L’era del Trota

Un sindaco di una sperduta cittadina di una landa che non esiste e che qualcuno si ostina a chiamare Padania (la Neverland dei più ignoranti tra i nordisti) ha riempito una scuola di simboli leghisti. Il che equivale a mettere le mutande di Valeria Marini sugli scaffali della biblioteca comunale o a esporre un ciuffo di peli di Antonio Zequila al museo civico: una solenne cazzata, senza possibilità di discussione.
Se vivessimo in un paese coi normali sistemi di vigilanza del buon senso funzionanti, quel sindaco sarebbe stato rimosso (o meglio internato) ad opera dei suoi stessi compagni di partito. Persino Craxi mandò a quel paese Fabrizio Cicchitto quando lo scovò nelle liste della P2, a conferma che il potere è cieco solo quando vuole chiudere gli occhi.
Oggi invece il destino di una nazione è deciso da un manipolo di deputati che vestono di verde anche nell’intimità, scambiano l’acqua limacciosa di un fiume per acqua benedetta (e se la bevono pure), parlano una lingua che confina più con l’analfabetismo che con un qualsiasi dialetto, idolatrano un tale che abbaia trisillabi senza concetto.
Sapete perché quel sindaco non lo rimuove nessuno? Perché ogni meccanismo di ribellione e di autocontrollo democratico prevede un livello minimo di cultura. E noi, che un tempo rimpiangevamo l’era del Cinghiale bianco, siamo appena entrati nell’era della Trota.
Anzi, come ignoranza impone, del Trota.

Fan, Fini, fine

L'home page del sito del Fini fans club di un anno fa

Esattamente un anno fa registravo che il Gianfranco Fini fan club mugugnava per le aperture del presidente della Camera sugli immigrati e per le prese di posizione nei confronti di Bossi e di Berlusconi.
Oggi molte cose sono cambiate – o, come scrisse un celebre cronista siciliano, molta acqua è passata sopra i ponti (e certo, con certe alluvioni…) –  però abbiamo due certezze: primo, Fini ha portato all’estremo il suo dissenso da B&B; secondo, quel fan club non esiste più.

P.S.
Se internet ha un vantaggio è quello di favorire una memoria collettiva. Approfittiamone.

Il Tg1, Bossi, il ponte sullo Stretto

Ogni sera, nel torpore agostano di un Tg1 che in quel torpore sguazza felice e realizzato, c’è un servizio su Bossi che biascica dittonghi senza esito e parla di un’entità geografica che non esiste, la Padania. Eppure, lui che è ministro per il Federalismo dovrebbe stare attento a rimanere all’interno dei confini del geograficamente plausibile.
Poi ieri sera è andato in onda un servizio dal titolo: “Ponte sullo stretto, un’opera che divide” (lo trovate qui, al minuto 25,39, dopo una gaffe tecnica che mostra una demolizione militare al posto della costruenda opera). L’ho visto con curiosità. L’ho anche rivisto su internet, per essere certo di aver capito bene.
Un’opera che divide? Nel servizio, a parte due frame, non c’è voce discordante rispetto al progetto del governo: un altro errore da matita blu per Augusto Minzolini, soprattutto tenendo conto del titolo fuorviante. Eppure, lui che è direttore del Tg1 dovrebbe stare attento a rimanere all’interno dei confini del giornalisticamente corretto.
A proposito di confini. Tra Bossi che invoca la supremazia della Padania e Berlusconi che vuole gettare ponti verso le propaggini dell’impero, io sono a favore del primo. Si dia ai padani quel che è dei padani. Ma si lasci agli isolani – che vivono da sempre di mare a nord, sud, est e ovest – la possibilità di essere lontani, difficili, isolati.
Quanto al ponte, non mi stanco di citare il meraviglioso articolo di Gesualdo Bufalino su la Repubblica del 19 settembre 1985. Che così si concludeva:

Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.

