Il green pass e l’acqua alla gola

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’è qualcosa di allarmante nell’appello firmato dai docenti universitari di Palermo contro il green pass obbligatorio all’ateneo. Ed è qualcosa che ha a che fare col ruolo formativo, cioè con quella sorta di arte che un professore infonde nel suo allievo: il saper imparare nel rispetto degli altri. Il “rispetto” è fondamentale giacché introduce un concetto di reciprocità che gran parte delle enclave culturali estremiste (di ogni tempo e latitudine) hanno calpestato nel nome di un sapere egoistico, univoco.

Insomma fa impressione leggere la disamina strampalata degli effetti scientifici del vaccino anti Covid fatta da un professore di economia. Come se l’università non fosse il luogo della competenza specifica, della sacralità della specializzazione, questi signori brandiscono il concetto di libertà facendone un uso maldestro. Diciamolo chiaramente: non si può esercitare in modo stravagante il diritto al dubbio se si è con l’acqua alla gola. La Sicilia è in una situazione disperata anche per colpa di chi non si è vaccinato. E questo è un fatto incontrovertibile, certificato da chi ne ha titolo: medici ed esperti di virus. Non sociologi, non economisti. A nulla serve il solito refrain che questi signori usano per distinguersi dalla canea dei negazionisti. “Non siamo no vax” è come “ho tanti amici gay”: un modo di travestire da argomentazione colta un’incoerenza di cui, molto probabilmente, non si trova la forza di vergognarsi. Ora è il momento della chiarezza, in vista di nuove probabili tenebre. Accettare il green pass non è segno di sottomissione, ma di civiltà. Il che non vuol dire che si debba abolire il dibattito sul tema, ma che debba parlare solo chi è titolato. I pozzi della ragione sono già a secco, evitiamo gli avvelenatori.

Mezzo servizio, prezzo intero

È un fastidioso inconveniente che mi è capitato soltanto, almeno sinora, in Italia. Quest’anno con maggiore frequenza. Viaggi a Ferragosto – non perché lo hai scelto, ma solo perché le ferie che ti sono consentite quelle sono – e ti imbatti in strutture turistiche che siccome è ferragosto lavorano a mezzo servizio. Con un non insignificante dettaglio: tu paghi il prezzo pieno. Da una settimana mi sto imbattendo in ristoranti, hotel, B&B, bar che in questi giorni riducono drasticamente le prestazioni, ma al contempo lasciano immutato il prezzo. Il che è quantomeno sleale. Mi è capitato di cenare in un ristorante stellato e di trovare un servizio imbarazzante. Tipo: ti portano il primo e ti lasciano senza posate. O tipo: chiedo alla cameriera a che temperatura me lo servono il vino rosso che ho ordinato e lei risponde “mah non saprei, il rosso non si beve freddo…”. O tipo: sparecchiano sgomitando davanti al tuo naso e lanciando le posate causano schizzi di salsa ad alzo zero.
Mi è capitato di soggiornare in un B&B che non costa poco e di non trovare nessuno ad accogliermi perché i proprietari erano in ferie e con loro tutta l’assistenza che serve. Morale: la prima colazione ce l’ha servita un barista volontario con tre fette biscottate a testa! 
O un resort vista lago, bello e raffinato, che decide di azzerare la colazione per un paio di giorni perché… è agosto. Con tutti i clienti dentro. E ti rimanda a un bar che sta due chilometri più sotto: sì, sotto è la parola giusta dato che la struttura sta su una collina e tu sei a piedi con uno zaino di dieci chili piantato sulle spalle.

Insomma, una piccola galleria di orrori evitabili, di sciatterie urticanti. Perché ci sono cose piccole che, a seconda del contesto, urtano più di cose più pesanti. Sono gli errori evitabili, gli strafalcioni superflui, e soprattutto i piccoli gesti sgraziati che ti fanno sentire sottovalutato, stupido senza esserlo (almeno in questo caso).
Se un ristoratore o un albergatore vuole farsi due giorni di ferie, che chiuda. Oppure lo dica chiaramente: lascio aperto perché sono tempi difficili e i soldi servono, però magari vi faccio uno sconto perché il servizio è dimezzato o non al livello della struttura.

