Il bullismo quando non c’era

A scuola mi ricordo scherzi atroci tra compagni di classe. La maglietta usata per pulire la lavagna era niente al confronto con quella che una volta traforammo con le cicche di sigaretta (beh, sì…) con il proprietario inconsapevole dentro. Un’altra volta misi la polvere dei gessetti tritati nelle scarpe di un mio compagno, seduto dietro di me, che aveva l’abitudine di dondolare su due piedi della sedia. All’atterraggio si alzò una nuvola di fumo bianco che fece ridere tutti tranne una professoressa, tanto giovane quanto priva di senso dell’umorismo: risultato, fui sospeso ed era per giunta il primo giorno di scuola.
Un giorno un mio compagno per puro cazzeggio – la politica non c’entrava – nell’intervallo tra un’ora e l’altra di lezione urlò dalla finestra un “viva il Duce” grottesco quanto la nostra ingenuità. Non si rese conto che il professore di filosofia era appena entrato e lo guardava nel gelo generale. Se la cavo con un calcio in culo e nessun genitore osò mai protestare.
Per mesi io e un altro impegnammo le prime due ore di lezione quotidiana nel furto con destrezza della merenda di un nostro compagno. Il poveraccio non riusciva a capire chi e come, fatto stava che rimaneva senza panino ogni giorno. Un giorno ci scoprì grazie alle briciole lasciate dall’incauto mio correo e fu talmente gentile a non incazzarsi che, disarmati da tanta finezza, una colazione gliela offrimmo noi. E il panino non glielo rubammo più.

A tutto questo pensavo leggendo le cronache sui bullismi vari a mezzo video e sulle polemiche a proposito del classismo dell’incultura. A quanto i tempi cambiano non solo per colpa delle persone, ma soprattutto degli strumenti. Il cellulare onnipresente, la pervicace cura con la quale l’attimo fuggente diventa forzatamente eterno, l’amplificazione tecnologica della cazzata sono elementi che non hanno peso per un’eventuale assoluzione del colpevole, ma non possono essere ignorati come chiave di lettura.
La giovinezza non è un alibi, ma una condizione alla quale sopravvivere senza alibi.

Se vostro figlio torna a casa pestato

Il padre che pubblica le foto del figlio minorenne pestato da delinquenti minorenni innesca polemiche lunghe come la teoria di dubbi sulla reale utilità di quel gesto.
Da un lato l’esigenza di dare una scossa, di rispondere a choc con choc, dall’altro evidenti limiti di privacy e di esigenze di tutela dei minori.
Bene, questa è la parte che conosciamo tutti.
Ora prendiamoci però la piccola libertà di riflettere su un altro aspetto.
Il mondo, come lo conoscevamo sino a dieci anni fa, non c’è più. Tutti, ripeto tutti, siamo stati catturati dall’orbita di questa nuova giostra che travolge e stravolge: il privato è pretesto per rendere più appetibile il pubblico (e viceversa), la condivisione è la forma di intrattenimento più gettonata, lo smartphone è l’unico oggetto del desiderio che non teme il logorio della vita moderna, il sistema di relazioni è fondato su una rigida scelta di campo – meglio quel gestore di telefonia o quell’altro?
È chiaro che, nonostante le umane resistenze di chi è cresciuto nel mondo analogico, non si può cercare di svuotare il mare col secchiello. Quindi è inutile lanciarsi in crociate che sottendono giustizie sociali di altre ere geologiche.
Un minorenne che vive nei social, tra i social, per i social non può che trovare lì il suo destino o, se preferite, la sua nemesi (il discorso vale anche per i maggiorenni, ma in questo momento la riflessione è legata ai ragazzini). Per questo non riesco a non immedesimarmi nel padre di quel ragazzino che torna a casa pestato e umiliato, e che racconta tutto all’unica autorità che dio, o madre natura, gli ha messo di fronte: un papà attonito. Un papà che ha il dovere di fare tutto quello che può per il suo bambino. Ecco, se quest’uomo ha ritenuto di fare un passo ardito nel mondo che è più di suo figlio che suo, vuol dire che ha capito che il coraggio è una forma d’inquietudine: ognuno ha la sua. Ci si nasce e chi non ce l’ha non la troverà online.