L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
Più della scomparsa delle mezze stagioni, oltre la differenza tra caldo secco e caldo umido, meglio della constatazione che una volta ci si divertiva con poco, la discussione sul Ponte sullo Stretto ormai surclassa tutte le discussioni riempitivo. Solo che quando la recrudescenza dei luoghi comuni filtra dalle chiacchiere da ascensore al dibattito politico, bisogna stare molto attenti. Soprattutto se si parla di un’opera che è già costata più di trecento milioni di euro pur non essendo mai stata realizzata. Un record insomma. L’altro giorno il governatore Musumeci ha ribadito che il Ponte si farà perché “questa telenovela deve finire”: cioè con inconsapevole senso dell’humor ha usato una telenovela per scacciarne un’altra. Ma fa niente, quel che conta davvero è trovare un riempitivo che vada bene con qualunque contesto politico quando la discussione langue. E il Ponte è la pietra angolare di tutte le battute da bar travestite da dichiarazioni programmatiche. Quando la politica era un’altra cosa, cioè almeno avanspettacolo puro, Berlusconi arrivò a presagire la posa della prima pietra: era il 2002 e credevamo di averne viste abbastanza. Ma si sa, l’ottimismo è la migliore dote degli ingenui. Così oggi derubrichiamo a barzelletta la capriola logica del Movimento 5 stelle che, nel giro di pochi anni, sono riusciti a far transitare l’opera dalla categoria “presa per il culo” a quella “simbolo della ripartenza”. E poi il dibattito sul nome. Salvini vorrebbe chiamarlo Ponte Draghi, Musumeci lancia la suggestione del Ponte Ulisse. Un buon compromesso, in onore della storia che ammanta quest’opera che non c’è, sarebbe chiamarlo Ponte delle Chiacchiere. A campata unica tra un luogo comune e l’altro.