Ma sui dialetti la Lega non ha torto

L'illustrazione è di Gianni Allegra
L'illustrazione è di Gianni Allegra

di Roberto Puglisi

Se uno toglie il superfluo, il polemico, l’inutile, magari riconoscerà che l’idea leghista di insegnare il dialetto a scuola tanto malvagia non è. E non lo è perché l’identità regionale non deve essere per forza una pistola puntata contro l’unità nazionale. Capisco l’obiezione diabolica, ciò che dicono i vari Bossi e Calderoli si fa fatica a considerarlo un semplice contributo al dibattito accademico, fornito con sincero spirito di collaborazione. E questo perché è sempre meglio non fidarsi degli zecchini d’oro promessi dal gatto e dalla volpe. Ma se la cittadinanza è un elemento di civiltà sovranazionale, perché ognuno può diventare cittadino del mondo o di un luogo senza per forza l’obbligo della culla, l’appartenenza alla terra si iscrive a visceri e sentimenti diversi. Possiamo negarlo finché si vuole, il legame. Esiste comunque. E a far parte di una Nazione – senza che questo implichi per forza parate militari o discorsi al balcone – si impara da piccoli, mangiandone e bevendo i frutti della terra. Che insegnano la peculiarità di ogni discendenza (il dialetto) in un disegno (lingua) più grande. E’ un passaggio obbligato. Non possiamo dirci italiani, se non impariamo a dirci siciliani. Se non consideriamo che il locale e il generale non devono sfinirsi e  lottare per sempre, se di mezzo c’è il filtro dell’intelligenza. Perfino il Carroccio e la Coppola, il “Minga” e il “Cu è” possono andare a braccetto, fino ad amalgamarsi – senza sperdersi – nello stesso riflesso unitario.