Vomito ergo sum

La professoressa invasata che aveva urlato ai poliziotti “dovete morire”, nonostante sia indagata e sia stata sospesa dall’insegnamento, torna in piazza nel presidio contro la manifestazione di Forza Nuova a Torino. Ufficialmente la sua è una missione contro i fascisti, anche se non si capisce perché se la prenda coi poliziotti che non difendono i fascisti, ma la legge. Ufficiosamente s’intuisce molto di più. La signora ha scelto la formula più attuale per uscire da un anonimato che, evidentemente, le va stretto. Poteva andare dalla De Filippi, ma in mancanza di un talento specifico ha scelto di esibirsi sull’asfalto: urlare pur di galleggiare, provocare per dimostrare la propria esistenza in vita, offendere per far finta di difendere.
C’è un’infinita lista di antifascisti, veri e silenziosi, che hanno pagato con la vita o con la mortificazione sociale, senza che le loro gesta siano mai state grottesche o triste oggetto di derisione. La ribellione, anzi la “ribellione” della professoressa Lavinia Flavia Cassaro è di un sensazionalismo talmente irritante da risultare indigesto persino ai nudi e puri della contestazione. Lei ce la sta mettendo tutta per diventare un simbolo, probabilmente perché al giorno d’oggi la scorciatoia per ottenere qualcosa di immeritato è inventarsi uno strapuntino di follia anti-creativa, cioè l’opposto della contestazione vera e il parente stretto della cretinocrazia. Dati i risultati mediocri come professionisti, ci si reinventa sabbia negli ingranaggi del sistema: e guai a dire che dicendo e facendo cazzate non si fa l’Italia e manco la sua caricatura. La professoressa che cerca disperatamente un ruolo da protagonista senza che nessuno abbia mai scritto la storia in cui esibirsi, darà soddisfazioni al suo pubblico: conquistata la scena, sogna il peggio per lei – un licenziamento, una condanna – perché quando gli orizzonti sono ristretti, anche una posa sguaiata dà le sue emozioni. In mancanza di altro.
Vomito ergo sum.

La colpa di voler vivere a colori

Era l’8 settembre 1988, me lo ricordo come se fosse ieri. Il giornale per cui lavoravo mi inviò a Torino per seguire la tappa italiana di Human Rights Now!, il tour mondiale in cui suonavano artisti come Sting, Peter Gabriel, Bruce Springsteen, Tracy Chapman organizzato per celebrare il quarantesimo anniversario della costituzione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Scrivevo di musica allora e, come ripeto spesso, mi meravigliavo che mi pagassero pure. Ero in uno di quegli stati di grazia che capitano al massimo due volte nella vita, almeno da sobri, quando il mix tra gioventù, spruzzi di accettabile perdizione e passione (per il lavoro, per la vita, per i punti di domanda) non produceva altro che un incosciente entusiasmo.
Quindi ero a Torino, seduto a sfumacchiare, accanto al mio amico Valerio Pietrantoni, con i grandi del giornalismo musicale di allora: Mario Luzzato Fegiz, Kay Rush e diversi altri.
C’era la musica – otto ore di musica – c’era la macchina da scrivere e c’era il fax con cui inviare il pezzo per la prima edizione, da ribattere in nottata.
Ricordo ogni secondo di quella giornata perché mentre tutto accadeva io prendevo appunti non per il giornale, ma per me.
Era uno di quei momenti in cui sapevo di vivere “uno di quei momenti”.
E la cosa che più mi rimase impressa non furono le schitarrate di Springsteen con la sua E Street Band, non fu il salvataggio di Claudio Baglioni da parte di Peter Gabriel che, vedendolo fischiato, lo raggiunse sul palco a sorpresa intonando con lui Ninna nanna nanna ninna, non furono il carisma di Youssou N’dour né la carica ritmica di Sting.
No.
A colpirmi veramente fu un’opera di Mordillo esposta fuori dallo stadio. Quella che vedete in questa pagina, ispirata all’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani, quella sulla libertà di opinione e di espressione. Non l’ho mai dimenticata, quell’opera. Ieri l’ho ritrovata sul web e sono felice. E l’ho rivista attualissima, anche se risale agli anni Settanta.
Potrebbe essere un programma politico, oppure un articolo di legge, un’intenzione o un ammonimento, un comandamento o un diktat: in un mondo grigio non è una colpa voler vivere a colori.

