Facci, Travaglio e la finta democrazia

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

Avvertenza per i lettori. Questo post è un po’ più lungo del solito: mi scuso.

Nel weekend appena trascorso ho assistito a un singolare fenomeno che ci dice molto del web, dell’informazione e soprattutto dei navigatori (nella fattispecie palermitani).
Sabato ho linkato un articolo di Filippo Facci su “Travaglio e il travaglismo” e non ho aggiunto alcuna opinione personale, anzi ho specificato che preferivo non dare alcun giudizio per non influenzare i lettori.
Il post è stato ripreso da Tony Siino su Rosalio che lo ha accompagnato, maliziosamente, con una nota personale.
Il programma prometteva bene. C’era solo da ragionare sulla teoria di Facci.
Travaglio è vittima di un doppiopesismo che altera la sua visione della cronaca?
Se non si è del Pdl esiste un altro modo di vedere la realtà politica italiana che non debba necessariamente passare attraverso il filtro del suddetto Travaglio?
Bella discussione, tosta, divertente.
Invece niente.
Prima di proseguire è giusto che, per chiarezza nei confronti dei più distratti o di chi si avvicina a questo blog per la prima volta, illustri brevemente la mia posizione sui protagonisti della vicenda.

1) Seguo Marco Travaglio con interesse e ne ho condiviso alcune ragioni.
2) Ritengo che il magistrato Antonio Ingroia svolga un ruolo importante nella lotta contro Cosa nostra.
3) Cerco di non lasciarmi ingannare da tesi precostituite. La migliore domanda, dovrebbero insegnarlo al catechismo, è quella che ancora bisogna porsi.
4) Leggo Filippo Facci pur non condividendo le sue opinioni. Però lo seguo con una certa assiduità perché nella vita non c’è niente di più interessante che indagare il pensiero opposto. Accodarsi comodamente alle opinioni dei sodali è noioso: solo uno come Berlusconi non lo capisce.

Quest’ultimo punto è il più importante nella storia che vi sto raccontando (e una volta tanto non mi riferisco a Berlusconi).
Lasciatemi essere prosaico: leggere e discutere ciò che è lontano (o sta fuori) dal nostro cerchio di opinioni è la migliore occasione di crescita intellettuale che ci sia data. E il miracolo di internet sta proprio nell’amplificare questa possibilità.
Se potessi, leggerei ogni giorno cento, mille articoli di Facci e compagni proprio perché se non è la similitudine a fertilizzare il nostro orticello di idee, sarà il contrappasso a far sì che uno si incazzi, un altro ci pensi su, un altro ancora si cimenti in una teoria concorrente. E’ l’antica magia della discussione, del dibattito ad armi pari, della sana polemica.
Invece niente.
Il link all’articolo in questione si è risolto in una congerie di ruttini anonimi: chi ha linkato? E perchè? E cosa ci sta dietro?
Ve lo dico io chi, perché e cosa ci sta dietro.
Ho linkato io, perché sono un tipaccio curioso e mi piace condividere spunti e provocazioni. Li considero regali. Come un’edicola virtuale: oggi io metto queste pagine, divertitevi pure, incazzatevi, gioite, comunque ragionateci sopra.
Invece niente.
Soltanto in pochi sono riusciti a rimanere in tema, convinti o meno dalle tesi di Facci.
Gli altri, esclusi i ruttatori anonimi di cui si è detto, sono finiti nelle trappole più banali:  chi tocca Travaglio muore per un’esecuzione senza argomentazioni; chi vuol restare comodo critica Facci anche senza leggerlo.
Tutto ciò mi convince sempre più del fatto che il nemico peggiore di internet sia la sua finta democrazia. Finta perché illude che le opinioni e le non opinioni debbano avere tutte lo stesso rilievo.
Non è così.
Nel libero scambio di pareri si devono fissare dei limiti, una sorta di netiquette neuronale,  oltre i quali non è consigliabile andare.
La stupidità è un’emergenza mondiale e non ha nulla a che fare coi confini geografici (anche se ho il tremendo sospetto che dalle mie parti ci sia un carattere dominante aggrappato a un gene molto diffuso).  La stupidità non ha legami di parentela coi titoli di studio, è figlia della codardia (leggi: anonimato) e della supponenza (leggi: avanzare ipotesi offensive).
Il caso Facci-Travaglio  è un esempio che vi invito a ricordare: un’ottima occasione di discussione accesa e feconda ammazzata dall’ignoranza più pericolosa, quella di chi giudica senza (sognarsi di) leggere, sapere.

Link per il fine settimana

Una lettura per il fine settimana. Non do il mio giudizio per non influenzarvi.

I disagi del boss

Poche parole

di Raffaella Catalano

L’unica frase che il boss Domenico Raccuglia ha detto ai magistrati della Procura di Palermo dopo il suo arresto ha dell’incredibile.
“Avete visto in che condizioni vivevo?”. Questo ha detto.
Che voleva? Compassione? Oppure sperava che i poliziotti, dopo averlo arrestato, lo trasferissero in un grand hotel per dargli modo di riprendersi dai disagi del covo?

Si respira meglio

Bravi, bravi, bravi!

P.S.
Credo che se qualcuno di noi fosse stato il sindaco di Palermo, sarebbe stato in mezzo a quei ragazzi a cantare, ballare, incitare. Solo che il sindaco di Palermo non è uno di noi.