Effetto sorpresina

Atteso come l’acuto finale all’opera, è arrivato l’anatema di Berlusconi sui casini combinati dai suoi accoliti: c’è una congiura dei pm. Che è come incolpare l’albero, col cui legno è stata costruita la croce, della morte di Gesù Cristo.
A poco valgono i distinguo di Bossi e Fini, un duo ormai accomunato solo dal nome di una triste legge sull’immigrazione.
Il premier deve gorgheggiare come il suo pubblico si aspetta, incurante della profonda differenza tra il canto e la polemica, tra l’arte e la politica. Del resto, a parte che nel calcio, l’effetto sorpresa affascina solo chi ha il culto del bello. E con Berlusconi siamo fuori tema.

Una colletta per Renzo Bossi

La dichiarazione risolutiva è affidata a un lapidario take di agenzia (che riprende un’intervista a Vanity Fair): “Ai mondiali di calcio non tiferò per l’Italia”.
Il cervello (o il suo surrogato) che ha partorito la dichiarazione è quello di Renzo Bossi, figlio di Umberto, celebre (a parte che, incolpevolmente, per l’illustre genitore) per essere stato bocciato tre volte alla maturità, per aver diffuso un videogame in cui si divertiva ad affogare immigrati, per essere stato nominato consigliere di un organismo legato all’Expo 2015 di Milano per il quale ha beccato uno stipendio di dodicimila euro al mese, e per essere stato appena eletto consigliere regionale della Lega in Lombardia.
Voglio essere risoluto: uno con un curriculum del genere dovrebbe essere intervistato ogni giorno dai giornali.
Una sola domanda, a percussione: “Quanto vuole per andarsene?”.
Siccome Bossi junior pesa sulle tasche dei contribuenti (anche di quelli che non lo hanno eletto e che hanno a cuore il concetto desueto di qualità), sarebbe più conveniente e utile per tutti privarsi di un bipede similpensante e dargli la possibilità di dichiarare nel sotto vuoto spinto di un buen ritiro.
“Ai Mondiali non tiferò per l’Italia” dichiarato a un giornalista della cronaca locale del Santo Domingo News sarebbe consolante con un oceano nel mezzo, qualche fuso orario a fare da camera di decompressione e, soprattutto, con la certezza di rimanere a distanza di sicurezza (anche le cazzate hanno una gittata limitata).
Non so voi, ma sul mio sistema nervoso l’ignoranza colpevole genera pensieri urenti.
I primi dieci euro ce li metto io.

Amarcord

Via Vincenzo Caico FF

Una destra un po’ sinistra

fini

L’apertura sui diritti degli immigrati, lo scontro con Bossi, le sferzate a Berlusconi: Gianfranco Fini delude i destristi più tetri. Ecco come appariva ieri l’home page del sito ufficiale del suo fan club.
Rallegrarsi della delusione altrui è poco sportivo, ma in certi casi è salutare e, chissà, benaugurante.

Il delfino padano

corsera

Secondo Umberto Bossi, il caso escort è una polpetta avvelenata preparata dalla mafia per Silvio Berlusconi.
Il nemico numero uno dei disonesti, il campione della legalità, il simbolo della virtù in terra, il modello sempiterno di saggezza sarebbe – secondo Bossi – inviso alla parte più odiosa dell’odiosa criminalità italiana, europea e forse mondiale.
Quel che stupisce del delfino padano (perdonatemi l’involontario ossimoro naturalistico) è la perentorietà di ragionamento: non è vero che le vere stanze del potere sono, purtroppo spesso, le stanze da letto; è vero che se il potente sbaglia, è vittima di un vergognoso tranello, di una congiura criminale.
A seguire il suo filo logico si arriverà a incolpare la S.P.E.C.T.R.E per le polluzioni notturne del premier e Ernst Stavro Blofeld per attentato alla verginità nazionale. James Bond diventerà un personaggio interessante nell’attuale panorama politico italiano. Non per il suo coraggio, ma per il suo corredo di femmine, riserva preziosa per un eventuale rimpasto di governo.
Insomma, un’enormità appresso all’altra. Almeno fino a quando Umberto Bossi non sarà ricondotto al ruolo che merita: da leader della Lega a leader da legare.

