In difesa della parolaccia in politica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Gianfranco Miccichè nella sua scoppiettante gestione delle antipatie ha riportato sulle pagine dei giornali un’antica pratica della politica, quella del turpiloquio. Già vent’anni fa Umberto Eco, in una sua celebre “Bustina di Minerva” aveva rivendicato “il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno”. Guarda caso, la stessa parolaccia usata dal presidente dell’Ars contro il suo bersaglio preferito, il ministro dell’Interno Salvini. Oggi molto è cambiato, soprattutto nella gestione dei messaggi pubblici. I social network hanno tracciato la nuova via: non importa cosa dici, ma come lo dici; non serve il concetto, ma la confezione giusta.

La prudenza di un tempo, quando il turpiloquio usato con acume poteva regalare effetti esilaranti con risultati efficaci, è stata sepolta sotto l’esigenza di colpire e affondare il prima possibile. Nell’èra della rabbia cieca la parolaccia è un mezzo arcaico per farsi largo nelle sabbie mobili della ragion perduta. È per questo che, se ci si muove senza i paraocchi del neo-bigottismo, il turpiloquio può essere visto come una sorta di antidoto contro il nullismo della menzogna, contro il mondo parallelo degli imbroglioni tutti clic e claque.

Lo “stronzo” al nemico politico non è certo un esempio di eleganza, ma ci costringe ad ammettere che c’è volgarità e volgarità. Negli ultimi dieci anni le nostre capacità espressive, il potere combinatorio della sintassi, il fascino della metafora, la carica creativa e non violenta della nostra aggressività sono state piallate da una nuova forma di linguaggio che punta a verità bastarde. Internet è il luogo dove non ci sono livelli, ma un amalgama che avvolge e corrompe senza apparente possibilità di scampo. La volgarità di una battuta analogica – cioè pronunciata da un essere senziente e consapevole, non da un bot o dal fake di qualcuno –  ha almeno il vantaggio di suonare come uno schiocco di dita davanti agli incantatori del web. Poiché in un onesto rapporto causa-effetto mette di fronte i contendenti tarandone la sensibilità, l’aderenza alla realtà. Ecco la differenza tra tipi di volgarità. C’è quella che impatta e quella che si traveste e si insinua. La prima era celebrata da Churchill senza troppe metafore: “Chi parla male di me alle mie spalle viene contemplato dal mio culo”. La seconda è un allarme sociale poiché ha a che fare col culto della menzogna. E lì non basta il più sonoro dei vaffanculo. 

Oscenità in prima serata

di Daniela Groppuso

Credevo di aver visto cose che voi umani… Mi sbagliavo. Ieri sera Barbara D’Urso (e i suoi autori) sono riusciti a farmi indignare. Ancora una volta.
A parte le interviste inutili a un annoiato Checco Zalone e ad Anna Falchi (il cui patetico obiettivo era quello di riabilitarsi dopo le ultime paparazzate che le avevano fatto perdere qualche punto con il “suo” pubblico), ho assistito a un fuoco di fila di oscenità.
Protagonista assoluto: Aldo Busi. Lo scoramento è tale che non riesco neanche ad affibbiargli una definizione sarcastica. Ma chi è che ha detto che questo qui è un fine intellettuale? Non riesce a esprimere un concetto senza cadere nel pecoreccio. E sì, perchè frasi del tipo: “cazzo in culo non fa figli, bensì brodo di conigli”, o “sembra un gesuita inculato da una salamandra” non arricchiscono proprio nessuno.
E la porno-professoressa e il marito scambista ospiti del programma che – è bene ricordarlo – va in onda in prima serata? Non era meglio lasciarli cristallizzati nel loro filmetto amatoriale e nelle fantasie dei cinque milioni che li hanno cliccati su youtube?
Non so come riesca ancora ad arrabbiarmi di fronte a tutto questo, e no, cambiare canale non mi farà stare meglio.

Diciamo parolacce che non offendono più

Qui trovate uno spunto di riflessione sul degrado della lingua italiana.

Grazie a Verbena.