New York è una città che non si visita distrattamente. Perché non perdona la superficialità del turista mordi e fuggi e si lascia dimenticare facilmente se non le concedi tutta la tua attenzione.
Parlo per esperienza: ero stato qui vent’anni fa per tre giorni e la avevo considerata solo una tappa del mio lungo viaggio di allora (una specie di coast to coast virtuale). Tornato in Italia, non mi era rimasto nulla della Big Apple.
Da ieri sono di nuovo a New York e la storia è ben diversa.
In poco più di 24 ore non ho assorbito il cambio di fuso orario, ma ho assorbito bene lo spirito di questa città. La visiteremo con calma, abbiamo sette giorni (il minimo per una realtà cosi composita e ricca di spunti).
Da vecchio runner, ho un metodo infallibile per prendere le misure a una città che non conosco: correre lungo le sue strade. Stamattina, approfittando del risveglio da panificatore causa rincoglionimento post jet lag, ho macinato una decina di chilometri lungo l’Hudson, da Soho (quartiere in cui alloggiamo) sino all’avvistamento della statua della Libertà. E nonostante la pioggerella costante, sono rimasto incantato dal lento risveglio della metropoli, dai battelli che riversano su Manhattan migliaia di pendolari in giacca e cravatta, dallo skyline che avevo visto in centinaia di film ma che dal vivo sembra messo lì, apposta per te scarpinatore insonne e anche un po’ eroico (data l’umidità pungente).
Poi, proprio per le condizioni meteo non troppo favorevoli, abbiamo anticipato la visita a sua maestà il Moma, di cui dire troppo è facile come dire nulla. Un museo come questo non si racconta, si onora. Basterebbe solo il contenuto di una sala per approntare un museo ex novo dalle nostre parti. Chiudo con un suggerimento: mentre siete in coda per fare il biglietto – c’è sempre un po’ di casino, ma le file si smaltiscono velocemente grazie alla buona organizzazione del personale – approfittatene per scaricare la app che vi farà da guida gratuita. È ben fatta e funziona a meraviglia grazie a un ottimo servizio di wi-fi.
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Viaggio in America – il cibo
Non vogliamo rivelare nulla, solo contribuire alla narrazione di una civiltà, di una cultura. La nostra esperienza americana sul fronte gastronomico si sostanzia di alcuni punti fondamentali.
La qualità del cibo non si discute, gli americani sono molto attenti a regole e tabelle. Difficilmente vi capiterà di mandare indietro un piatto per ragioni oggettive, cioè legate a difetti di freschezza del prodotto. Tuttavia è noto che per fare un buon piatto non basta avere buone materie prime.
La principale differenza tra il nostro cibo e il cibo americano è principalmente musicale. Sí, avete capito bene: musicale.
Prendiamo due ingredienti a caso, tipo pasta e salmone. La nostra cucina si preoccupa di garantire una giusta armonia tra i sapori, nello specifico userebbe il salmone come condimento per la pasta. Negli Usa non esiste il bilanciamento: se hanno una fetta di salmone e cento grammi di pasta, li impiattano l’una sull’altra, la fetta intera su un letto di pasta. E pur essendo sempre gli stessi ingredienti, cambia tutto. Perché non c’è il magico accordo, ma solo un insieme di note messe lì senza una scelta. Ecco la musica. Gli americani in cucina accatastano scelte monotonali senza accorgersi che un buon piatto è essenzialmente composizione e orchestrazione, anche nelle ricette più semplici. Lo si nota anche nell’uso e nel bilanciamento dei sapori dolci e salati. Negli Usa il contrasto è netto, se ti propongono un’insalata con bacon e salsa di mele, avrai un pastone che sa di marmellata perché loro le mele le trattano come mele e basta, al contrario di quanto accade in Italia e nella cucina orientale dove il frutto viene dosato e cucinato in modo da far risaltare gli altri sapori. Pensate al nostro agrodolce e immaginate quanti anni luce separi questi modi di cucinare. In generale laddove noi centelliniamo, loro abbondano. Se noi guarniamo, loro impastano. Se noi condiamo, loro annegano. Sono fortissimi con la carne perché hanno un’ottima materia prima che è (quasi) incorruttibile, nonostante i milioni di salse e salsette con cui ti stordiscono quando devi ordinare un semplice hamburger.
