Non esistono più le grandi scomparse di una volta, quelle morti che facevano un buco nella storia.
Fate una prova, elencate gli scrittori, i musicisti, i cantanti, i pittori che non ci sono più e cercate di misurare il grado di mancanza che sono riusciti a generare con la loro dipartita.
Oggi mi pare che tutto sia diverso. Dico mi pare perché è ovvio che siamo in un ambito in cui vige la dittatura della soggettività.
Di fatto, per quel che è la mia percezione, Steve Jobs se n’è andato qualche giorno fa e, a parte qualche fiore davanti a un Apple store, il dibattito è tutto sulla sua eredità tecnologico-sociale e sulle colpe degli iPhone addicted. Due anni fa è morto Michael Jackson e se ne parla ancora solo perché c’è un mistero sulla sua fine. La scorsa settimana hanno dato il Nobel per la medicina a uno che era morto tre giorni prima.
Storie diverse, ovviamente. Ma con un sottotesto comune. La ferita si rimargina presto, come per effetto di una polvere miracolosa.
Quando mori Jimi Hendrix, la sua Fender “mancina” divenne un simbolo del rock. Leonardo Sciascia è ancora un autore da bestseller. La grandiosità di Antoni Gaudì non è stata offuscata dalla sua fine grottescamente misera.
Insomma il personaggio oggi non vive più nel mito delle sue opere, ma al contrario sono le sue opere a seppellirlo.
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A proposito di Sciascia e Saviano
Qui c’è un bel pezzo di Giancarlo Macaluso che spiega perché Saviano commette qualche errore su Sciascia, Galasso e sui meccanismi delle “macchina del fango”.
Sciascia chi?
“Certo che ho letto Sciascia. E’ un libro dalla copertina rossa. Vero prof?”
Prof passa in rassegna tutte le copertine di sua conoscenza dedicate al maestro. Forse qualcosa di rosso c’è. Forse qualcosa di Adelphi della Piccola biblioteca.
Ma Prof. vuole andare sul sicuro e all’esaminanda chiede se ricorda il titolo della lettura. Niente da fare.
Rosa Maria Di Natale fa un esperimento coi suoi studenti universitari.
L’ottimismo è il profumo della vita
L’attimino fuggente
di Giacomo Cacciatore
Alla luce del Centorrino-economista-pensiero, propongo il mio vademecum per il perfetto siciliano ottimista di sinistra.
Mattina: canticchiare “Ciuri-ciuri” appena svegli, preferibilmente con un rametto di zagara sull’orecchio e la giacca del pigiama – rossa, di raso – annodata alla vita, in stile carrettiere siculo o cameriere del ristorante “Lo strascino”.
Affacciarsi e respirare a pieni polmoni l’aria pervasa dall’odore di agrumi (fradici) che esala dal più vicino cassonetto dell’Amia.
Tra un boccone e l’altro di cannolo e un sorso di latte di mandorla, benedire l’ingorgo che ci separa dal posto di lavoro, i chiusini gorgoglianti, le strade e i sottopassaggi allagati – se piove – che ci costringeranno a restare intrappolati nel traffico e ammirare così le bellezze della città di Palermo.
Una volta usciti, toccarsi se per caso si passa davanti all’albero Falcone, al monumento dei caduti della mafia, all’abitazione del procuratore Costa e alle varie lapidi di gente così sfigata da aver incrociato una pallottola o essere inciampata in una buca scavata dal tritolo.
Pranzo: tra un’arancina e l’altra, astenersi dalla lettura di qualsivoglia libro. Al massimo un quotidiano: la pagina culturale di La Repubblica Palermo o, meglio ancora, quelle del Giornale di Sicilia. Unica lamentela concessa: per un chiusino di via dell’Ermellino che trabocca di liquami o per un canuzzo abbandonato nei pressi dello svincolo di Via Oreto. Esultare alla notizia della solita vecchina di Torretta che ha compiuto 120 anni.
Pomeriggio: siesta. Con un saggio di Mario Centorrino. Tv: poca, meglio nostrana. Si consiglia “Opinion Leader”, anche in replica.
Sera/Notte: esorcizzare con acquasanta, nella libreria di casa, le copie residue de “Il Gattopardo”. “Todo Modo” e “La concessione del telefono”. Sfogliare, come rituale apotropaico, alcuni ritratti di Camilleri, Sciascia e Tomasi di Lampedusa, ripetendo sottovoce: “minchia attasso”. Avvantaggiarsi, se si ha spazio, di un poster di Pippo Baudo o di un carrettino siciliano: tengono lontana la sfiga. Se si aspira alla carriera universitaria nell’isola avendone merito e punteggio (e senza intenzione di fare domanda di assunzione a un call center di Melbourne) sorridere al domani. Ci pensa Centorrino.
