Quella cosa là

Sono sempre stato contrario alle generalizzazioni. Anche quando sono adottate per pudore o per timidezza. Senza nasconderci che tendiamo a generalizzare perlopiù quando abbiamo torto.
D’altro canto detesto l’ossessiva dovizia di particolari soprattutto nei momenti di difficoltà o quando si gioca di rimessa. Non a caso faccio parte di quella schiera di esseri viventi (come gli elefanti e i vecchi capi indiani) che si ritirano in solitudine se intravedono in se stessi un bug o un difetto che può figliarne altri.
È per questo che mi sono deciso a parlare, qui e in pubblico, del nostro vero punto debole, per alcuni lato oscuro per altri catalizzatore di rivincite. Che sana le generalizzazioni e il loro contrario, nella sua indefinitezza conclamata.

Quella cosa là.

Tutti noi abbiamo o abbiamo avuto quella cosa là.
Un male improvviso, un disastro sussurato, un inciampo nascosto.
Prima o poi capita a tutti per contrappasso alle famose cinque parole più pericolose dell’universo.

Quella cosa là è un difetto che avete paura a nominare o una mina antiuomo che avete scoperto nel vostro giardinetto e non siete riusciti a disinnescare subito.
È l’alibi che vi siete inventati bluffando o la malattia (anche non grave) che avete creduto invano di avere, salvo poi incontrarla davvero.
È l’incubo che accarezzate come scusa per sottrarvi a una responsabilità o il nemico che finalmente avete sconfitto.
È la cartina di tornasole di tante false amicizie e la collana in cui inanellare nuovi affetti.
È lo specchio di Grimilde o il ritratto di Dorian Gray.

Negli ultimi mesi ho avuto quella cosa là tutta mia. Non l’avevo riconosciuta, scambiandola per una normale cosa, ma non per quella cosa.
Me ne sono accorto quando ne sono uscito, a fatica lo ammetto (uscirne e accorgersene). Perché la nostra visione delle cose patisce il recentismo e non ci consente di avere le idee chiare sin quando la polvere non cala o la nebbia non si dirada. Come andare in montagna: non basta arrivare in cima per godere del panorama, ci vuole una condizione in più, che sia climatica o psicologica sarà il caso a stabilirlo. È un bene parlarne, credetemi. Perché a tacerne – e io sono un campione mondiale di “risoluzione di cazzi propri per i cazzi propri” – si fa il gioco del nemico. Che non è quella cosa là., ma ciò che vi rivela.
La caducità di certi rapporti (caducità fa molto tema di maturità), la forza compressa nelle congiunture mentali, il vento seminato con conseguente tempesta di feedback non proprio positivi. La bellezza che fatica a farsi strada nella sofferenza e la risata che deve fottere una scossa di dolore.

È così che quella cosa là che tante rotture di coglioni vi ha provocato, vi regala a giochi fatti (se ovviamente siete sopravvissuti) una serie di nuove consapevolezze.
Tipo.
Quando siete davanti a una persona che giudicate perfetta pensate che, in fondo, è il buco che fa la ciambella.
Tipo.
Esistono autogol che, in termini di libertà, valgono meglio di una doppietta in porta avversaria.
Tipo.
Nessuno ti vuole quando perdi.
Tipo.
Lottare e magari essere sconfitti può essere una cosa bella: uno dei più grandi insegnamenti di quel gigante di Marco Pannella.

Il virus, il braciere e l’amnesia

C’è una notizia oggi sulla quale mi sono fermato a riflettere. Mi sono fermato proprio, anche fisicamente. Quella notizia mi ha portato bruscamente alla distinzione tra speranza e ottimismo. Per la quale devo ricorrere a un fulminante ragionamento di Rebecca Solnit che, presentando la raccolta di saggi “Not too late” dedicata all’emergenza climatica, scrive:

“La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio. Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita. Significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione. Significa affrontare le difficoltà e accettare l’incertezza. Sperare significa riconoscere che si può proteggere qualcosa di ciò che si ama anche se si soffre per ciò che non si può proteggere, e sapere che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni. Sperare significa accettare la disperazione come emozione ma non come analisi. Riconoscere che ciò che è improbabile è possibile, così come ciò che è probabile non è inevitabile. Capire che difficile non equivale a impossibile”.

La notizia che mi ha fermato ma che al contempo mi costretto a muovermi sulla scia di pensieri affollati, di recenti fatiche, di dolori inconsolabili, di piccole vittorie e di insopportabili sconfitte, è questa:

L’organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine dell’emergenza Covid.