La verità è che qui in America tutto è plausibile, per la maniera con cui te lo propongono, per l’allegra sconsideratezza dei loro menù, per l’ingenua curiosità che riescono a suscitarti. Io ieri sera ho mangiato una cosa che se me la avessero proposta a Palermo, avrei allertato i Nas o mi sarei guardato intorno alla ricerca di una telecamera di “Scherzi a parte”: calamari fritti col formaggio. Un piatto che si giudica il giorno dopo.
5 – continua
Viaggio in America – Grand Island
Basta un po’ di vento e il lago Michigan, visto da Nord, diventa scuro e minaccioso come neanche il più grande degli oceani. Potenza delle immensità dell’acqua che qui, a Escanaba, il luogo che abbiamo scelto come trampolino di lancio verso la Upper Peninsula, sono l’unica attrattiva turistica. Alloggiamo al Sunset Lodge, il motel americano più motel e più americano che si possa immaginare: parcheggi l’auto col muso sulla tua porta, dormi in un prefabbricato che non ha mai conosciuto cemento o mattoni (comunque pulito), paghi poco cioè, per quel che ottieni, poco più del giusto (50 dollari a notte circa).
Il passaggio dal Wisconsin al Michigan è netto. Colpisce la rarefazione di anime e bisogna abituarsi a guidare per centinaia di chilometri senza incontrare un centro abitato: foreste da un lato, foreste dall’altro. Gli abitanti di queste terre, gli yooper, sono nordici non particolarmente espansivi che hanno istinti separatisti. Poi leggi che sono stati i primi a voler abolire la pena di morte e ti diventano più simpatici.
Percorsi i novanta chilometri che ci separavano da Munising, eccoci davanti all’immenso Lake Superior: destinazione Grand Island. Sulla guida abbiamo letto che è divertente affittare una mountain bike e fare il giro dell’isola. Divertente? ci chiediamo appena sbarcati: venti miglia (poco più di 32 chilometri) di circonferenza, più di tre volte e mezzo la nostra Ustica. Tra sentieri sconnessi, strade sterrate e salite durissime ci immergiamo nell’avventura. Solo dopo due ore di pedalata/scarpinata (ci sono pendenze che non si possono affrontare sui pedali) leggiamo sei parole cruciali scritte sul retro della mappa che ci è stata consegnata al centro informazioni: non date da mangiare agli orsi. Che quindi sono intorno a noi, liberi e presumibilmente in cerca di cibo.
Riprendiamo a pedalare con maggiore veemenza scommettendo su chi di noi sarebbe più appetitoso. Ci fermiamo solo nei luoghi più popolati – cioè con tre o quattro persone – per ammirare le spiagge che ricordano più le Seychelles che un lago nordico. Poi, affamati e senz’acqua, si va dritti sino alla chiusura dell’anello stradale: ci mettiamo in tutto tre ore e mezza. Sul battello che torna a Munising maturiamo due certezze. La prima: la cena che ci aspetta deve essere monumentale. La seconda: ai redattori della Lonely Planet andrà segnalato che il giro in bici di Gran Island non è un percorso turistico, ma una prova di sopravvivenza. Comunque incantevole, basta allenarsi sei mesi prima.
4 – continua
Viaggio in America – Door County
Man mano che viaggiamo, la distanza dalle città non è scandita dai chilometri, ma da quella che possiamo definire “caratura della bellezza”. Le profondità di questa fetta di continente regalano infatti una meraviglia semplice, senza le strutture di una storia complessa come la nostra: qui nel Wisconsin si ammira ciò che è evidente, naturale e spontaneo.