In un giorno qualunque della settimana o del mese: tesserarsi al Pd siciliano. Porta sfiga anche questo, ma almeno si ride.
Cazzate
Mario Centorrino, meglio conosciuto come l’economista Mario Centorrino (una frase ricorrente sui giornali come l’asfalto reso viscido dalla pioggia, dai rubinetti non esce il prezioso liquido, poteva essere una tragedia, le isole isolate e la scure della Corte dei conti) ha scelto il modo migliore per tornare sui giornali nella sua veste di neo assessore alla Formazione del governo lombardiano-siciliano. Il modo migliore per i tempi che corrono, cioè il peggiore per chi questi tempi vorrebbe azzopparli.
La sua ricerca dell’ottimismo, cioè quella messa in atto da un economista di sinistra collaboratore di giornali di sinistra (noi lettori di sinistra abbiamo divorato i suoi articoli con la stessa felicità con la quale si recita un rosario), ha prodotto un primo importante risultato: Sciascia, Camilleri e Tomasi di Lampedusa non vanno letti. Che è come dire, il pensiero lieve parte dalla filosofia Weight Watchers.
Una provocazione, dicono alcuni per giustificarlo. No, le provocazioni sono quelle che fanno pensare, anche con modi urticanti.
Poi ci sono gli errori, e quelli, se ammessi, diventano occasione di crescita.
Qui, come si capisce, non si tratta né di provocazione né di errori.
E la vicenda è talmente chiara che è inutile perdersi in giri di parole. Quelle di Centorrino sono semplici, pure, tristi cazzate. Diciamoglielo chiaramente.
Intellettuale di sinistra
Le ideologie sono ormai superate. Destra e sinistra, tutti assieme, almeno per un anno prendiamoci una pausa. Non leggiamo più per un po’ Camilleri, Tomasi di Lampedusa o Sciascia perché sono una sorta di sfiga nei confronti della Sicilia. Ci vuole ottimismo.
Mario Centorrino, economista e professore all’università di Messina, iscritto al Pd e, quel che qui conta, assessore regionale alla Formazione nel governo regionale siciliano di Raffaele Lombardo.
Sciascia, Bocca e Dalla Chiesa
All’indomani dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Leonardo Sciascia scrisse un lungo articolo sul Corriere della Sera che, sostanzialmente, conteneva una risposta e un’interpretazione.
La prima era rivolta a Giorgio Bocca.
Secondo lui (Bocca, ndr) io avrei della mafia un’immagine indefinibile, cangiante, misterica, raffinatissima. Troppi aggettivi: e soltanto uno – cangiante – potrebbe cautamente andare; ma a misura di un cangiamento oggettivo, non soggettivo. (…)
Se di questi cambiamenti (di Cosa Nostra, ndr) Bocca non si accorge, nonché dell’intuito di letterato, è sprovvisto dell’intuito di storico (qualche suo libro porta nel titolo la parola storia) e dell’intuito di giornalista. Che peraltro non occorrono, bastando il semplice buon senso (…)
L’interpretazione era, come spesso accadeva, urticante.
Il generale Dalla Chiesa non si proteggeva sufficientemente e accortamente. (…) andava per le strade di Palermo senza protezione e precauzione; ma pare che il dirlo venga considerato un’offesa alla memoria del generale e una remora alla lotta contro la mafia. (…)
Il fatto che Dalla Chiesa si fosse identificato nel capitano dei carabinieri del Giorno della civetta è dimostrazione, piccola quanto si vuole, di quel che pensava di sé e della mafia.
Comunque la si pensi e qualunque sia il giudizio sul letterato e sulle sue parole, credo che oggi manchi una mente in grado di esibire concetti con simili profondità e chiarezza.
Per questo mi permetto di segnalarvi la raccolta delle opere di Leonardo Sciascia, edita da Bompiani.
Ignoranti colpevoli
Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone, la mediocrità si accompagna a un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo d’imbecillità…
Queste parole le scrisse Leonardo Sciascia sul Globo, nel 1982. Sono di poco precedenti a un periodo che allora mi sembrò buio, ma che oggi declasso a penombra. Un’epoca che verrà inquadrata sbrigativamente nel Craxismo.
L’invasione degli stupidi nella politica italiana non è una novità dei giorni nostri, anche se potrebbe essere un’emergenza.