Pensiamo al futuro

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

La questione è quella, ricorrente e inutile come l’appello all’unità dei cattolici, del dialetto nelle scuole. Ne abbiamo parlato ieri e voglio aggiungere un paio di considerazioni.
Detta brutalmente, a me del siciliano insegnato in una scuola media di Partinico o del piemontese insegnato in una scuola di Chivasso non me frega niente. Perché ho 46 anni, vivo nel 2009, lavoro in un’epoca in cui ti becchi un licenziamento come se fosse un raffreddore, voglio leggere quanta più roba possibile, e soprattutto non mi piace perdere tempo in discussioni inutili.
Le tradizioni sono meravigliose quando c’è l’occasione di ammirarle, valorizzarle, coltivarle. Quando i tempi sono difficili e le connessioni necessarie per campare sono complicate, le tradizioni possono tornare serenamente sugli scaffali. Anche perché ogni progetto pubblico ad esse collegato costa un botto di denari.
Rastrellando le idee utili ci si può accorgere che, oggi come oggi, non è più la storia l’unica chiave di lettura del presente. Il galoppo dell’innovazione ha cambiato i parametri dell’apprendimento. Per capire quel che accade in questo preciso momento bisogna guardare avanti: è finita l’epoca in cui ci si faceva strada col passato. E’, se vogliamo, una delle controindicazioni della globalizzazione: se si è tutti virtualmente più vicini, si è tutti meno diversi, si ha la necessità di parlare lingue comuni e non tutte fatte di parole.
Il futuro non c’entra nulla con ciuri ciuri o funiculì funiculà. Il futuro, e soprattutto il destino lavorativo, parlano le lingue più diffuse del pianeta: l’inglese, l’arabo, il cinese, il francese, lo spagnolo. Non il trentino, non il sardo, non il lombardo, non il siciliano.
Bossi e gli altri geni della politica dovrebbero capire che in un paese moderno non è possibile che un cittadino italiano laureato conosca meno lingue di un qualunque straniero immigrato (clandestino e non). A scuola, sin dalla prima elementare, bisognerebbe insegnare la lingua italiana – che è una sola e meravigliosa – e almeno una lingua straniera. Senza altri bla bla e, scusate, senza ulteriori cazzate.

Ma sui dialetti la Lega non ha torto

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

di Roberto Puglisi

Se uno toglie il superfluo, il polemico, l’inutile, magari riconoscerà che l’idea leghista di insegnare il dialetto a scuola tanto malvagia non è. E non lo è perché l’identità regionale non deve essere per forza una pistola puntata contro l’unità nazionale. Capisco l’obiezione diabolica, ciò che dicono i vari Bossi e Calderoli si fa fatica a considerarlo un semplice contributo al dibattito accademico, fornito con sincero spirito di collaborazione. E questo perché è sempre meglio non fidarsi degli zecchini d’oro promessi dal gatto e dalla volpe. Ma se la cittadinanza è un elemento di civiltà sovranazionale, perché ognuno può diventare cittadino del mondo o di un luogo senza per forza l’obbligo della culla, l’appartenenza alla terra si iscrive a visceri e sentimenti diversi. Possiamo negarlo finché si vuole, il legame. Esiste comunque. E a far parte di una Nazione – senza che questo implichi per forza parate militari o discorsi al balcone – si impara da piccoli, mangiandone e bevendo i frutti della terra. Che insegnano la peculiarità di ogni discendenza (il dialetto) in un disegno (lingua) più grande. E’ un passaggio obbligato. Non possiamo dirci italiani, se non impariamo a dirci siciliani. Se non consideriamo che il locale e il generale non devono sfinirsi e  lottare per sempre, se di mezzo c’è il filtro dell’intelligenza. Perfino il Carroccio e la Coppola, il “Minga” e il “Cu è” possono andare a braccetto, fino ad amalgamarsi – senza sperdersi – nello stesso riflesso unitario.