Soldi, cazziate, rumori e vesciche

Vacanze alle porte. Soddisfazione per esserci arrivati vivi e speranza di uscirne altrettanto. Prima di partire per l’avventura di cui vi ho accennato sui giornali e altrove e di cui parleremo meglio in questo blog, ho scelto di ripescare alcuni appunti dei mesi scorsi e di rendere pubbliche le lezioni che ne ho tratto.

L’ultima manovra del nostro governo è stata di circa 28 miliardi di euro. Il compenso che l’assemblea degli azionisti di Tesla ha approvato per Elon Musk è stato di 55,8 miliardi di dollari, quasi il doppio. Il vero motivo di preoccupazione non è nella cifra, ma nei comportamenti che ne derivano: più un manager è strapagato, più prenderà decisioni legate alla sua remunerazione, con conseguente epidemia di insoddisfazione nei dipendenti. Un tempo c’era il mito che comandare è meglio che fottere, oggi siamo al comandare fottendo.

Ho letto un bell’articolo di Alex Ross sul New Yorker a proposito del rumore e mi sono segnato una frase: “Se decidiamo di ascoltare qualcosa, allora non è rumore anche se molti lo trovano orribile. Se siamo costretti ad ascoltare qualcosa, allora è rumore, anche se molti lo trovano magnifico”. Insomma, musica è il nome che diamo al rumore che ci piace. Se ci pensate questo principio sana mille chiacchiere inutili sui brontosauri del rock, su Taylor Swift, sulla musica house e persino su Gigi D’Alessio.

Il mio Doc (disturbo ossessivo compulsivo) di cui vi ho parlato varie volte, tipo qui, si è molto affievolito negli anni. Lo scorso inverno sono riuscito a lasciare una tazzina di caffè sporca nel lavandino addirittura per due giorni. E non fa niente se me la sono dimenticata prima di partire per un weekend. Il risultato è quello che conta. Prossimo obiettivo, accendere le luci di casa in ordine sparso.

È difficile dire che l’arte ha sempre il sopravvento sulle miserie umane. Spesso è fatta da lestofanti che ottengono risultati meravigliosi, mentre tante anime candide seppur volenterose non cavano un ragno dal buco. Vi ho consigliato questo libro che impara a distinguere le biografie degli artisti dalle loro opere. Ecco, prima di lanciarvi sempre negli stessi esempi quando si parla di queste cose – Caravaggio, Polansky, Nabokov – fatevi qualche lettura in più: l’esercizio della critica comporta innanzitutto la responsabilità della conoscenza. Lo ripeto a me stesso, prima ancora che a chiunque altro.

Le guerre, i conflitti regionali, la polarizzazione dell’odio ci costringono a guardare le cose in modo nuovo. E la socialità spinta dei nuovi media ci impone di dire sempre e comunque qualcosa. La lezione che ne ho tratto è che dobbiamo imparare a domare la falsa universalità che mette aggressori e vittime sullo stesso piano. Che sia Russia, Ucraina, Israele o Palestina accettare un principio di responsabilità equo significa per una volta ammettere che non siamo tutti uguali quando uno ha un mitra e l’altro le mani alzate.

“La durata di un film dovrebbe essere commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana”. La paternità della frase è ancora oggi discussa, c’è chi dice Alfred Hitchcock e chi dice che il maestro stesse a sua volta citando il drammaturgo George Bernard Shaw. Chiunque l’abbia pronunciata ha svelato l’unico confine valido dinanzi alle sconsiderate pulsioni creative di chi fa il mio mestiere. Lo confesso, nei mesi scorsi ho fatto un training intensivo su questa frase. Con tanto di prove di resistenza. Ma proprio fisica, eh.

Una volta, in un giornale in cui lavoravo, avevo un vice bravo ma severo. Un giorno mi accorsi che stava facendo una cazziata molto dura a un corrispondente. Quando lui finì, lo chiamai a solo e gli chiesi: sai quanto lo paghiamo a pezzo quel collaboratore? Lui si andò a informare e tornò. Non da me, ma da lui. Lo chiamò e lo sentii scusarsi.

A questo ho pensato in questi ultimi mesi. Non so quanto, ma se anche una sola di queste parole potesse servire per prevenire una minchiata o arginare un dolore, mi sentirei meno inutile del solito.

La spesa gratis

Da (molti) anni c’è una tendenza molto social e molto trasversale a demolire i giornalisti e a ridicolizzare il loro lavoro. Chiunque, ma proprio chiunque, si sente legittimato a giudicare in pubblico una nostra scelta di argomento o una trattazione o un’opinione in modo preventivo. Mi è accaduto spesso quando nel passato annunciavo su Facebook un commento su “la Repubblica” del giorno dopo, di essere assalito da commenti molto aggressivi basati su un articolo che ancora nessuno, a parte me e il caporedattore o un collega incaricato, aveva letto.
Questo fenomeno va inquadrato in una più generale degenerazione del senso di allerta dinanzi all’attendibilità di una notizia. Che non è una cosa da addetti ai lavori, ma al contrario una sorta di diritto-dovere del lettore. Cioè chi legge non può sentirsi deresponsabilizzato su ciò che sceglie: se io leggo il Mein Kampf devo sapere chi lo ha scritto, quando e cosa ne è derivato. Così se mi documento sui canali social di Flavia Vento o di Red Ronnie devo sapere dinanzi a quale desco mi sto accomodando.
Detta in modo diverso, l’ignoranza del lettore ha dei limiti di colpevolezza sempre più ampi. Come quelli di chi per curare una malattia si rivolge al santone peruviano (mi perdonino i peruviani non santoni truffatori) o di chi compra i funghi dal raccoglitore improvvisato o di chi ancora chiede arte a chi non ha idee ma padrini.
Una delle obiezioni più frequenti quando per leggere una notizia online si deve pagare è: devo risparmiare (non vi dico quante persone mi scrivono privatamente per avere il pdf di questo o quell’articolo). Una delle obiezioni più frequenti a chi muove queste obiezioni più frequenti dovrebbe essere: quanti abbonamenti tv hai? Hai mai pensato di fare la spesa gratis? Il tuo smartphone di ultima generazione te lo hanno regalato?

La verità è che restare informati e coltivare un minimo di conoscenza costa. Costa in termini di attenzione da dedicare al lavoro altrui. Costa per l’umiltà di ammettere che “l’università della vita” non salva la vita. Costa perché ponderare è un’attività molto scomoda che richiede impegno. Costa perché nuotare contro il mainstream (e oggi sappiamo che il mainstream non abita più nei giornali) è faticoso. Insomma il risparmio economico è solo una scusa pigra, dagli effetti collaterali devastanti.

Segnatevelo per quando sarete inginocchiati davanti al mahatma Elon Musk e quando per cercare un’opposizione semiclandestina dovrete aggrapparvi alla giacca di Mark Zuckerberg: un mondo meno informato o peggio informato a cazzo di cane è un mondo che si consegna alla dittatura dell’ignoranza. Chi legge i giornali sa che i veri oligarchi, i giornali o se li comprano o li radono al suolo. E voi non leggendo rischiate di essere, nel migliore dei casi, servi sciocchi. Sciocchi e colpevoli.