Il cosiddetto popolo della rete

Sempre più spesso giornali e tv quando trattano idee e spunti che arrivano da internet usano la frase “il popolo della rete”. E’ un modo – sbagliato – di circoscrivere un fenomeno, di recintare una parte della popolazione.
In Italia le persone che hanno accesso alla rete, secondo le ultime stime, sono 38,5 milioni e, come si intuisce, è impossibile che siano coalizzate nel segno dello strumento che usano per interagire. Il popolo della rete è quindi una parte del popolo italiano che sceglie e si esprime tramite internet.
Quando si parla di risultati elettorali si dice/scrive mai del “popolo delle urne”? No, perché la cabina elettorale è un passaggio che serve a esprimere democraticamente una preferenza. Esattamente come il web serve a esprimere un’idea.

Il vero miracolo italiano

Nell’Italia dei condoni e degli appalti tra amici, dei poltronisti di professione e delle paghette immeritate capita che la terra tremi. La macchina della solidarietà, anche quella evanescente di internet, è l’unica a funzionare veramente in questo Paese di bocche larghe. C’è gente che si sbraccia per aiutare chi è in difficoltà, senza chiedere nulla in cambio se non la soddisfazione di essere stata utile. Questa immagine, specie nei momenti di grande difficoltà, ci dà speranza. Il vigile del fuoco che scava disperatamente attorno a un cumulo di macerie, il sacerdote sopravvissuto che non fa un passo lontano dai suoi fedeli, il volontario che dà un bacio alla moglie e parte per i luoghi del disastro. Altro che presidenti-operai e ricostruzioni show.
Ecco il vero miracolo italiano: qualcuno crede ancora che i miracoli, quelli veri, bisogna meritarseli.

Il partito delle illusioni

C’è un movimento che prende piede nella rete che si chiama #formattiamoilpdl e che, come si intuisce, vuole cambiare il Pdl. Anzi, citando testualmente i promotori, “vuole cambiare in meglio il Pdl”, come se si contrapponesse a un gruppo che lo vuole cambiare in peggio.
A parte l’iniziativa meritoria di battersi per un’idea, c’è però un aspetto molto singolare che va sottolineato. Come si può migliorare un partito che dal suo esordio ha prodotto solo disastri? A quale fonte di ottimismo e buona fede si attinge per sostenere un gruppo di politici che in vent’anni si è occupato esclusivamente di leggi ad personam e di favoritismi?
Il movimento dei “formattatori” ha sicuramente un’intenzione nobile, ma rischia di passare alla storia come quell’architetto che, costruito un immenso castello di sabbia, riuscì ad abitarci sin quando dal cielo non cadde la prima goccia di pioggia. Tutto è possibile, ma non tutto è plausibile.
Il Pdl è il partito col più alto tasso di promesse non mantenute. Serve davvero che qualcuno gli dia la possibilità di vendere altre illusioni?

Let’s tweet again / 4

Su Twitter, nei giorni scorsi.

 

 

Tre domande semplici

Mi hanno insegnato che quando le situazioni sono complesse è meglio fare domande semplici. Capite bene che si tratta di un esercizio più di psicologia che di giornalismo, ma ognuno di noi ha il passato che si merita…
E allora cimentiamoci con tre domande.
Cosa c’entrano diamanti e lingotti d’oro coi soldi che lo Stato dà a un partito?
Perché quando un intero Paese stringe la cinghia, i rimborsi elettorali non si devono toccare?
Come si può tollerare che la decisione su un finanziamento pubblico venga presa da chi i soldi li riceve e non da chi i soldi li versa?

Drammatico

Bisogna stare molto attenti con gli aggettivi. Definire “drammatico” l’eventuale taglio del finanziamento ai partiti è da incauti. Di drammatico in questa nazione ci sono molte cose, e il mio non è benaltrismo.  Se si parla di soldi pubblici c’è una parola che legittima tutto: fiducia. Quando paghiamo le tasse lo facciamo sperando che quei soldi siano ben impiegati. Il dramma, quello vero, è che finiscono in sperperi, puttane, auto di lusso, ville, viaggi, cene, diamanti e tangenti varie.
Quindi non facciamo il drammatico errore di indicare drammatici errori che in realtà sono atti di legittima difesa da altri, veri, drammatici errori.

