Il segno della barbarie del centrodestra è tutto in una frase di Berlusconi: “No, così andiamo a sbattere”. Il vecchio miliardario che appesta la politica italiana ha appena stoppato le dimissioni di Renata Polverini, governatore del Lazio sommersa dalla melma di uno scandalo che farà storia. E lo ha fatto non in nome di un sincero convincimento, ma di una brutale strategia: chi ha il potere lo deve brandire sin quando non glielo strappano a forza dalle carni, in oltraggio alla giustizia e alla sete di verità.
Le dimissioni della Polverini, secondo Berlusconi, avrebbero pericolose ripercussioni su un’altra giunta di galantuomini, quella lombarda, che per spunti giudiziari merita le stesse attenzioni di quella laziale. Quindi affanculo i milioni dei cittadini buttati in cene, puttanone e grotteschi costumi da centurioni, la questione è meramente partitica e lo scacchiere su cui ci si muove non è, come pensano milioni di elettori, quello delle tentazioni più miserabili, ma quello dei sondaggi e dei punti di gradimento.
Come se rubare fosse un requisito di abilità politica ed essere scoperti un incidente di percorso.
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Dalle stelle alle stelline
“O si volta pagina o si va tutti a casa”, dice il governatore del Lazio Renata Polverini dopo la scoperta dell’ennesimo scandalo di una politica ricca di soldi non suoi e vergognosamente sprecona. Un ultimatum, come scrivono i giornali. Un ultimatum a tempo abbondantemente scaduto, come giudica un comune mortale non sovvenzionato a fondo perduto dallo Stato, non campato per quel che non fa.
In realtà l’espediente della Polverini che cerca un rinvio – l’aut aut è comunque un classico nella retorica del rinvio – è un’offesa al tempo scaduto e ai tempi in cui viviamo.
Non c’è un’opzione B. Non esiste una possibilità di correzione per il malandrino che ruba a casa dei poveri. In altri tempi gli avrebbero mozzato le mani: oggi il minimo è che gli mozzino la carriera.
Nessuno può ormai consentirsi un solo passo falso coi soldi della collettività perché di passi falsi è costellata la strada della nostra storia recente. Dalle stelle alle stelline, dalle stalle agli stallieri.
Cappellaro e cappellate
L’ultimo tormentone del web è questa intervista a Veronica Cappellaro, consigliere regionale del Lazio. Il video risale al 28 febbraio scorso e dà un’idea della solida preparazione di questa signorina che è anche presidente della Commissione Sport, Cultura e Spettacolo. Un timido giornalista le chiede qualcosa sui saldi, e lei? Lei legge la risposta. E pure male.
Ah, secondo voi di che partito è Veronica Cappellaro? E di chi sarebbe amica?
Tra cassieri stonati e manovratori ubriachi
“La democrazia è a rischio”, avverte Daniele Houdini Capezzone. E in questa frase c’è tutto il senso del potere della classe politica egemone.
Lo scenario, lo sapete, è quello in cui l’esclusione delle liste del Pdl dalla prossima competizione elettorale viene inquadrata dai berlusconiani come un atto odioso e liberticida.
La discussione, per effetto dell’ormai noto straw man argument, si è incanalata sulla possibilità o meno di privare gli elettori di una fondamentale componente partitica. In realtà bastava risparmiare le forze e avere il coraggio di pronunciare una parolina semplice, che in Italia produce più allergia delle graminacee: regola.
Se una lista si presenta in ritardo o incompleta, come qualsiasi altro atto pubblico e/o privato, non c’è motivo di invocare i motivi di sicurezza nazionale o di maledire le toghe rosse: più saggio tirare le orecchie al responsabile che ha fatto tardi o si è dimenticato di allegare un documento.
Ma nell’Italia del terzo millennio il confine tra l’abuso di potere e il ridicolo capriccio del più forte, è quasi invisibile. E l’errore dà spunto per il sopruso, la mancata ammissione di responsabilità innesca una dichiarazione di guerra.