Una notizia appena giunta…

Ora tutti addosso al giornalista Giampiero Amandola, il collega che ha detto in un servizio del tgr Piemonte: “I napoletani li riconosci dalla puzza”. Ed è facile massacrarlo perché nulla è più semplice che sparare su un bersaglio bene in vista. Questo Amandola è, incontrovertibilmente, di un’imbecillità professionale da record e, a parte uno sciagurato comunicato del cdr che cita la fretta come concausa dell’incidente (fretta di che? di montare un servizio di cazzate da prepartita?), impersona il totem dell’informazione pubblica in Italia: sciatta, senza controllo, data in mano a chi non ha i meriti. Perché, diciamolo, il suo non è un incidente di percorso, ma la prova evidente di un’imperizia da licenziamento.
Nel panorama dell’editoria italiana, alle prese con tagli spaventosi, la Rai è un eden. Chi vuole, lavora. Chi non vuole, sta da parte: c’è sempre una ricollocazione ad hoc. Chi non lecca, non cresce: infatti i migliori sono tutti messi da parte. Chi lecca, gode: infatti i peggiori sono sempre in video e sempre sorridenti. Basta accendere un qualsiasi tgr (di Tg1, Tg2 eccetera sappiamo fin troppo, lì siamo nell’Olimpo delle minchiate) per prendere le misure di un mondo irreale.
Quando lavoravo al giornale, coi miei colleghi ci divertivamo a misurare l’aderenza all’attualità del tgr del pomeriggio. Spesso nei titoli mancava la notizia principale che nel corso dell’edizione il conduttore introduceva immancabilmente così: “Una notizia appena giunta in redazione…”. Bastava dare un’occhiata alle agenzie e guardare l’orario: era almeno di un paio di ore prima.

Orfani del cassonetto

cassonetto palermo

Qualche giorno fa ho ricevuto la visita a casa di una gentile signorina che mi ha consegnato cinque tipi di sacchetti, di diversa dimensione e composizione, e due contenitori per i rifiuti.
Questo perché è stata avviata una campagna che si chiama Palermo Differenzia e che si annuncia come una rivoluzione nella raccolta dei rifiuti.
Sul modello delle grandi città europee prima di buttare un barattolo di pelati dovremo lavarlo e ragionare su qual è il sacchetto giusto nel quale gettarlo: quello di carta, quello in amido di mais, quello di plastica-finta-plastica o quello che ha l’aria di essere un vero triste sacchetto dell’immondizia ma che nasconde una voracità da pianta carnivora?
Mi è stato detto che i cassonetti spariranno presto dalle strade e il mio pensiero è andato ai lavoratori del settore: a Palermo un abitante su 259 lavora per l’Amia. Vi sembra poco? O molto?
Certo, a giudicare dallo schifo che invade le strade della città in queste ore uno potrebbe pensare d’istinto che gli organici andrebbero potenziati. Poi però basta fare qualche ricerca per scoprire che a Torino, che ha quasi il doppio della popolazione di Palermo, c’è un dipendente dell’azienda che si occupa dei rifiuti ogni 577 abitanti. E sul totale dell’immondizia raccolta in un anno da ciascun dipendente i numeri sono ancora più eloquenti: 164 tonnellate a Palermo, 220 a Genova, 491 a Torino.
In conclusione, sono molto felice per la speranza accesa da questa nuova campagna ambientale, ma sono anche preoccupato per il destino di quei poveri lavoratori che rischiano di rimanere orfani del cassonetto. E dato che Palermo ha il primato (che Gian Antonio Stella ha definito “planetario”) di uno spazzino ogni due chilometri di strada da pulire, temo un esaurimento nervoso collettivo all’Amia. Stai a vedere che senza i cassonetti adesso da quelle parti si dovrà addirittura lavorare?

“Pensi al funerale”

Un’aberrante pubblicità progresso. Nel senso che guarda avanti, troppo avanti…

Grazie a Roberto Torta.