Gli onanisti della politica

La serata televisiva di ieri è stata monopolizzata dagli speciali sul raduno della Lega a Bergamo con dirette, interviste, ospitate in studio, retroscena e analisi di costume. Tutti a seguire il grande evento di un piccolo partito come se si trattasse di un passo determinante nella storia italiana.
A bocce ferme vale la pena di fare alcune considerazioni per cercare di tarare l’asse della logica di un Paese allo sbando.

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Il vero difetto della democrazia

Il Trota si dice sereno, e ci mancherebbe altro. Ci mancherebbe un’inquietudine tardiva in un personaggio che di inquietudine ne ha suscitata molta tra gli italiani senzienti.
E’ questo il punto cruciale, l’inquietudine. Tardiva.
Per decenni solo in pochi si sono lasciati turbare dagli aborti della politica, e Renzo Bossi ne è emblematico esempio. Si è considerato normale, peggio fisiologico, che il figlio incolto del leader grezzo di un simil-partito potesse ambire a gestire la cosa pubblica. In nome di chi e cosa? Ma del suo essere figlio, naturalmente.
Se solo in Italia qualche elettore del centrodestra fosse stato più onesto con se stesso, oggi avremmo una nazione con meno storditi al governo. Non mi fate fare altri nomi perché una querela l’ho appena scampata e devo mettere i soldi da parte per pagare la Tarsu fresca fresca di notifica.
Però lasciatemi dire, nel pieno dell’esercizio di critica, che tra quelli che in questo momento stanno provando umanissimo disprezzo nei confronti del Trota e della sua famiglia ci sono molti ipocriti.
Un sistema con un briciolo di garanzie non avrebbe mai consentito a un ignorante di arrivare dov’è arrivato Bossi jr, con la benedizione di un elettorato degli anni Duemila (non la ciurma democristiana degli anni Sessanta, per intenderci). Chi ha votato il Trota è, secondo l’ipotesi più ottimistica, come il Trota. E questo dovrebbe diventare il manifesto della nuova politica. Noi siamo, in fondo, anche chi votiamo.
Il vero difetto della democrazia è che non ha nulla di definitivo contro i cretini.

O così o me ne vado

Il succo delle dichiarazioni di Mario Monti è questo: o così o me ne vado. E mai, a mia memoria, un premier aveva minacciato di mollare tutto per il rischio di mancata coesione tra il Paese e il programma di governo. Certo, si dirà, questo non è un esecutivo eletto ed è più facile muoversi per ultimatum. Ma i governi che c’erano prima, pur non essendo tecnici, l’aut aut l’utilizzavano ugualmente, solo in modo più presuntuoso: ad esempio minacciando o imponendo la fiducia.
Credo che la presa di posizione di Monti meriti un minimo spazio nella memoria delle cronache giornalistiche e spero che qualche giornale le dedichi una riflessione ben più approfondita e prestigiosa di questa.
Dalla spocchia del “tanto ce la facciamo da soli”, del “pensatela come volete, noi abbiamo i numeri” al “se vi piace così va bene altrimenti ce ne andiamo”, mi pare che di differenza ce ne sia. Solo che ormai ci siamo abituati a una politica senza tette, culi e barzellette sporche e la crisi di astinenza dal trash fa passare in second’ordine una ritrovata serenità di contenuti.
Monti non è certo il miglior premier (ci sta dissanguando e chissà per quanti anni lo malediremo), però persino i suoi antipatici ultimatum rischiamo di passare alla storia come buone notizie.

Il governo dei cazziatoni

E’ vero, siamo meglio rappresentati adesso, gli occhi del mondo non si chiudono più per la vergogna quando ci inquadrano. Ma qualcosa, col passare dei mesi e con l’accatastarsi di dichiarazioni su dichiarazioni (ma non dovevano stare lontani dai media?) questi ministri stanno inopinatamente cercando di seminarla fuori dal terreno di semina. Una frecciatina agli studenti oggi, una lavata di capo ai lavoratori domani, la squadriglia di Monti non perde giorno per fare un cazziatone agli italiani. Il che è carino la prima volta, divertente la seconda, ma alla terza rischia di essere cosa tanto gradita quanto il pizzicotto nel sedere durante una salita.
Dal governo dei professori al governo dei professorini il passo è breve.