Gli scatti di Mangione

Il caro Salvatore Mangione, uno dei più affezionati lettori e commentatori di questo blog, ha pubblicato alcune sue foto sul sito di Vogue. Sono molto belle, dateci un’occhiata.

 

Più leggeri sugli smartphone

Da qualche giorno l’accesso a questo blog da smartphone è più semplice e la navigazione è più agile. Tutto ciò grazie ad alcune diavolerie tecnologiche sulle quali non ho il coraggio di soffermarmi. Spero solo che il risultato sia di vostro gradimento.

 

 

La Minetti intervistata da lei medesima

Prendetevi un appunto per quando avrete un’oretta libera, magari insieme agli amici. Andate sul sito di Nicole Minetti e concedetevi una evasione dalla ragione. Troverete: un’esilarante intervista a lei, fatta presumibilmente da lei medesima, in cui a un certo punto è l’intervistata che rivolge domande all’intervistatore; un’emozionante galleria MULTIMEDIATICA; un sorprendente elenco di “attività svolte” tra cui spicca un epico “pensiero sulla giornata internazionale contro la violenza delle donne”.
Da non perdere.

 

Digito ergo sum

Non riesco ancora a capire cosa spinge milioni di persone a comunicare pubblicamente, tramite Foursquare o altre diavolerie, la propria posizione geografica.
Su Facebook e su Twitter è tutto un fiorire di messaggi, in inglese e con tanto di mappa, in cui grazie alla geolocalizzazione si comunica al mondo intero: “Sono qui”, con orario e foto di accompagnamento.
A parte la rinuncia ostentata a qualsiasi forma di privacy, c’è anche – secondo me – un difetto di strategia. Se io, ad esempio, voglio sapere cosa fa un mio concorrente commerciale basta che ne segua le tracce sul web e potrò intuire qualcosa dei suoi programmi: un bel vantaggio.
Il successo di Foursquare è fondato, come sempre più spesso accade, sulle schizofrenie degli sfegatati di internet. Che da un lato fanno crociate per la sacrosanta riservatezza degli indirizzi di posta elettronica e dall’altro regalano informazioni molto personali al mondo intero (che non è fatto solo di amici e parenti).

Vita analogica, ogni tanto

Non sono un tifoso sfegatato della carta. Leggo, dopo un anno di regolare allenamento, anche su supporti tecnologici ad alto rischio incazzatura (provate a mettervi d’accordo con un tablet particolarmente sensibile allo sfioramento, quando voltate pagina senza la risolutezza che serve). Però in questo periodo mi è capitato di vivere in una dimensione molto analogica, senza connessioni che non siano di reale vicinanza: si parla perché si è seduti accanto, si gusta il silenzio poiché le parole non sono infinite, ci si guarda in faccia per capirsi. Continua a leggere Vita analogica, ogni tanto

(…)

Siccome c’è un’odiosa sentenza che mette in dubbio la libertà di chi, come me, scrive con assiduità su un blog, preferisco tacere per oggi. Tanto per togliere elementi a chi vorrebbe accusarci di stampa clandestina.

