L’attimino fuggente
di Giacomo Cacciatore
Sto leggendo un bel libro. Si intitola “100% sbirro”, e l’autore è I.M.D.
L’acronimo non è un vezzo, né indica un collettivo di giovani arrabbiati con la kefiah e il netbook sottobraccio. I. M.D. è un poliziotto della squadra Catturandi di Palermo. Per intenderci, uno di quelli che ha messo le manette a fiori di campo come Giovanni Brusca, Lo Piccolo padre e figlio, Bernardo Provenzano. Pluriomicidi, estortori, stragisti. I quali, per inciso, non si sono presentati alle forze di polizia andandoci con le proprie gambe. La cattura dei più feroci latitanti di mafia è stata frutto di appostamenti sfibranti, di continue emergenze spesso risolte in delusioni, e – udite, udite – di intercettazioni ambientali. Audio e video. Il mafioso che si nasconde non è un comune cittadino. Non quello che Berlusconi, a dir poco esagerando, indica ai suoi comizi come vittima improbabile di una magistratura guardona e malevola, che passa il tempo intercettando ignari figli del popolo. Il latitante di mafia è avvolto da una rete di connivenze, di segnali verbali in codice, di gesti significativi che, novantanove virgola nove periodico su cento, possono rivelarsi determinanti per la sua individuazione e l’arresto. E i protagonisti di questi sotterfugi, delle mezze parole, degli spostamenti in apparenza inspiegabili e quasi mai casuali, sono spesso i suoi familiari. Ora, mettendo da parte le decisioni di un governo dichiaratamente contrario alle intercettazioni (a meno che non le faccia Brachino dal barbiere, mi sembra di capire), vorrei riportare una dichiarazione fresca fresca, ancora fumante, di Daniela Santanchè: “Che senso ha intercettare un mafioso mentre parla con la madre? E’ un abuso”.
Che dite? Facciamo una colletta e le regaliamo una copia di “100 % sbirro”?
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