Guardando la diretta Facebook della conferenza stampa congiunta di Barak Obama e Matteo Renzi mi ha colpito un dettaglio ormai non più secondario: i commenti degli utenti italiani. Tutto un miscuglio di schifezze, di offese a raffica, di qualunquismo becero. La frase più ricorrente, piena di una violenza subliminale, strisciante come quella dettata dalla non conoscenza, è: tornatene a casa che abbiamo problemi più gravi.
Non funziona così. Non funziona così da nessuna parte del mondo civilizzato. A parte quel briciolo di orgoglio nazionale che dovrebbe accompagnare il capo di un governo, un governo qualsiasi purché sia vagamente democratico, nelle sue missioni diplomatiche, c’è una ragione molto più valida per ritenere gli attacchi a raffica all’istituzione (badate, non parlo di Renzi come persona) un esempio di somma inciviltà: il criterio della rappresentatività.
Si può essere d’accordo o no con un governo, si può aver votato o no la parte politica che decide le nostre sorti, ma non si può dileggiare un’istituzione nel momento in cui fa l’istituzione. Persino con Berlusconi, che era un impresentabile guascone, l’asticella dell’odio gratuito era più alta. Con Renzi, nell’epoca in cui tutti sanno tutto perché non si occupano altro che del dire su tutto, questa vergogna italiana – perché lo sapete che è una tipicità italiana, vero? – ha raggiunto il suo apice. Sino a quando non saremo un popolo unito davanti ai suoi simboli, saremo solo l’eterna regione ai confini dell’impero. Sino a quando non impareremo che il dissenso non è offesa e dileggio, ma ragionamento e strategia, saremo solo un’accozzaglia di nickname sulla stele che più ci meritiamo. Quella dell’ignoranza.
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In Italy we almost have a dictatorship of left judges
Obama, quello abbronzato, ascolta annuendo come un pupazzetto a molla. Una larga fetta dell’Italia spera disperatamente in una debacle dell’interprete e, alla fine, si aggrappa a un dato di fatto: il presidente Usa non risponde.
Due considerazioni.
1) Berlusconi, dicono i suoi accoliti, in fondo ripete ciò che ha sempre detto. Come se riproporre orgogliosamente un’ossessione fosse il motivo sublime del concetto: straparlo (strapenso?) ergo è giusto quello che dico.
2) Che caspita gli racconta al presidente del più potente stato del mondo, uno che ha una scala di emergenze molto diversa dalla sua (uno che, tanto per dire, fino a qualche giorno fa era rinchiuso nella situation room a occuparsi di cose ben più delicate)?
Obama segue Osama: su twitter
Il twitter di un falso Osama bin Laden ha un follower d’eccezione, il vero Barack Obama.
L’esultanza che non mi scandalizza
Non riesco a scandalizzarmi per l’esultanza degli americani dopo la morte di Osama bin Laden. E non ho bisogno di inerpicarmi sui sentieri della religione, dell’etica o della storia per trovare una giustificazione al mio atteggiamento.
La morte più o meno metaforica del nemico è da sempre il chiodo fisso di chi ha veri nemici. Gli americani hanno la più forte identità nazionale del pianeta che, per di più, ha subito il maggiore oltraggio possibile.
Per giudicarli bisognerebbe scavare innanzitutto nelle nostre lacune patriottiche. Poi sarebbe necessario passare al filtro della pietà certe nostre insane tendenze giustificazioniste che lasciano la pena incompiuta, che riabilitano figure da dimenticare, che creano vittime precarie come se da un dramma si uscisse automaticamente dopo un tempo stabilito.
Mi dispiace, non riesco proprio a scandalizzarmi per quelle grida di gioia e quelle bandiere.
Buon umore
Ecco perché l’altro giorno Obama era così allegro.
Uno spunto di riflessione
Scrive Christian Rocca:
In soli due anni, il Nobel per la Pace
ha triplicato il numero dei soldati americani in Afghanistan;
è ancora in Iraq;
ha bombardato circa 200 volte il Pakistan;
sta bombardando la Libia.
(E ha fatto bene)
Siamo ancora in grado di cedere ingenuamente alla distinzione tra buoni disarmati e cattivi con le bombe in tasca o le pistole in pugno?
In caso di Finanziaria
Ho preso un appunto che vi riproporrò ad ogni approvazione di legge Finanziaria, come promemoria.
Secondo Edward Luttwak, il presidente della regione Molise guadagna più di Barak Obama.
Non risultano ancora smentite.
Inconvenienti
Il presidente Usa Barak Obama cita Harry Truman e dichiara: “Alla fine comunque la responsabilità è sempre mia”. Vedi cosa succede se non hai un modello come Mussolini?
I grandi all’altezza
C’è una caratteristica fondamentale che rende veramente grandi gli uomini di potere: è il loro sapersi mettere in gioco quando il gioco gira male.
Se in Italia si fosse verificato un buco nella sicurezza nazionale come quello del fallito attentato di Natale negli Usa, lo scaricabarile, gli insabbiamenti e le risse politiche avrebbero paralizzato ogni attività di ricerca della verità.
Già me li vedo i Capezzoni, i Di Pietri, i Gasparri (lui è avvantaggiato perché ha un cognome che è già un plurale) che consumano ugole e saliva. Monica Setta che imbastisce un programma per dimostrare che il terrorismo è solo di sinistra e che addirittura ha una radice genetica nel mancinismo. Bruno Vespa che indossa un plastico delle mutande esplosive come quelle strappate – tra qualche gridolino ammirato delle hostess – all’attentatore.
Invece in America il presidente ha usato la più raffinata arma di persuasione di massa: l’ammissione personale di responsabilità. Ha detto al popolo “è colpa mia” ottenendo un duplice risultato: sedare al più presto le polemiche politiche (se uno ammette, ammette e basta, inutile continuare a battere i pugni sui tavoli) e rassicurare la sua gente (se uno si mette in discussione riscuote una maggiore fiducia).
Per uno come Barak Obama mettersi in gioco quando il gioco gira male significa prendersi tutte le responsabilità: reali, metaforiche, ipotizzabili.
Per altri mettersi in gioco quando il gioco gira male significa litigare con tutti, arbitro compreso, e magari tentare di comprarsi la partita.