Ritratto dell’invidioso

Tra i milioni di difetti che mi ritrovo non c’è, credo, quello dell’invidia*. E non per virtù, ma per praticità. L’invidioso è un concorrente mancato, un rompicoglioni in contumacia, un onanista della lamentela: uno che spaccia la noia per riflessione, salvo addormentarsi nei momenti più “creativi”. Insomma non è un polemista, ma un mestatore solitario.
Ci pensavo ieri mentre leggiucchiavo qualcosa su internet. Scarseggia, nei blog, il materiale originale – quello che propone, suggerisce, testimonia – mentre crescono i contributi di rivalsa personale: io sono migliore di te, il mio sito è bello e inarrivabile (mentre si suppone che quello del vicino, a dispetto dell’erba, sia meno verde), io a questa cosa ci ho pensato prima degli altri.
L’invidia ha sul web forme variopinte, estremamente divertenti. Se l’invidioso non può competere con il suo avversario, perché non ha le capacità, la struttura tecnologica, la storia, allora assume altre forme, si incarna in altri corpi e si cimenta in altri codici che, badate bene, saranno sempre riconoscibili a una mente mediamente lucida. Perché l’invidioso, in fondo, è anche un po’ scemo.
Il soggetto in questione trafficherà con mezzi analoghi a quelli del suo competitor, senza mai scendere in diretto conflitto: altrimenti non sarebbe un concorrente mancato, sarebbe una persona normale. Si manifesterà sotto altre spoglie, non muoverà mai una guerra diretta, parlerà a mezza bocca, farà incetta di amici tra i nemici del suo bersaglio, rinnegherà pensieri e parole pur di assemblare nuovi pensieri e parole che giustifichino la sua minima esistenza.
In più utilizzerà tutti i mezzi al di sotto della cintola per colpire l’avversario, infischiandosene dei regolamenti che richiamano il regime del rapporto causa-effetto. L’invidioso non trova più l’origine del suo rancore già cinque minuti dopo l’evento che lo ha messo in agitazione.
Se avete la sventura di incontrarne uno che ce l’ha con voi, e siete in uno stato di grazia, provate a chiedergli qual è il motivo di tanto astio: ne ricaverete una risposta confusa, tanto più rarefatta e delirante quanto abissale è la qualità della vita che vi divide. Perché – dettaglio che non può passare in sordina – l’invidioso fa una vita peggiore della vostra. E lo status sociale non c’entra nulla, si può vivere male a qualunque longitudine lavorativa e reddituale. Solo che l’invidioso non ha aspettative di miglioramento, altrimenti gli verrebbe a mancare il terreno sotto i piedi. E lui ci tiene a calpestare il fango giusto.

* ma posso sempre sbagliare.

Un dump del db…

Ricevo per conoscenza (conoscenza?) una e-mail:

(…) abbiamo effettuato il mirroring completo di tutti i file, sullo spazio ftp (…). Ti allego un dump del db (…)  Pensate voi a creare il db, allacciarlo a WP e importare il dump(…)?

Se non me l’avesse mandata un amico l’avrei presa per una minaccia in lingua straniera (coi tempi che corrono…). Invece mi sono dovuto rassegnare: era una rassicurazione in lingua ultra contemporanea.
I tempi cambiano velocemente. Noi un po’ meno.

E-blogs, l’intelligenza non paga

E-blogs, il sito che si proponeva di illustrare il meglio dei blog d’Europa, chiude dopo meno di un anno. Il progetto, ambizioso e intelligente, non ha trovato il traino pubblicitario sufficiente. Un sistema di selezione e, soprattutto, traduzione dei post più interessanti della blogosfera ha un costo non indifferente.
E – prendiamone atto – non c’è troppa gente disposta a investire nell’intelligenza o, Dio mi perdoni, nella cultura.
La morte di E-blogs è perfettamente in linea col sistema di premialità dissonante che corrompe l’aria del mondo d’oggi. Si premia il più stupido, il più ignorante, il mediocre telegenico, il più raccomandato, la più tettona… Niente da fare per chi ha qualcosa da dire, senza sponsor né padrino.
Inoltre la mail con la quale si annuncia la morte dell’iniziativa è di un’onestà che le mie righe rischiano di travolgere: non c’è un giudizio, né un’accusa, solo una constatazione (amara) e un civile mea culpa.
Anche nel lasciare la blogosfera, gli amici di E-blogs sono controcorrente. Civili, pacati, intelligenti.
Potevano non finire male?

Prigionieri nella rete?

di Roberto Buscetta
Da qualche tempo mi chiedo che cosa farei, qualora fossi un dittatore, per scansare o domare il dissenso: se censurare la Rete o se, al contrario, lasciarla totalmente senza vincoli né censure. Sono sempre più convinto che praticherei la seconda ipotesi, per tutta una serie di ragioni.