Sarebbe un gesto di maturità e soprattutto di rispetto verso il turista che paga. Paga sempre a prezzo pieno.   

Ciabatte e vaccini

L’altro giorno in un raro momento di relax sotto un ombrellone (ebbene sì, ogni tanto anch’io mi trasformo in un pigro ciabattante vista mare) ho sentito due signori discutere di vaccini. Erano alle mie spalle, ascritti alla categoria dei cosiddetti vicini di ombrellone: sui 40-45 anni, mediamente istruiti, mediamente impigriti dal caldo, mediamente appassionati alle vicende covidesche.
Dichiaravano di non capirci più nulla, e qui siamo in un campo abbastanza neutro. Ma poi concordavano sul fatto che nella confusione generale non ci si può schierare in alcun modo. Insomma non erano contro i vaccini, ma manco a favore. A questo punto avrei voluto intervenire per dire che sulla scienza non ci sono equivoci, o le si crede o si emigra su Marte. Per fortuna il libro che avevo tra le mani e la compagnia che rendeva il clima meno aggressivo mi hanno convinto a dedicarmi ad altro.

Però quelli continuavano.

Tutto è cambiato quando i tizi hanno cominciato ad allargare il discorso, in un’evoluzione tipica che parte dalla misteriosa sparizione delle mezze stagioni e finisce al piove governo ladro, passando per la differenza tra caldo/freddo secco e caldo/freddo umido. Dai vaccini, non so come, la discussione è arrivata ai terrapiattisti e uno dei due ha detto:

“Terra rotonda o terra piatta: che ne so io? Non so niente, chi mi dice qual è la verità?”.

Insomma, con la complicità dell’altro allegro bagnante, il tizio ha imboccato la pericolosa “terza via”, cioè in cui tutto è possibile, teoricamente anche che siamo tutti morti e che i vivi sono i morti stessi, tipo “Sesto senso” al lido Miramare.

La “terza via” è l’aspetto più inquietante del ventaglio di scemenze agitato dai no-vax: scemenze, si badi, che basterebbero da sole per autodissolversi un pozzo nero ma che, proprio perché vacanti di ogni minimo contatto con la realtà, sono quasi impossibili da estirpare. Il “che ne so io” è una pericolosa miscela di qualunquismo, egoismo e angustia mentale che supera per drammaticità sociale l’ignoranza del tale che scende in piazza agitando la foto di un ago-che-starebbe-dentro-l’ago-che-inietta-il-vaccino (una cazzata talmente enorme che è impossibile da spiegare, guardate qui). Perché vorrebbe essere deresponsabilizzazione allo stato puro e invece è il via libera alla prima panzana che atterra dal web, un vile omicidio della buona creanza.

Insomma nonostante questo attentato alla mia salute mentale in un momento di abbandono balneare, quando i freni inibitori sono bloccati dalla salsedine, ho resistito alla tentazione di alzarmi e usare le ciabatte in modo poco consono. Una parte della mia autostima mi ha comunicato che si trattava di un successo del sistema di autocontrollo ben oliato dalla mia (santa) psicologa, un’altra mi ha sussurrato di non illudermi e di considerare che invecchiare significa anche imparare a sopportare. Ommm.

Necrofilia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Qualche giorno fa il settimanale Time ha inserito la Sicilia nel World’s Greatest Place 2021, l’ambito elenco dei cento posti più belli del mondo. Alla Regione si suppone che non ne sappiano niente dal momento che nulla trapela dai canali ufficiali. Dubitiamo che sia modestia giacché un riconoscimento del genere, soprattutto di questi tempi, è un insperato appiglio per costruire campagne promozionali, per imbastire strategie o semplicemente per rallegrarsi. No, deve essere qualcosa di più di una distrazione nella casa degli sprechi, nella fabbrica dei debiti, nel tempio della burocrazia menefreghista. Il sospetto è che proprio non gliene freghi niente. In uno stato di avanzata decomposizione dell’amor proprio, questa Regione, questi politici, questi amministratori schivano come la peste i buoni esempi e gli spunti di miglioramento. Perché li costringerebbero a esercitarsi in quella che per loro è la peggiore delle attività: aderire alla realtà.