Se questo Paese non avesse gravi problemi di memoria, ci sarebbe da consumare taccuini per segnarsi le dichiarazioni dei papaveri pidiellini di questi giorni. Per poi restituirle con fragore di pernacchie ad ogni coda di ufficio pubblico, in ogni passo dell’iter burocratico che la vita ci impone.
Manca un bollo? Beccati ‘sto Schifani, prrr! Il termine è scaduto? Prenditi ‘sta Polverini, prrr!
Il precedente di un provvedimento legislativo coniato ad hoc per rimediare alle cazzate (private?) di quattro politicanti improvvisati – braccia tolte al mercato degli after hour – poteva essere la goccia che mancava per far traboccare il vaso del ridicolo. Invece, grazie anche a un Capo dello Stato di cui non si può dire nulla solo perché il sonno degli anziani è sacro, è purtroppo argomento da agenda politica. Poteva essere una indimenticabile baggianata. Invece la si è resa una cosa seria.
Non siamo in dittatura, i dittatori prendono sul serio il popolo: altrimenti non ordinerebbero epurazioni e fucilazioni.
Siamo al luna park, tra cassieri stonati e manovratori ubriachi che degli avventori se ne fottono.
La sostanza e la forma
Esempi di sostanza che prevale sulla forma.
Mangio coi piedi nel piatto perchè devo pur sempre nutrirmi.
In auto me ne frego dei divieti e delle norme del codice della strada, l’importante è arrivare.
Sono candidato a qualunque Nobel anche se nessuno a Stoccolma sa della mia esistenza: oggi mi sento un tipo da premio.
Le dita nel naso arrivano lì dove il fazzoletto si ferma.
Salario minimo, insulto massimo
Pare che Piero Marrazzo, nella sciagurata sera in cui quattro carabinieri delinquenti decisero di incastrarlo, abbia concordato col trans Natalì (che ha già un nome che è un refuso) una prestazione da 5.000 euro. La cifra è bene o male corrispondente allo stipendio di tre mesi di un impiegato. Marrazzo, che fa (faceva?) parte di un partito che tutela (tutelerebbe?) i salari minimi andrebbe insultato solo per questo.
Testa di Marrazzo
Non so quanti di voi si concedano festini con trans o pratichino il sesso mercenario, però ritengo che chiunque si cimenti in queste attività debba essere ben conscio dei rischi ai quali va incontro. Rischi di immagine (le precauzioni non sono mai troppe) e rischi di salute (le precauzioni non sono mai troppe) innanzitutto.
Però se siete personaggi in vista – tipo il governatore di una Regione – e avete pure famiglia, i rischi sono decuplicati. Come potreste mai pensare di mantenere la riservatezza? O come potreste mai appellarvi a quel diritto alla privacy che, ultimamente in questo Paese, si invoca come lasciapassare, come indulto mediatico, come pezza per pulirsi quando si è sorpresi con le dita nella marmellata?
Certo, potreste sempre rifugiarvi all’ombra del peccatore più grande: c’è sempre qualcuno che ha fatto di peggio, lo ha fatto prima e con maggiori danni. Però che tristezza…
Non so quanti di voi si concedano certe trasgressioni, però ritengo che chiunque lo faccia lecitamente, debba essere perfettamente conscio che la trasgressione comporta una lacerazione nel telo della riservatezza: perché è condivisa, perché chiama in causa la fiducia dei sodali, perché è un atto che rivela ad altri ciò che spesso si tiene nascosto persino a se stessi.
Quindi voi potete fare tutto quello che volete – a patto di non violare la legge – solo se rappresentate voi stessi, la vostra indole e la vostra capacità di rischio. Ma se siete il simbolo di una collettività (che vi ha eletto, che a voi si affida e che vi stipendia) le cose cambiano radicalmente: il vostro operato, anche fuori dall’ufficio, non prevede sussulti che mettano a rischio la vostra credibilità perché voi siete essenzialmente un simbolo.
Ecco perché se voi foste Piero Marrazzo sareste obbligati a girare per il Lazio, porta a porta, a chiedere scusa perché quel simbolo è stato oltraggiato dalla vostra stupidità.