Ai loro tempi

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Ormai si sa: il mondo secondo Silvio Berlusconi è veloce. Pare che Silvio dorma poco. Pare che Silvio sia rapido a dire e altrettanto rapido a smentire. Pare che Silvio non tenga in gran conto la memoria. E’ un’Italia giovane, quella di Silvio, in continuo movimento, intrappolata in una perenne adolescenza. E, in quanto tale, paga lo scotto del confronto con i veri anziani, con la saggezza associata alla vecchiaia. Come accade alla “giovane” America, costretta ad aggrapparsi a miti recenti e a costruirne di nuovi in mancanza di una storia e di una cultura millenarie, il “mi ricordo” del berlusconismo  è volutamente ipertrofico, nella sua ricerca spasmodica di un sentimento di nostalgia che non può ingenerare: sia per questioni anagrafiche che di peso specifico. Se non lo si capisce guardando Silvio stesso e i suoi fedeli, basta andare sul banale.
Che spesso, nel mondo di Silvio, nasconde l’essenziale.
Sabato pomeriggio, inciampando in una puntata di Verissimo (un titolo che è già tutto un programma) ho scoperto che cosa è il tempo in Mediaset. La conduttrice, Silvia Toffanin in Piersilvio, alle prese con un giovane comico di Zelig, lo ha presentato mostrando un suo filmato di esordio che “risaliva al 2004”. Ha detto proprio così: “risale”. Quasi che si parlasse di cinquant’anni fa. All’immagine della vecchiaia, una volta, si associava la sapienza. All’antico, il valore. All’esperienza, l’arte. Alla comicità meritevole di essere storicizzata Totò, non “Fluuuoro”, che risale a ieri.
Ma questo succedeva ai nostri tempi. Non ai loro.

Dagli all’untore, guaglio’

 

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

L’influenza suina – cito il viceministro alla salute Ferruccio Fazio così come si è espresso a Porta a porta e come riportato dal Corriere online – “si è sviluppata particolarmente a Napoli perché ci sono situazioni di promiscuità, persone che vivono in una casa con molte altre e a Napoli diverse situazioni sono così, più che al nord. E poi ci sono state condizioni climatiche particolari”.
Insomma, se pensavamo di sapere tutto dei napoletani, ci sbagliavamo. Non sono solo suonano dalla mattina alla sera il mandolino, mangiano pizza ca’ pummarolla ‘ncoppa e sono sempre allegri e ladri. Sono soprattutto promiscui – più che al nord: dati scientifici alla mano? – rappresentano un focolaio di contagio dei più allarmanti e hanno pure il clima di merda.
Parola di uno del governo, natio del cuneese, responsabile dell’unità di crisi per la sorveglianza e la prevenzione del contagio da H1N1.
Non del primo che passa e non sa che dire. Forse.

Stringiamoci a coorte

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Non è colpa mia e respingo fin da ora ogni accusa di volgarità, ma pare che ci sia l’intenzione, dati i recenti fatti di cronaca, di cambiare l’ultima strofa del nostro inno nazionale: “L’Italia chiamò”.
Un uccellino mi ha detto che la “m” verrà sostituita da una “v”.

Il cacciatore di orchi

angeli e orchi

La prima delle dieci storie che compongono il libro richiama la caparbietà, l’ultima l’improvvisazione. Nel mezzo c’è tutta una vita passata a inseguire criminali, a sforzarsi di rimanere uomo tra le bestie, a vergare appunti per fermare i ricordi. Ora quei fogli sono diventate pagine di un libro. Un libro che lui, Nicolò Angileri, poliziotto in servizio a Palermo presso la Sezione specializzata in reati commessi contro i minori , ha scritto con Raffaella Catalano.
Angeli e Orchi
(Dario Flaccovio editore, 178 pagine, 12 euro) è un appassionante resoconto di vite al crocevia, in cui il lieto fine è dettato dal semplice istinto di sopravvivenza e l’orrore è stato depurato dalla morbosità. E’ una testimonianza che è anche atto d’accusa, senza orpelli sanguinolenti.  E’ soprattutto un atto d’amore nei confronti dei bambini e una dichiarazione di guerra alla pedofilia.

Domani alle 18 il libro sarà presentato a Palermo, al Circolo ufficiali, in piazza Sant’Oliva 25. Interverranno: Giacomo Cacciatore, la psicologa Angela Maria Ruvolo, il magistrato Alessia Sinatra e Ficarra &Picone (che hanno firmato la prefazione).