Siamo nella Door County, una piccola penisola (piccola per le proporzioni americane, of course) sul lago Michigan. Un felice compromesso tra una clientela in stile Montecatini Terme e un panorama davvero indimenticabile. Foreste, parchi, corsi d’acqua e spiagge, tutto esplorabile con tutti i mezzi, in auto, a piedi, in moto, in kayak, in barca, in bici (con due o più ruote). Così si passa dal turismo agé di Sturgeon Bay, dove abbiamo fatto base, all’incanto del Pensinsula State Park, dal rischio di rimanere digiuni la domenica sera perché il novanta per cento dei locali è chiuso anche in piena estate, all’ebbrezza di pedalare in mezzo ai boschi alla ricerca dell’insenatura perfetta, magari sovrastata da un faro del secolo scorso. Tutto provato sulla nostra pelle. L’unica avvertenza che ci sentiamo di darvi è questa: quando vi lascerete ammaliare dalla three wheel bike (perché la bicicletta a due ruote la conoscete sin da bambini e questo non è un triciclo), tenete conto che state scegliendo il modo più faticoso per esplorare la zona.
La Door County si può tranquillamente visitare in due/tre giorni. Noi siamo stati all’Holiday Music Hotel, un grazioso motel pervicacemente aggrappato agli anni ’50 dove i proprietari mettono a disposizione dei clienti decine di strumenti musicali, e dove i materassi sono nuovi (uno l’abbiamo inaugurato proprio noi).
Panorami a parte, questi luoghi brillano anche della luce della loro gente, affabile e furbamente attenta alle esigenze del turista. Se andate in un qualsiasi centro informazioni, sarete accolti con gli onori dovuti a un’autorità per un motivo semplice: voi siete il loro datore di lavoro. Funziona così da queste parti.
Certo, ci sono le eccezioni. Tipo lo Stone Harbor Restaurant, dal quale siamo fuggiti dopo esserci imbattuti in un paio di cameriere troppo distratte e in un menù prefabbricato per polli in batteria.
Comunque, in generale, il nostro consiglio è quello di memorizzare l’indirizzo di un Walmart al quale ricorrere in caso di emergenza: da un’insalata a un panino, attraverso mille tentazioni esageratamente etniche, in questi supermercati c’è tutto a tutte le ore. Del resto, anche nell’ordinario, l’America è il Paese delle mille opportunità.
3 – continua
Viaggio in America – Oshkosh
La sensazione è quella di essere continuamente spiati da una telecamera di Hollywood. Questo lembo di Wisconsin alterna cittadine popolate da gente amichevole che parla come se masticasse a rarefazioni paesaggistiche spettrali. Provate ad arrivare a Watertown dopo le nove di sera (e per giunta in estate) e capirete molto del profondo Nord americano. La nostra esplorazione ha assunto caratteristiche estreme a causa di un curioso fenomeno che abbiamo chiamato “i turisti invisibili”. In tutto il Wisconsin trovare un posto libero in agosto è impresa assai ardua. Il quesito è: quando non dormono in hotel, dove si rintanano queste orde di turisti? Infatti difficilmente troverete una coda al ristorante o un ingorgo stradale, eppure in questo Stato e in questa stagione gli alberghi sono tutti pieni. La nostra salvezza coincide con qualche motel (come direbbe il nostro amico Giuseppe) che sta appena un gradino sopra il livello di civiltà: tanto che ogni volta che ti devi cimentare in un booking online, sei tentato di andare a cercare sul sito di Amnesty International.
Per questo parliamo di esplorazione.
Rimbalzando da un Super 8 a un Motel 6, la cui unica differenza può essere al limite trovata nella stazza delle receptionist, siamo allunati a Oshkosh, sul lago Winnebago. L’incanto del luogo è sublimato tutto in una domanda: quanti anni luce dista casa nostra? Ricorderemo Oshkosh, un tempo territorio di una tribù indiana dal nome impronunciabile, per due motivi. Il mercato del sabato dove in un ordinato bazar puoi passeggiare tra le marmellate degli Amish e il mais arrostito gentilmente proposto da un’etnia imprecisata, tra il brocantage spinto e il salutismo esasperato di un tale che ti misura la pressione e ti dice quando morirai. E l’aperitivo al tramonto al Fox River, un americanissimo luogo dove, eccezionalmente, americano è un estemporaneo sinonimo di delizioso: tavoli in riva al lago, avventori che approdano in motoscafo, e indimenticabili tacos con gamberi fritti in farina di mais. Unica nota stonata, e non è una trita metafora, anche stavolta, la musica: uno scellerato clone di James Blunt è riuscito a far convivere in modo criminale una voce fuori tono con una chitarra scordata. Per fortuna la birra è buona.