Altro esempio, ancora più esplicativo: un’azienda palermitana, la Giglio.com, ha esordito in borsa con grande successo. Sono pochissime le realtà di questo genere non solo in Sicilia, ma nel Mezzogiorno. I Giglio vogliono investire ulteriormente a Palermo e fanno della loro mediterraneità un punto di forza del brand. Una delle missioni di una politica illuminata dovrebbe essere imparare a fare da chi sa fare. Ebbene quanti tra amministratori, vertici di categorie, leader di confederazioni varie credete che li abbia contattati per organizzarsi, per sfruttare a tambur battente una vetrina senza precedenti? Praticamente nessuno, a parte un sms del sindaco Orlando e un paio di post su Facebook di circostanza.
A conferma che se un’azienda non è decotta, quelli non si eccitano. La studieranno come necrofilia economica.        

Se la mafia querela per diffamazione

Lui non lo sa, ma con quella filippica grugnita in un palermitano strascicato in cui ammonisce una sua amica dal mandare la figlioletta alla manifestazione per Falcone e Borsellino, sta facendo un pessimo servizio alla sua consorteria criminale. Il mafioso Maurizio Di Fede ribatte a una madre che si giustifica “ma in fondo è solo una cosa scolastica”: “Noi non ci immischiamo coi carabinieri, non ci immischiamo con Falcone e Borsellino”. Persino la donna appare incredula alla grossolana intransigenza del mafioso e ci ride su. Non ci ridono sui quegli stessi carabinieri coi quale Di Fede non si vuole immischiare: che infatti lo arrestano senza batter ciglio e consegnano l’audio delle sue esternazioni al pubblico giudizio. Soprattutto quello dei mafiosi, che sanno bene purtroppo come la sommersione, il basso profilo possa essere utile alla lunga. Quante volte l’antimafia è stata usata dalla mafia per travestirsi, per infiltrarsi? Molte, troppe.
Fabrizio Miccoli a parte, le offese a Falcone fanno parte di un copione trito che tende a rendere macchiette, a inscrivere una strategia criminale in un momento storico senza tempo, come se dalla strage di Ciaculli alla mafia cibernetica fosse un attimo. Ecco perché il sedicente capo che sfoggia il suo potere su una donna che manda ordinariamente la figlia alle attività della scuola è un errore blu nell’ortografia sbilenca di Cosa Nostra. Perché abbassa la soglia del ridicolo, attira la risata nascosta di chi gli sta vicino, rende visibile il disagio mentale di uno che crede ancora che vietare un corteo a una ragazzina sia un buon modo di seminare sani principi criminali. Senza nasconderci – e diciamolo – che molti bambini non sanno un tubo di Falcone e Borsellino: illuminante un’intervista di ieri al Tg3 Regione in cui alla domanda “sai chi era Falcone”, un bambino ha risposto: “Uno famoso…”.
Insomma alla fine forse ci dobbiamo arrendere che, a parte i crimini di cui è accusato, questo Di Fede è pure un diffamatore di Cosa Nostra.
Fossi Messina Denaro lo querelerei.     