Nesuno mi toglie dalla testa che Sciascia ha presagito i tempi delle candidature per meriti corporali: ciò che si ottiene senza merito non è per grazia ricevuta, quanto per grazia elargita.
Nell’anno 2009 lo stupido al potere ruba, se ne ha l’occasione, senza curarsi di un piano B (che lui, per effetto della sua rassegna stampa, confonde col il lato B), tanto sa che non ci sarà mai una fuga da architettare, una difesa da imbastire: i suoi sodali infatti lo hanno già blindato in una legge che salvaguarda la sua disonestà e – quel che è peggio – la sua imbecillità.
Il sistema premiale creato dagli stupidi al potere risente ovviamente del loro tipo di furbizia. Che si distingue da quello ordinario per ossessività. Un furbo per così dire normale sa che il suo espediente o la sua invenzione possono essergli utile una-due volte. Il furbo-stupido non pensa ad altro che a sfruttare sempre la medesima “trovata” (spesso scimmiottata o copiata, ecco il perché delle virgolette), tanto alle sue spalle ci sarà sempre uno sponsor pagante, un padrino interessato, un partito di suoi simili che garantirà e combatterà per lui.
Il cardine su cui si muovono le vite (e spesso i reati) delle “persone di assoluta mediocrità” è l’ignoranza colpevole. Che è altra cosa rispetto alla semplice ignoranza, che spesso è fucina di grandi invenzioni (come tutti sanno l’arte non si misura a pagine lette o a titoli di studio).
Oggi l’ignorante colpevole è quello che occupa abusivamente il posto di chiunque altro.
Non chiamiamoli scrittori
di Raffaella Catalano
Sono dell’idea che un romanzo ben scritto non possa prescindere da un editing professionale. E non perché faccio l’editor di mestiere, ma perché sono decisamente contraria alle varie iniziative promosse da siti e pseudo-editori che si limitano a stampare testi inediti senza nemmeno leggerli. Un caso clamoroso, ma non certo unico, è quello del sito ilmiolibro.it che fa spendere soldi a chiunque per “pubblicare” romanzi, racconti, saggi e poesie inqualificabili, si fa pagare un bel po’ di soldi dai clienti (non posso chiamarli autori, per rispetto degli autori veri) e soprattutto crea in chi si vede stampare un libro in quel modo selvaggio l’illusione di essere uno scrittore. Illusione che crolla – tranne casi rarissimi, che in quanto tali fanno notizia – quando il presunto Eco o Sciascia che ha pubblicato a suon di euro si trova al cospetto di una casa editrice vera, che legge, seleziona e corregge. Chi viene dall’esperienza prezzolata, la inserisce persino nel curriculum, quindi ci crede. E poi risulta sempre resistente, se e quando trova un editore serio disposto a prendere un suo inedito in considerazione, a qualsiasi intervento correttivo al suo testo. Perché ritiene che quel titolo in bibliografia – la dispendiosa opera prima con Pinco Palla Edizioni – gli dia la patente di autore che tutto sa, e che quindi non ha bisogno di nulla e di nessuno.
Per l’ennesima volta (l’ho fatto altrove, in interviste e articoli) mi permetto di sconsigliare a chicchessia di pagare per pubblicare, e di aspettare, invece, di essere pagato. E’ così che funziona. E’ così che si diventa scrittori. E vorrei suggerire anche di stare ad ascoltare chi lavora al servizio dei narratori, cioè editor ed editori, che con un po’ di esperienza e le dritte giuste magari non lanciano il nuovo genio della letteratura, ma almeno formano l’autore o lo affinano, e soprattutto non lo offrono scientemente al pubblico ludibrio. Io per prima confesso che sghignazzo quando leggo i pasticci letterari degli aspiranti scrittori su ilmiolibro.it, su siti analoghi o su alcune rivistine per esordienti. E di ridere non mi pento affatto. Anzi penso: peggio per loro. Mi dispiace solo che gettino via i soldi e con quelli anche i sogni di (vera) gloria. Ci vuole umiltà per crescere, ci vogliono indicazioni per trovare la strada. E’ nocivo farsi paracadutare a pagamento in mezzo a un traffico già sin troppo caotico. Infine, due parole anche per alcuni editori poco scrupolosi o con il portafoglio cucito: non affidate i vostri autori a editor improvvisati che si fanno pagare 50 euro per correggere un romanzo di 800 pagine. Se accettano cifre da saldo stagionale vuol dire che non sanno fare il loro mestiere e prendono in giro voi e i vostri autori. Un buon lavoro costa, in tutti i sensi. A chi lo fa e a chi lo paga.