovani”, nativi digitali dalle idee confuse.
Esorterei i professori a usare meno il computer. A che serve? Gli studenti, nativi digitali, ne sanno più di chi dovrebbe insegnare loro l’informatica. Ai ragazzi internet fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non regala senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza.
I maestri hanno il compito di sviluppare il senso critico e mettere in connessione i dati. Questi ragazzi bisogna educarli al sentimento per evitare l’analfabetismo emotivo: la base emotiva è fondamentale per distinguere tra bene e male, tra cosa è grave e cosa non lo è. E bisogna farli parlare in classe. Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero.
E spiega una differenza di non poco conto tra intelligenza convergente e intelligenza divergente.
Una intelligenza convergente, che comporta il cercare la soluzione di un problema a partire da come il problema è stato impostato; invece l’intelligenza importante, quella cha fa andare avanti la storia, è divergente, e consiste nel risolvere il problema cambiando la sua stessa impostazione, capovolgendolo. Come, per esempio, ha fatto Copernico. In informatica devi trovare la soluzione secondo il programma informatico, altre possibilità non sono previste. Un metodo che svilisce l’intelligenza, trasformandola in esecutiva e non sviluppandone la parte creativa.
Che minchiata solenne! L’intelligenza e l’emozione sono legate tra loro, lo si vede dal fatto che quando l’intelligenza riconosce la falsità di una rappresentazione… l’emozione non si lascia coinvolgere. Tuttavia è l’intelligenza a poter riconoscere il giusto dallo sbagliato basandosi sui princìpi che riconosce essere egoistici o altruistici, mentre la sentimentalità è come una scimmia selvaggia soggetta al continuo cambiamento che non concede garanzie. La prova di questo è che il male, non potendo agire direttamente sulle intelligenze, se ne assicura la collaborazione convincendole attraverso le emozioni indotte con la falsificazione.
I campi di sterminio sono stati voluti dalla sentimentalità nazista e fascista che non ha avuto il sostegno dell’intelligenza.
L’armonia di ognuno è salvaguardata quando c’è, o cercata se non c’è, attraverso l’equilibrio e il vicendevole sostegno dato dall’intelligenza, dal sentimento e dalla volontà.
Galimberti, come spesso fa, dice cose profonde, magari non di prima mano, ma profonde. Tuttavia, ho l’impressione che conosca l’argomento “nativi digitali” in modo piuttosto superficiale e mi pare poco approfondita anche l’idea che ha sull’uso del computer a scuola.
Non è del tutto vero che i nativi digitali “ne sanno più di chi dovrebbe insegnare loro l’informatica”. Dall’avvento dei social network, il più delle volte, l’uso che fa un ragazzo dell’informatica si limita alla lettura e al copia e incolla di stati su Facebook oppure a fare clic in modo più o meno indiscriminato sul tastino del “like”. Inoltre, i cosiddetti nativi digitali sono spesso incapaci di fare una seria ricerca in internet o anche di inviare una semplice mail o formattare un testo in modo chiaro ed adeguato.
Mi pare, invece, del tutto condivisibile l’idea di Galimberti che affida alla scuola il compito di sviluppare il senso critico dei ragazzi e la loro capacità di mettere in connessione dati. Ma questo non è in contraddizione con la diffusione dell’informatica a scuola. Anzi. Usare le nuove tecnologie in ambito scolastico deve servire anche a insegnare a distinguere il grano dal loglio, a dare gli strumenti per discriminare e mettere in connessione dati ed eventi, a far capire agli alunni quanto possa essere inefficace e perfino ambiguo un linguaggio impoverito anche quando si comunica attraverso una chat, un SMS o altri servizi di messaggistica istantanea.
Non sono un maniaco delle nuove tecnologie, intravedo anch’io i rischi che stiamo correndo per la formazione emotiva e anche per il futuro lavorativo delle nuove generazioni. Ma credo che un uso critico e consapevole delle nuove tecnologie in ambito scolastico serva proprio a limitare questi rischi e questi danni. Altrimenti rischiamo di lasciare i ragazzi soli davanti a Facebook, nelle loro camere, e di fare della scuola una parallela che non si incontra con la realtà delle vite delle nuove generazioni.
Condivido in toto i due ultimi commenti di Gaetano Vergara e Massimo Vaj che si completano vicendevolmente riguardo ai sentimenti e riguardo all’uso del PC. Molto ben argomentati. Grazie.