L’uomo che si fece re e pedina

Stasera a Palermo si presenta “Il mago dei soldi”, una docufiction su Giovanni Sucato realizzata dal sottoscritto insieme con Giacomo Cacciatore e Raffaella Catalano e prodotta da “S” e “Novantacento”. L’appuntamento è alle 21,30 a villa Filippina.

di Giacomo Cacciatore, Raffaella Catalano e Gery Palazzotto

Abbiamo scelto di occuparci della vicenda di Giovanni Sucato con lo spirito di chi voleva guardare la Sicilia da un’angolazione inconsueta. Sono i piccoli fatti di cronaca che, a nostro parere, completano il quadro d’insieme di un grande fenomeno criminale come quello di Cosa nostra. Questa non è una storia di leggendarie latitanze e di superboss dalle strategie imperscrutabili. E’, per così dire, una storia dal basso. Non volevamo puntare i riflettori su protagonisti noti perché la storia, spesso, la scrivono anche i comprimari. E perché le situazioni minori sono paradigma di scenari più vasti: ne ripetono i meccanismi, ma offrono uno spunto di interesse in più, perché consentono di far emergere dal passato fenomeni e personaggi dimenticati, che comunque hanno segnato epoche, costumi, economie, vite. Inoltre, la vicenda Sucato rappresenta una parabola davvero singolare: quella di un personaggio atipico, un self made man alla siciliana che da solo si è fatto re e pedina.
Parlare di mafia attraverso il percorso del mago dei soldi significa abbracciare cronaca e sogno, psicosi collettiva e ipnosi mediatica. Significa attraversare tutti gli strati sociali dell’isola, aggiungendo la dimensione che manca allo schematismo con cui spesso si ricostruiscono le guerre tra clan. Significa estrapolare dalla manifestazione macroscopica il dramma privato.
Senza trascurare l’interesse narrativo che la vita e gli affari di Giovanni Sucato offrivano.
Coinvolgere, spremere e trascinare esistenze, in Sicilia, è in genere una prassi dell’organizzazione mafiosa. Raramente è accaduto il contrario, cioè che un singolo uomo – addirittura un ragazzo, in questo caso – abbia coinvolto e trascinato pezzi di Cosa nostra. Seppur pagando il solito, ineluttabile conto.

La Calabria urla Venditti

Antonello Venditti

L’attimino fuggente
di Giacomo Cacciatore

Sono calabrese.  E non mi è mai piaciuto Antonello Venditti.
Trovo che sia un cantautore a cui mancano le qualità della seconda parte del composto, cioè “autore”. Sul “cant-” non mi esprimo (questione di gusti), ma i testi di Venditti  mi sono sempre sembrati goffi, didascalici, in perenne litigio con l’agilità poetica che si presuppone peculiare del cantautorato italiano (penso agli esempi  eccelsi di Dalla e De Gregori). Insomma, la parabola del Venditti-paroliere-pensatore mi è apparsa in declino fin dagli esordi. Per tacere di Rocky, Rambo&Sting: siamo nel campo di “come la barca lascia la scia…”. Peggiori sorprese, secondo me, riserva il Venditti conversatore, quello che dialoga da un palco con pubblico e presentatori tv. Preda di un involontario ermetismo, mi è capitato di sentirlo annaspare in una procella di concetti e anacoluti, alla ricerca disperata di qualche pontificazione robusta che lo levasse d’impaccio.  Ricordo un concerto di Capodanno in diretta su Canale 5 in cui Antonello discettò di non so più quali temi importanti con Cristina Parodi (perplessa persino lei). Non si capì un accidente. Finì in uno sforamento di tempi, attutito da un caritatevole applauso.
La frase infelice, infelicissima, sulla Calabria pronunciata pubblicamente qualche giorno fa (“Perché Dio ha fatto la Calabria?”) mi è sembrata il traguardo dello stato degenerativo dell’artista, protratto nel tempo. Niente di più, niente di meno. E, come tale, pur essendo io calabrese e non amando Venditti, non vi leggo dolo. Solo inconsapevolezza, crisi di cooperazione tra il cervello e la lingua, sospetto di ‘nduja cerebrale. In definitiva, lo scivolone di un cantante (mi piace davvero amputare l’accezione “autore”) che, come si dice al di sotto dell’ombelico di Roma, perde molte, preziose occasioni per starsene zitto.  Perfettamente al passo con i tempi, questo sì.