È innegabile che la comunicazione via Web, se libera e a costi bassi, se non addirittura gratuita, funziona in modo sorprendente ed efficace, e raggiunge in tempo reale l’angolo più sperduto della Terra, giungendo contemporaneamente a un numero incredibilmente alto di utenti. È questa la convinzione della stragrande maggioranza di internauti – me compreso -, i quali si compiacciono della potenza e della potenzialità della Rete, inimmaginabili fino a qualche anno fa. Nulla da obiettare a questa rivoluzionaria modalità di comunicare e d’informarsi, che supera qualunque limite o barriera e scavalca le censure palesemente o velatamente imposte dai vari notiziari ufficiali, permettendo, inoltre, un’interattività molto più democratica e vivace.

Ma la rete ha più ombre che luci, e ora provo a segnalarne il perché.

Il Web permette a tutti di accedere a infinite fonti d’informazione, ma nessuno ci garantisce che siano tutte parimenti credibili e all’altezza di ciò che cerchiamo o dell’argomento trattato. Sappiamo, anzi, che non è così, e che è necessaria una matura ed esperta capacità di discernere le notizie, qualità non equamente distribuita nella popolazione, come succede per tante altre cose. Il problema è per ovvie ragioni più minaccioso per le nuove generazioni, non abituate a reperire notizie in modo più tradizionale, e colpisce maggiormente i meno “attrezzati” rispetto ai più dotati e/o istruiti.

Il problema più inquietante, però, almeno per me -ma ne parla anche Lee Siegel nel suo saggio Against The Machine, ne fa cenno Jaron Lanier in You are not a gadget, ma anche Paolo Landi nel suo lucidissimo Impigliati nella Rete, edito da Bompiani nel 2007- è il ruolo che attribuiamo alla comunicazione nel Web, scambiando troppo spesso quest’ultimo per il luogo reale e unico in cui si svolge, tutta, la nostra esistenza. La Rete è gravida di violenza verbale e riesce a far esprimere il peggio di ciascuno di noi, dandoci l’illusione di indirizzare in modo efficace e, se vogliamo, anche anonimo, i contenuti che desideriamo inoltrare in direzione di uno o più interlocutori. Oltre al probabile (o quanto meno ipotetico) inganno derivato da un presunto anonimato, e al decadimento linguistico, stilistico e morale assegnato alla forma dei messaggi veicolati, vale la pena di soffermarsi sull’efficacia di una frustrazione di qualsivoglia natura consegnata alla virtualità del Web. C’è la convinzione di aver trovato il modo e il luogo giusto in cui poter finalmente dire la propria, sfogare il proprio disagio, dichiarare per filo e per segno ciò che si pensa di qualcosa o di qualcuno “senza mandarle a dire”. E tutto ciò stando comodamente seduti a casa propria o nel proprio posto di lavoro. La verità, però, è che il risultato di tanta immissione di energia, a parte una indubbia facilità, almeno in potenza, nel raggiungere contemporaneamente tanti lettori da cui magari anche ricevere un feedback o un segnale di consenso (vedi, per esempio, Facebook o gli altri social network), si spegne nella virtualità, senza nessun obbligo di output verso la vita reale, quella fatta di quotidianità, di carne e ossa, di emozioni comunicate, di sudore e di tantissime altre cose neppure surrogabili nella second life dell’esistenza in Rete. Io sono convinto che un dissenso manifestato apertamente, vis-à-vis, nei confronti di un interlocutore in carne e ossa, sia esso un individuo, una istituzione o un organismo di qualunque natura, richieda sì più coraggio, più responsabilità e più impegno reale, nel senso di volontà e capacità di rischiare ed esporsi di persona, ma che sia l’unica possibilità, ancora oggi in cui il virtuale non ha totalmente soppiantato il reale, per ottenere visibilità e risultati concreti. L’eventuale dittatore che avesse deciso di lasciare totalmente libera la Rete ricaverebbe solo dei vantaggi, o comunque non avrebbe alcun reale fastidio, se tutte le energie rivolte contro di lui si spegnessero dentro uno schermo, incapaci di uscirne sottoforma di dissensi, ovviamente pacifici e  democratici,  ma massicci e visivamente solidali, o di concrete richieste di risposte tangibili a problemi tristemente tutt’altro che virtuali.