2 – continua
Viaggio in America – Chicago
In vacanza tra Chicago e la regione del grandi laghi. Da oggi rapidi resoconti sotto forma di consigli di viaggio.
Chicago – 3 giorni
La città gode di giustificatissima fama per un semplice motivo: è meravigliosa. La sua modernità storica dovrebbe essere un modello per le nostre città che non prevedono un compromesso tra innovazione e tradizione.
I “consigli per gli acquisti” e le tappe principali per una visita più o meno approfondita li trovate su qualunque guida. Qui è utile ricordare piccoli dettagli di non secondaria importanza. Ad esempio, approfittando dello stordimento del fuso orario (- 7 ore rispetto all’Italia) fatevi una corsetta all’alba sulla riva del lago Michigan (ma va bene anche una passeggiata, a patto che vi porti al cospetto dei giganti di acciaio e vetro della città). Oppure scartate il giro in battello consigliato dalla Lonely Planet e godetevi senza fretta il verde modernamente attrezzato del Millennium Park. Girate per la città a piedi e ascoltatela, lei e la sua musica, parlate alla fermata dell’autobus coi suoi abitanti (io ho canticchiato “Ladies Night” dei Kool And The Gang con uno sconosciuto), perdete più tempo possibile nel Loop.
Il cibo è la prova più difficile per noi italiani (meridionali per giunta). Io e Dani abbiamo fatto una scelta salomonica: 3 giorni, 3 stili. Sandwich madness all’ombra del Chicago Tribune, street food economico da Portillo e crab philosophy da Shaw’s a River North, un posto dove abbiamo mangiato benissimo e ascoltato un quartetto blues scarsissimo.
Per spostarci abbiamo scelto prevalentemente l’autobus (occhio alle donne autista che guidano come… donne autista). Vi consigliamo un numero: 151, la linea che corre da Nord a Sud, da Lincoln Park al South Loop.
Gli americani, com’è noto, mangiano male e si muovono bene, Chicago ne è una strabiliante conferma. Ci sarà un misterioso nesso tra le tonnellate di hamburger e patatine fritte consumate nei mille e mille ristoranti e le schiere di addominali scolpiti che popolano parchi e lungolago? Vedere per credere. Ed eventualmente trovare una risposta.
1 – continua
La vignetta dell’anno
Vista qui.
Bum
Dopo la minaccia di un attacco nucleare della Corea del Nord agli Stati Uniti è utile sapere chi ha armi nucleari nel mondo e chi ha fatto del nucleare solo uno strumento di propaganda. La cartina della CNN è una buona guida per cominciare a capire.
Te la dà lei l’America
Liana Mistretta, giornalista di Rainews, ha avuto la fortuna di viaggiare molto per lavoro. E’ stata inviata in Spagna, Grecia, Francia. Ora ha un blog nel quale racconta l’ultimo Paese nel quale si è fermata, gli Stati Uniti.
Da seguire.
Fai la cosa giusta
L’America può apparire puritana all’Europa, ma rispetta l’insegnamento di Thomas Jefferson, uno dei suoi padri fondatori: un uomo pubblico deve rispondere agli elettori anche della sua condotta privata. Se Strauss Khan ha fatto quello di cui è accusato, pagherà di persona.
Così ha scritto nei giorni scorsi Ennio Caretto sul Corriere della Sera, ricordandoci in fondo quello che sapevamo bene e cioé che gli Usa hanno fondato i loro pochi secoli di storia sul perfetto funzionamento del rapporto tra causa ed effetto.
Nel bene e nel male gli Stati Uniti sono il paese delle decisioni. La loro frase simbolica è: “Fai la cosa giusta”. La nostra è: “A frà, che te serve?”. Lì potere è duro, spesso crudele, e gode per sua essenza di una vastissima base di consenso, qui è in bilico tra mille compromessi e spesso, come disse un tale, logora chi non ce l’ha.
Negli Usa, soprattutto, nessun esponente politico si sogna di modificare una legge a suo vantaggio perché esiste ancora (e non solo in America, penso al Giappone ad esempio) una forte sensibilità alla vergogna. Che in Italia invece è stata abolita per decreto.