Luce d’Agosti

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Qualche giorno fa domandavo in giro che ci facesse Lucilla Agosti sul tappeto rosso della Mostra del cinema di Venezia. Nessuno ha saputo spiegarmelo. Ma alla fine ho trovato una risposta convincente. E’ una “maestra di pensiero”.
Tanto da farci scoprire che preoccuparsi di Ville Certose e Palazzi Grazioli è roba da stronzi.

Il Cavaliere, esperto muratore

L’attimino fuggente
di Giacomo Cacciatore

Per un pioniere della tv italiana che se ne va (Mike Bongiorno), un evento della tv italiana che segna una svolta: la resurrezione del giornale Luce, il messaggio urbi et (per) orbi con la cazzuola in mano e lo schiaffo alla sovversiva Raitre.
Certo, sarebbe stato più comodo farla direttamente a reti unificate. Ma per quello ci sarà tempo.

Breaking news

sondaggio skyL’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Il canale satellitare Sky tg24 ha la buona (ma anche un po’ allarmante) abitudine di proporre ai suoi abbonati un sondaggio quotidiano su vari temi scottanti del momento. I risultati in fieri sono immediatamente visibili premendo un tasto. La domanda di oggi era questa: Berlusconi: “invito a non leggere i giornali, inventano le notizie e spargono pessimismo”. Sei d’accordo?
Alle ore 12.29, il 59% dei partecipanti al sondaggio era d’accordo.
In mattinata, Silvio Berlusconi ha precisato – senza tema di smentita – che la buona informazione arriva dalle tv (quindi da lui) che “non cambiano le parole”. Io più che cambiarle, sono rimasto senza.

Un film “de paura”

videocracy
L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Sono stato a vedere Videocracy, il documentario su non-vita, morte e miracoli della “telecrazia” berlusconiana che Rai e Mediaset mi hanno fatto il favore di ignorare (c’è chi ha usato un altro termine: censurare. Niente trailer e poco più che qualche notiziola sfrecciante sulla proiezione dell’opera a Venezia). Dico “favore” perché io sono come i bambini: più cerchi di nascondermi le cose – e più sono “certi” personaggi, a nascondermele – più corro a curiosare. Tra l’altro, mi vanto di aver sempre pensato (dai tempi spensierati di Drive-in) che i danni culturali inferti dalla Berlusconeide al nostro paese non siano secondi a quelli istituzionali. Mi dico: una serata al cinema che fa per me.  Così, eccomi alla prima della pellicola di Erik Gandini, italiano naturalizzato svedese. Tralascio le notazioni di colore (atmosfera divertente, pubblico ciarliero, quattro gatti in sala. Molti in sandali e calzoni rossi. Qualcuno persino scalzo: esiste anche il trucco e parrucco di cripto-sinistra, ahimé). Primi fotogrammi, e penso: Gandini ci ha azzeccato. Fotografia livida, colonna sonora “cardiaca”, tutta battiti, bassi e suggestioni à la Bernard Hermann di Taxi Driver. Insomma, se Videocracy non è proprio un film dell’orrore, ci andiamo vicini. Con punte di splatter nel bagno di Fabrizio Corona che si specchia nudo, a pisello sciolto, dopo la doccia, e nei primi piani di un Lele Mora-zombie, di bianco vestito ma con l’anima di un Darth Vader (non vi levo la sorpresa di scoprire che cosa suona nel suo blackberry).
Dilemma: c’era altro modo per raccontare quello che è andato storto nelle teste (e negli occhi e nelle anime) di moltissimi italiani negli ultimi vent’anni di storia? Secondo me no. Scena da ricordare: quella finale, del gruppo laocoontico di aspiranti veline che balla al ralenty su un palchetto arrangiato in un centro commerciale. Musica che non va d’accordo con i loro sorrisi e le loro contorsioni, montaggio in parallelo con Silvio e la sua truppa che marcia in grande spolvero tra due ali di folla. L’effetto è raggelante. Una notazione negativa (ma indipendente dalle qualità del regista): ho l’impressione che qualunque film sul fenomeno Berlusconi sia già vecchio prima ancora di essere proiettato, tanto la cronaca sopravanza la riflessione, la possibilità di storicizzare in modo efficace.
D’altronde, è una regola dello spettacolo anche questa: un colpo di scena al giorno leva la consapevolezza di torno.