Per grazia ricevuta

L’altra sera il Tg1 ha mandato in onda un editoriale in cui il direttore Augusto Minzolini attaccava il magistrato Antonio Ingroia e auspicava il ritorno dell’immunità parlamentare. Il che è già una scelta di campo abbastanza grottesca: screditare un pm antimafia e chiedere l’impunità per i potenti (scusate il termine qualunquista) è come pretendere di passare il controllo del metal detector con mitra in tasca, una coglionata insomma.
Facciamo finta di non sapere che il lavoro (rischioso) di Ingroia lambisce gli interessi di personaggi come Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. E facciamo finta di non aver visto neanche uno dei tg addomesticati da Minzolini. Secondo voi, una persona di media intelligenza e onestà a chi darebbe conto? A un magistrato che cerca faticosamente di venire a capo di difficili indagini che potrebbero coinvolgere personaggi dello Stato, o a un giornalista che cerca faticosamente di proteggere dal giudizio pubblico quegli stessi personaggi dello Stato che lo hanno messo sulla poltrona di direttore del Tg1?

Presa di coscienza

di Giacomo Cacciatore

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Scritta sui muri di un ospedale di Palermo.

Il pedigree del politico

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La vignetta è di Gianni Allegra

Una volta, fino a una quindicina di anni fa, i politici erano trasparenti, pur nella loro opacità. Si sapeva chi rubava, chi era onesto, chi era spalleggiato dalle cosche, chi prometteva bene e chi manteneva male. E la cronaca era ancora il regno della verosimiglianza.
Oggi non c’è certezza neanche di un’opacità deludente. Nella corsa all’ultimo veleno, spioni e gaffeurs fanno a gara a chi alza più veli,  scoperchia più pentole, sfonda più porte, registra clandestinamente, filma di nascosto, trama, tratta, rivende.
Il dubbio è: per offrire adeguate garanzie all’elettorato servirà più un certificato penale o un pedigree?

Sciascia, Bocca e Dalla Chiesa

All’indomani dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Leonardo Sciascia scrisse un lungo articolo sul Corriere della Sera che, sostanzialmente, conteneva una risposta e un’interpretazione.
La prima era rivolta a Giorgio Bocca.

Secondo lui (Bocca, ndr) io avrei della mafia un’immagine indefinibile, cangiante, misterica, raffinatissima. Troppi aggettivi: e soltanto uno – cangiante – potrebbe cautamente andare; ma a misura di un cangiamento oggettivo, non soggettivo. (…)
Se di questi cambiamenti (di Cosa Nostra, ndr) Bocca non si accorge, nonché dell’intuito di letterato, è sprovvisto dell’intuito di storico (qualche suo libro porta nel titolo la parola storia) e dell’intuito di giornalista. Che peraltro non occorrono, bastando il semplice buon senso (…)

L’interpretazione era, come spesso accadeva, urticante.

Il generale Dalla Chiesa non si proteggeva sufficientemente e accortamente. (…) andava per le strade di Palermo senza protezione e precauzione; ma pare che il dirlo venga considerato un’offesa alla memoria del generale e una remora alla lotta contro la mafia. (…)
Il fatto che Dalla Chiesa si fosse identificato nel capitano dei carabinieri del Giorno della civetta è dimostrazione, piccola quanto si vuole, di quel che pensava di sé e della mafia.

Comunque la si pensi e qualunque sia il giudizio sul letterato e sulle sue parole, credo che oggi manchi una mente in grado di esibire concetti con simili profondità e chiarezza.
Per questo mi permetto di segnalarvi la raccolta delle opere di Leonardo Sciascia, edita da Bompiani.

L’uomo che si fece re e pedina

Stasera a Palermo si presenta “Il mago dei soldi”, una docufiction su Giovanni Sucato realizzata dal sottoscritto insieme con Giacomo Cacciatore e Raffaella Catalano e prodotta da “S” e “Novantacento”. L’appuntamento è alle 21,30 a villa Filippina.

di Giacomo Cacciatore, Raffaella Catalano e Gery Palazzotto

Abbiamo scelto di occuparci della vicenda di Giovanni Sucato con lo spirito di chi voleva guardare la Sicilia da un’angolazione inconsueta. Sono i piccoli fatti di cronaca che, a nostro parere, completano il quadro d’insieme di un grande fenomeno criminale come quello di Cosa nostra. Questa non è una storia di leggendarie latitanze e di superboss dalle strategie imperscrutabili. E’, per così dire, una storia dal basso. Non volevamo puntare i riflettori su protagonisti noti perché la storia, spesso, la scrivono anche i comprimari. E perché le situazioni minori sono paradigma di scenari più vasti: ne ripetono i meccanismi, ma offrono uno spunto di interesse in più, perché consentono di far emergere dal passato fenomeni e personaggi dimenticati, che comunque hanno segnato epoche, costumi, economie, vite. Inoltre, la vicenda Sucato rappresenta una parabola davvero singolare: quella di un personaggio atipico, un self made man alla siciliana che da solo si è fatto re e pedina.
Parlare di mafia attraverso il percorso del mago dei soldi significa abbracciare cronaca e sogno, psicosi collettiva e ipnosi mediatica. Significa attraversare tutti gli strati sociali dell’isola, aggiungendo la dimensione che manca allo schematismo con cui spesso si ricostruiscono le guerre tra clan. Significa estrapolare dalla manifestazione macroscopica il dramma privato.
Senza trascurare l’interesse narrativo che la vita e gli affari di Giovanni Sucato offrivano.
Coinvolgere, spremere e trascinare esistenze, in Sicilia, è in genere una prassi dell’organizzazione mafiosa. Raramente è accaduto il contrario, cioè che un singolo uomo – addirittura un ragazzo, in questo caso – abbia coinvolto e trascinato pezzi di Cosa nostra. Seppur pagando il solito, ineluttabile conto.

E il bene?

gds

Dal Giornale di Sicilia del 17 agosto 2009.

Grazie a la Contessa.