Ecco, ora rileggetevi le parole di Solnit e cercate di capire a quanta speranza e a quanto ottimismo ci siamo aggrappati in questi anni maledetti, anni che ci hanno cambiati per sempre.
Fatelo perché è da selvaggi buttarsi a volo d’angelo nel braciere dell’amnesia.  

Era febbraio

Qualche mese fa scrissi qui una riflessione sui miei novembri (che, con mia sorpresa, piacque abbastanza). In generale piacere mi fa piacere – che piacere sarebbe non piacere? – ma quando il gradimento è granitico allora mi suona un campanello. Accade poche volte da queste parti. Anzi in tempi recenti sono stato indotto a rimpiangere la brodaglia di un consenso uniforme e spesso poco motivato: infatti la virulenza di certi metodi di dissenso mi ha costretto a usare la clava dialettica o, metodo meno entusiasmante, a ricorrere all’avvocato.
Resto un fan del dibattito acceso, un nemico giurato dell’imparzialità, che è quella cosa che si tira in ballo quando non si hanno argomenti per sostenere una tesi o non si ha voglia di combattere per un’idea. C’è una bellissima frase, di cui parlammo qui, che può essere incorniciata, soprattutto in questi periodi in cui le truppe dell’ignoranza organizzata fanno caciara attorno ai monumenti della ragione: giornali, libri, teatri, luoghi di arte, lo stesso web.
La frase è questa: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
Insomma questo post è un mirabile, anzi “mirabile”, esempio di preambolo più lungo della tesi centrale: praticamente mi sono preso la licenza di parlare incidentalmente di giornalismo e di far un pessimo uso dei ferri del mestiere.

Eravamo ai miei novembri.
Ora siamo ai nostri febbrai. Agli ultimi tre almeno: quello dell’esplosione della pandemia, quello della resistenza e della reclusione, quello della guerra.
Nel disastro collettivo come nei drammi personali, abbiamo imparato che l’unica cosa da fare nelle difficoltà è rimboccarsi le maniche: tanto, anche se arriva il peggio, almeno ti coglie cazzuto e in piena attività, e non svaccato e rincoglionito dal far nulla (che è dolce solo nelle favole). Abbiamo anche sperimentato il potere mefitico dell’illusione a caldo, il famoso “ne usciremo migliori”. E ci siamo persino esercitati nel sempre utile esercizio della speranza, che prima intendevamo come una cosa a metà tra la lettura dei fondi di caffè e l’aspettativa di un miracolo e che oggi, più prosaicamente, raffiguriamo come uno zaino da metterci sulle spalle.
La speranza pesa, va condotta. Costa, in termini di fatica. Non cade dal cielo, la speranza si conquista facendo.
I miei febbrai mi hanno dato questa lezione, dura e non ancora assimilata in pieno.
Saper sperare è avere piena coscienza che un’alba passa sempre attraverso una notte.     

Errori, che palle

Ora che siamo pronti a ricominciare dovremmo, secondo me, ricordarci alcune cose prima di mandare affanculo tutti gli insegnamenti che questa brutta storia del Covid ci ha lasciato.
1) Non è vero che si stava meglio quando si stava peggio: quando si sta peggio ci vuole poco a sentirsi meglio e non c’è vergogna a spogliarsi delle solite, trite, visioni nostalgiche del mondo e delle sue inezie.
2) Se qualcuno ci ha aiutato – noi o la nostra famiglia o la nostra azienda – va ringraziato e premiato anche dopo che la sua opera è finita. Siamo sempre prodighi di affettuosità e riconoscenza posticce quando siamo con le pezze al culo, la vera prova è esserlo quando ci siamo liberati di problemi e fardelli (su questo ho una casistica pubblica e privata impressionante).
3) La gratitudine è il miglior modo di svegliarsi la mattina. Caffè, cornetto, gratitudine… (questa è appendice del punto 2, ci tenevo a sottolineare e ribadire, non mi sono rincoglionito tranquilli).
4) La storia di pensare positivo va bene per i seminaristi e per Jovanotti. Noi comuni mortali pensiamo molto negativo ed è giusto farlo, per darsi una propulsione: l’importante è farlo in modo propositivo, per evitare brutti ceffi o strade sbagliate, magari. Pensar male non è affatto peccato e farlo con buon senso accende i sensi.
5) Una colonna sonora adeguata salva la vita. In solitudine come in compagnia. L’importante è non lasciarsela imporre, ma sceglierla ogni giorno ascoltando i suggerimenti e brandendo sempre quel minimo di indipendenza che ti consentirà, l’indomani, di goderti un eventuale errore tuo e solo tuo. Condividere gli errori è una palla mortale.