Il destino degli uomini-sedia

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Diciamoci la verità, il blitz contro gli assenteisti del Comune ci sorprende poco, dato che da sempre ville e palazzi comunali a Palermo sono popolati da queste creature-sedia spaparanzate al fresco di un albero o nel comodo di un atrio: proliferano solitamente a gruppi, ma anche i solitari fanno la loro figura. Per carità, ci sono alcuni loro colleghi che lavorano ma si tratta perlopiù di eccezioni che servono a mantenere in vita una regola. La cronaca ci dice che per molti di questi signori far finta di combinare qualcosa diventa tedioso: non lavorare stanca. E allora tutti al supermercato, o a casa, o a fare jogging dopo aver timbrato il cartellino. È così che saltano i numeri, che pianificare diventa impossibile, che la macchina si inceppa. Tanto più che quella che ha portato ieri a ventotto misure cautelari è un’inchiesta dell’estate del 2018. Tre anni fa. Tre anni in cui una giustizia lenta (è un’indagine blindata con telecamere nascoste e fatti ben documentati dalla Guardia di Finanza) ha involontariamente spalmato nel tempo gli effetti deleteri di condotte indecenti. Non è ozioso pensare che tempi più brevi nella chiusura del cerchio avrebbero potuto giovare non solo alla comunità, ma agli stessi colleghi onesti di quelli beccati con le mani nel sacco (o nel badge altrui). Infine una curiosità. Tra il personale coinvolto nell’operazione ci sono molti operai della Reset, la società che si occupa di manutenzione e cura del verde. La stessa società che qualche giorno fa ha costretto il Comune a impedire i matrimoni nel pomeriggio a Villa Trabia (e sposarsi lì di giorno significa infilarsi in una fornace) dato che il personale non basta per tirare fuori le sedie necessarie alla cerimonia: una nemesi per le creature-sedia.

Delitto di assistenzialismo

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Il caso dei lavoratori che non si trovano in Sicilia in quest’estate di agognata ripartenza è da manuale. E ci spiega, se mai ne avvertissimo il bisogno, il fallimento di antiche politiche assistenzialiste e di recenti provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Accade che albergatori, ristoratori e manager siano alla disperata ricerca di qualcuno che accetti di lavorare per la stagione estiva. Ma molti disoccupati scelgono di restare tali perché, facendo i calcoli, ritengono più conveniente continuare a campare coi soldi che lo Stato gli elargisce per restare spaparanzati sul divano e integrare con qualche lavoretto in nero. Un caso da manuale, dicevamo, che certifica il fallimento di un provvedimento come il reddito di cittadinanza che era nato come “misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà”, e si è rivelato invece un freno per quel treno che avrebbe dovuto portare migliaia di disoccupati fuori dalle gallerie dell’incertezza. Ora che la frittata è fatta, e nell’attesa che si rivedano i meccanismi del sostegno economico separando in modo netto gli strumenti di lotta alla povertà rispetto ai sostegni al reddito in mancanza di occupazione, qualche bruciacchiatura resta anche nelle mani di alcuni di quegli imprenditori che oggi protestano e che ieri magari erano i primi a incentivare il lavoro in nero. La Sicilia e la sua economia hanno affondato le radici in questa furbizia di rimbalzo, dove la “messa in regola” è ancora vista come la kriptonite da generazioni di disoccupati che vogliono restare tali. E non è ottenere il massimo col minimo sforzo. No, è semplice scelta (in)culturale. È inchino a quell’assistenzialismo che ha finto di allevare il Sud Italia e invece lo ha affamato. Di sapere, di specializzazione, di dignità.

Cannibalismo

Il signor Marino Pietro, consigliere comunale di destra di Mazara del Vallo ha un’idea per superare gli steccati delle ideologie, anche quelli della realtà a dire il vero, ma questo è un dettaglio ininfluente. Lui racconta la Storia così come andrebbe studiata all’università della vita anzì del vicolo, cioè senza perdersi in tediose letture: la Storia è la sua storia. Così come l’ha sentita dire, lui la diffonde, anzi la elargisce dall’alto del suo scranno comunale. Quando deve difendere l’intitolazione di strade intitolate a fascisti e affini nella sua Mazara, non trova nulla di più opportuno che attingere alla somma verità: perché non lo sapete che i comunisti mangiano i bambini? Della serie: smettiamola con queste odiose discriminazioni tra criminali.Nella sua appassionata difesa delle ideologie, Marino Pietro risolve in un paio di minuti un dibattito secolare: i fascisti furono peggio dei comunisti? Ovvio che no, almeno i primi mangiavano pulito. E trova persino un colpevole vivente: il famigerato “Cin Cin Pin” che in Corea “fucila chi sbaglia ad alzare il braccio”.Non c’è nulla da ridere (e so che chiedo molto) perché la tesi di Marino Pietro è più seria di quanto sembri. La nuova Storia non è più imbrigliata nelle idee di chi la racconta, non servono studi e analisi, basta un’idea fissa, anche balzana per passare alla versione moderna della narrazione dei fatti che è “la storiella”. Tutto molto più agile, per menti sveglie (e stomaci blindati). Manco di un clic sul web c’è bisogno poiché nel mondo dell’indomito consigliere mazarese anche quello è un ricettacolo di luoghi comuni (lo infastidisce il fatto che casualmente ci si incontra persino qualche verità). No, lui è avanti rispetto a tutto e tutti, indipendente e libero. Libero anche di promettere con levità: “Quando ci saremo noi vi spazzeremo”. Parola di Marino Pietro, consigliere comunale di destra di Mazara, salvatore dei bambini (che detta così è perfetta per l’intitolazione di una strada).

Palermo è in difficoltà

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Il vecchio gioco non regge più. Il refrain della “città bella nonostante tutto” che attrae turisti e consola i più ottimisti tra i palermitani è solo l’eco lontana di una giustificazione che piaceva, ci piaceva. Palermo “bella nonostante tutto” era bella sin quando quel “nonostante tutto” non è diventato invadente, grottesco. Oggi la città soffre talmente da non opporre quasi più resistenza: e sappiamo bene che dalle nostre parti la rassegnazione è, nel migliore dei casi, una pericolosa forma di difesa, quella che più facilmente cede alle scorciatoie del qualunquismo, alle tentazioni del rimpianto nei confronti di chi non merita rimpianto. Al di là del traffico, dell’immondizia, delle bare senza sepoltura, la vera crisi di Palermo è nella visione di chi la amministra. Una visione novecentesca che procede (quando procede) per compartimenti stagni. Invece no, la città del futuro, come una grande azienda o come un consesso di teste pensanti, deve superare questa logica di guerra tra uffici, di barricate in consiglio comunale che rimandano più a un film dei Monty Phyton che a un dibattito politico o a un suo surrogato. La distanza della politica rispetto alle persone può essere accorciata soltanto se, ad esempio, la politica la smette di usare delibere (che sono atti importanti per la vita di una comunità) come strumento di guerra e capisce che la paralisi amministrativa non è più, come un tempo, uno stratagemma per gestire potere, ma un’offesa alla cittadinanza. Insomma una nuova visione, realistica e lungimirante, deve tener conto dei tempi che non sono più quelli del “nonostante tutto”. Niente più ardite scommesse, servono scelte consapevoli. Niente più politica dei piccoli passi, servono falcate.    

La mafia al tempo dei social

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A Catania il clan degli spacciatori puniva i pusher che sgarravano pestandoli e umiliandoli e poi postava i video su TikTok. A Palermo la sete di vendetta per l’omicidio di Emanuele Burgio, figlio del boss della Vucciria, cresce su Facebook. Sono solo gli ultimi due episodi di una catena infinita di esternazioni e dimostrazioni di forza talmente tracotanti da apparire grotteschi nella loro ingenuità: la violenza esibita urbi et orbi ha un inconveniente non di poco conto, è visibile anche alle forze dell’ordine. Ma non importa. Ciò che conta è mostrarsi, riscuotere la gratificazione istantanea. Esserci nel non-luogo del social network può comportare un allentamento dei freni inibitori e l’abbandono della tradizionale prudenza persino da parte di un sodalizio criminale che proprio sulla prudenza ha costruito un complesso sistema di sicurezza. È vero, la mafia ha sempre cavalcato il clamore di certe sue azioni per intimidire, eliminare il dissenso. Colpirne uno per educarne cento, da Mao alle BR sino a Totò Riina, è stato un metodo che si sostanziava di azioni pubbliche, di ostentazioni violente. Ma lì almeno c’erano una logica ferrea e un filtro verticistico: oggi chiunque abbia un telefonino e un’idea malsana colpisce e “educa” a modo suo.  Perché è cambiata una regola fondamentale che riguarda tutti, criminali e persone perbene: il destino di una teoria, qualunque essa sia, anche la più storta, non è più determinato dalla sua validità, bensì dal contagio che essa riesce a generare. La violenza ostentata in barba alla più elementare forma di prudenza è figlia di quella libertà, anzi “libertà”, vigente nei social che calpesta la norma numero uno della buona creanza: un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto.