Il bagno più piccolo del mondo

Vila Franca de Xira – Azambuja

Faccio parte di quelli che pensano che i viaggi sono anche disagi. Non che me li vada a cercare, i disagi, ma è vero che ne tollero una certa quantità se essi sono in qualche modo parte di un contesto inevitabilmente bello e interessante. Del resto un camminatore che macina centinaia e centinaia di chilometri con lo zaino in spalla non è proprio il turista da resort maldiviano. Per dire, io alle Maldive ci sono stato, mi sono grattato la panza sotto il sole, bello bellissimo: poi basta però.
E’ una questione di soffi vitali, come nella musica o nell’abbigliamento. Ci sono periodi (di cui magari poi ti vergogni) in cui ti strozzi di hard rock, ti inguaini in jeans stretti o magari larghissimi (io ebbi il periodo “arancione” di cui credo di avervi parlato) e poi un giorno ti svegli tardo new wave, minimal black, nudista part time e tatuato pure nell’orecchio medio.
Insomma viaggi e disagi possono convivere a patto che ci sia una partitura che governi l’armonia della vacanza: rinuncio a una comodità se quella rinuncia è funzionale rispetto a una mia soddisfazione. E le soddisfazioni vanno coltivate con cura perversa altrimenti sono godimenti qualunque, sbadigli a cinque stelle, paranoie extralusso, rassegnazione da bordo piscina di resort esclusivo che accetta solo clienti con conto alle Cayman, ma di genealogia sumerica e per giunta mancini da almeno sette generazioni.
La buonanima di mio padre questa cosa proprio non la mandava giù e, come vi raccontai quando feci il Cammino del Nord, mi chiamava affettuosamente “il cretino”: proprio perché non capiva come un cristiano che lavora duro per undici mesi all’anno potesse decidere di fare le sue vacanze a scarpinare da solo invece di fare altro, e in quell’ “altro” c’era tutta la sua curiosità di giramondo comodista e buongustaio.

Tutta ‘sta manfrina per spiegarvi la foto che vedete sopra. Sono ad Azambuja, ridente cittadina (ina ina) a me nota per essere la terza tappa del Cammino portoghese. E sono qui solo per raccontarvi dell’esistenza del bagno più piccolo del mondo a me conosciuto.
Il lavandino, lo vedete, è poco più grande della mia mano. Quando ci si lava i denti il dilemma è tra ingoiare il dentifricio (menta sana in corpore sano) o sputarlo direttamente per terra. Sciacquarsi la faccia equivale a lavarsi i piedi (per fortuna la gravità rende alquanto impossibile il viceversa). Non dico del wc, per l’uso del quale non è contemplata la posizione eretta: o ci si incastra contorcendosi tipo gangbang di Rocco Siffredi o la si fa direttamente contro la finestra, che ovviamente è minuscola e difficile da centrare nel momento del bisogno, quindi resta il muro che è anch’esso piccolo quindi alla fine te la fai sui piedi (preferibilmente prima di lavarti la faccia). Ma è nella doccia che il vero combattente di viaggi&disagi, l’alfiere del turismo alternativo o, a seconda dei punti di vista, il cretino dà sfoggio della sua seducente perseveranza.
Non sono uno troppo voluminoso, però nel mio metro e settantotto per ottanta chili ho bisogno di un minimo spazio per il più elementare dei gesti: insaponarsi. E insaponarsi durante un Cammino è un investimento sul futuro dato che la quantità di sporcizia che si abbarbica alle carni in quei maledetti chilometri vorrà i suoi mesi per essere smaltita completamente: Bellolampo al confronto è una puzzetta al cinema.
Ve lo dico. La vergogna di muoversi con difficoltà sotto la doccia è l’ultima spiaggia per chi ha un minimo di autostima. Oggi, tra contorsioni e sbucciature di gomiti, credo di averla superata, quella benedetta spiaggia.
Alla luce di tutto ciò i 34 chilometri sotto il sole di domani (di cui venti senza fonti di acqua) sono una partita di bocce in un atollo tropicale dopo il gioco aperitivo.
Vi ho voluto bene.

4 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

In passerella (e la moda non c’entra)

Alpriate – Vila Franca De Xira

In due giorni ho capito due cose (una cosa al giorno, non male!). La prima è che i portoghesi sono i maestri delle passerelle, le installano dovunque: nelle riserve, in riva a fiumi e mare, persino in mezzo alle aree industriali abbandonate. La seconda è che arrostiscono sempre e comunque, con qualunque temperatura, dappertutto. Per farvi capire, come noi friggiamo loro arrostiscono.  
Cugina evoluta della passerella, nella accezione portoghese, è la pista ciclabile. Che qui non ha la valenza sociale che ha dalle nostre parti: ciclabile, uguale inutili biciclette, spazio prezioso tolto alle auto; esempio da tirare in ballo nelle discussioni oziose, le ciclabili di via Libertà a Palermo (istituite dall’ex sindaco Cammarata) che si schiantavano contro alberi, edicole e trincee di eterni lavori in corso. E non ha neanche l’intransigenza che ha in paesi tipo Svezia e Danimarca dove se rallenti o ti fermi per prendere fiato rischi un tamponamento e una cazziata (infinitamente meglio il tamponamento). 

In Portogallo la ciclabile e la passerella sono il liberi tutti dalle paranoie. Vai come vuoi, al passo che vuoi, nessuno ti caga di striscio, ci si muove ognuno coi cazzi suoi senza un questuante di pensieri altrui, un’ostruzione abusiva, un’invasione di campo fisica o allegorica.
Oggi mi sono sciroppato chilometri di passerelle e ciclabili lungo questo infinito fiume Tejo, che noi chiamiamo Tago manco fosse un biscotto, e non ho mai avuto un’interferenza. Sapete quando siete immersi nei vostri pensieri, con la musica giusta nelle orecchie, vicini al famoso momento perfetto? Ecco, questo Cammino che è lungo ma non strappacarni vi dà la scenografia adeguata.
Mai invadente, un sottofondo che si fa sinfonia da solo.

Non sono un urbanista né un esperto di politiche sociali. Ma sono in grado di capire che un territorio è davvero ben gestito quando non deborda nell’effettismo. Quando è la sua ordinarietà civile e orografica ad accompagnare il turista nel suo essere libero di assemblare e assimilare scenari, idiomi, odori, senza che prevalga un senso civico imposto: la festa comandata, l’evento stagionale (che prelude al buio), la masculiata senza preavviso ovvero il coitus interruptus di una pseudo-politica culturale.
Per tutto questo non serve una bacchetta magica, servono curiosità e costanza. 
I portoghesi sono più indolenti di noi, se ne fottono più di noi (poi, per carità, ti fanno l’insalata con le patatine fritte). Però dimostrano di avere rispetto del loro territorio e soprattuto di chi lo attraversa. E per un popolo che fu di conquistatori non è poco. 

3 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Il dolore e il piacere

Lisbona – Alpriate

Vi ho già spiegato perché nei Cammini le misure non contano. Ma è un concetto talmente importante che ve lo ripropongo con un paio di esempi che hanno a che fare col Cammino portoghese. Oggi la mia prima tappa era ufficialmente di 22 chilometri e mezzo: la misurazione ufficiale si basa perlopiù sulle distanze tra gli albergue, cioè tra gli ostelli dei pellegrini (che io non frequento). Siccome alloggio in B&B o hotel, non perché sia ricco ma perché detesto la coltura intensiva di ascelle sudate e calzini fetenti, le mie misurazioni sono diverse, spesso molto diverse. Oggi, per dirne una, il luogo in cui mi trovo è a tre chilometri dalla via che devo seguire, ergo tra oggi e domani dovrò percorrere sei chilometri in più.
Ed eccoci al secondo esempio.
Quanto pesano sei chilometri? Un camminatore mediamente allenato e senza zaino può muoversi in pianura alla velocità di 5, 5 chilometri e mezzo all’ora. Che con lo zaino diventano automaticamente 4, 4 e mezzo. Se non ci si mette una salita. E poi dipende se la salita è sotto il sole. Insomma i chilometri, come dicevo, non si contano, ma si pesano. Quei sei chilometri richiederanno almeno un’ora e mezza in più di cammino. E parliamo solo della prima tappa.
Ok, prometto di non rompervi più le scatole con questi onanismi numerici ma, scusate la metafora – ho già una fame pazzesca e qui siamo un’ora indietro –  è importante capire come funziona la lievitazione prima di parlare di pane. 

Fare da soli.
Anche il semplice allinearsi dei passi su una trazzera ,o la ricerca pacatamente disperata di una fonte d’acqua quando sei già in fase miraggio, rimanda a una modalità che ci appartiene sempre meno. E che proprio per questo andrebbe recuperata con orgoglio.
Fare da soli.
Seguire una mappa cartacea senza geolocalizzazione. Scrutare il cielo senza consultare la app meteo (oggi una persona mi ha scritto “che tempo fa lì?” E io ho risposto con la schermata del cellulare che lei stessa avrebbe potuto consultare da casa sua). Ascoltare il proprio corpo che macina passi, sussulta, innegabilmente soffre, ma ascoltare al contempo anche la propria mente che ride, felice e incosciente. Ci dimentichiamo di godere delle cose che spesso fanno male e bene al tempo stesso, ed è un peccato: fare da soli diluisce il dolore nel piacere e non è masochismo che, al contrario è dipendenza estrema dall’altro. 
Fare da soli qui nel sentiero sterrato lungo il rio Trancão è annusare l’aria stagnante e dolciastra e non catalogarla frettolosamente come maleodorante: contestualizzare è una regola del sapere,  decontestualizzare può esserlo del piacere, ma questa è un’altra storia. 

Insomma Lisbona è alle spalle (nella foto lo è davvero) e ora lo posso dire, non è vero che è una città malinconica. La malinconia non ha a che fare coi luoghi geografici, ma con gli esseri umani che li popolano. Il Fado no, quello è davvero strappa-attributi. Ma non mi pare il caso di aprire un dibattito. 

2 – continua.

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Fanculo al resto

Lisbona.

C’è un concetto cruciale che governa le esperienze di chi, come me, si imbarca da solo in cammini da centinaia e centinaia di chilometri. Ed è quello di abituarsi a sconfiggere le abitudini. Ad esempio, sto scrivendo dal tavolino di un bar molto rustico sul lungofiume di Lisbona: il tavolino traballa, la gente urla intorno a me, il vino “tinto” è caldino, la tastiera del mio iPad mini mi nasconde l’apostrofo e mi apre in continuazione finestre di funzioni sconosciute. Quindi sono davanti a tutto ciò che normalmente mi farebbe roteare i cosiddetti, eppure resisto con la consapevolezza che resisterò sempre meglio col passare del giorni e\o dei chilometri. Perché scardinare le abitudini è una ginnastica della mente o forse dello spirito (ma non voglio buttarla nel Terzanismo).
Questo preambolo serve a darvi un’idea di come si possono affrontare in modo diverso, non necessariamente spirituale o ginnico o religioso, percorsi come il Cammino portoghese.
Abituarsi è la parola chiave. Abituarsi a cose alle quali non siamo abituati, è la specifica dirimente.
Abituarsi alla fatica dei settecento chilometri del percorso (sui chilometri ci torneremo nel corso di questi diari) è molto più facile di cose tipo: trovare la “ù” o la “é” su questa maledetta tastiera che è poco più larga e infinitamente meno pratica di un iPhone; perdere oggetti nel quotidiano apri e chiudi dello zaino; cambiare letto ogni sera per 28 infiniti giorni; centellinare magliette e mutande; mollare tutto ma proprio tutto dei collegamenti ordinari e dedicarsi solo a se stessi (bella frase da social, ma provate a trasformarla in un concetto solido, senza emoticon).

Quando mi è stato chiesto, in tutti questi anni, qual è l’insegnamento di un’esperienza del genere  ho sempre risposto con l’illuminazione che mi venne, anni fa, al primo passo di una serie che mi avrebbe portato a quasi mille chilometri di distanza: la gioia di indossare un pensiero senza che nessuno si permetta di sgualcirlo. 
Siamo disabituati alla concentrazione, la riteniamo dei guru o dei fanatici. Degli altri più altri che ci siano insomma. E invece è la forma più sublime di cura di se stessi. 
Non sappiamo quando ce ne andremo, né chi ci sarà con noi stasera. Non sappiamo cosa faremo il mese prossimo, se abbiamo riposto fiducia in brocchi e abbiamo snobbato fuoriclasse. E ciò non perché ci manchino doti divinatorie (che palle prevedere il futuro…), ma perché ci manca il pit stop della ragione: fermarsi a pensare, e fanculo al resto.

Qui Lisbona. Zaino leggero, pochi vestiti, infiniti pensieri da indossare, zero abitudini, fisime, comfort, ronzii.
Si parte.  

1 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Fuochi e pistole

Noi siciliani siamo abituati a convivere col fuoco, in qualunque forma possa essere rappresentato. La fiamma in sé racconta una devozione coatta verso il potente, che sia un santo o un attentatore del racket. Si brucia per scacciare il malocchio o per ringraziare, per punire o ammonire. Dalla candela al rogo c’è sempre una mano che regge una convinzione, spesso molto personale, raramente condivisibile. Perché qui in Sicilia il fuoco è soprattutto mistero. Mistero della mente, di un profitto difficile da raccontare, di tradizioni criminali fuori dall’intelligibile. Chi avvicina un accendino a una stoppia mentre mira al bosco limitrofo è attore di un’orrenda commedia senza trama. Il sistema legislativo regionale e quello nazionale hanno provato a blindare l’accesso lavorativo al settore forestale: incendiare non è più un modo per provocare assunzioni e alimentare clientelismi a catena. Eppure ogni estate spuntano mani folli che appiccano, alimentano e, alla fine, uccidono. Senza suscitare un giovamento che sia spiegabile al di fuori del buio dell’ignoranza. Favorite, questo sì, dall’inspiegabile sistema logistico che è la Protezione Civile, un servizio che dovrebbe essere di tutti e che risulta, inesorabilmente, di nessuno. L’organizzazione è coordinata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e si diluisce in una miriade di competenze che arrivano fino ai singoli sindaci in una rarefazione di responsabilità che si perde come cenere al vento. In altri Paesi europei il compito di Protezione civile è assegnato invece a un’unica struttura, con metodi e responsabilità precise: è, a mio parere, il modo migliore per fronteggiare emergenze.
Uno decide, gli altri eseguono. Come nel crimine, del resto.
Una mano che tiene un accendino può essere pericolosa come se reggesse una pistola. Noi siciliani siamo abituati a convivere col fuoco e con le pistole, ed è una cosa orribile.

L’arma della nostalgia

Durante l’emergenza Covid mi impegnai al massimo per cercare di mettere a frutto tutta la mia (modesta) esperienza di futuro, che detta così sembra un ossimoro dato che l’esperienza proviene necessariamente dal passato. Su questo blog ne venne fuori un longform che fornì stimoli per qualche dibattito pubblico e per proficue discussioni private. Finita l’emergenza Coronavirus ho rivisto alcuni miei appunti di allora, soprattutto questo sulla nostalgia come ponte tra passato e presente. E mi sono inchinato dinanzi alla constatazione che, cambiando le cose e le situazioni, cambia anche il nostro modo di guardare il (o al) mondo.

Lo spunto me lo ha dato l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 (sono uno a lenta carburazione). Perché la guerra è il banco di prova dei nostri convincimenti. Un tempo ci si muoveva con le armi per guardare avanti, per promettere un futuro migliore ai figli della patria. Oggi il futuro come elemento fondante di materia prima non tira più.
I nuovi nazionalisti, i nuovi populisti, i nuovi trumpiani di ogni landa promettono l’antico fasto, il ritorno del vecchio inscalfibile potere, in una parola il passato.
La stessa idea di nostalgia è cambiata. Una volta si concentrava su un luogo specifico, su un panorama, su un’abitazione, magari quella della nostra infanzia. Insomma la nostalgia aveva odori e sapori.
Oggi il tempo (ergo il passato) ha sostituito lo spazio (ergo la casa d’infanzia) quindi, come ha suggerito lo scrittore Georgi Gospodinov, forse si dovrebbe usare un altro termine, tipo cronostalgia.

Le guerre per il passato, per riscriverlo, per rifondarlo, per spalmarlo su un presente incerto sono esattamente il contrario di ciò per il quale le generazioni del secolo scorso hanno vissuto e spesso combattuto. Erano proprio le difficoltà del loro presente, ai tempi di quel presente, a spingere quei popoli verso il futuro.
Invece oggi Putin e quelli come lui combattono in un’altra epoca spacciandola per una contemporaneità diffusa e condivisa. È da qui che discende tutta la caterva di nefandezze che conosciamo del dittatore russo e non solo: la cancellazione del confine tra verità e menzogna; la considerazione della vita umana come un bene esposto su un bancone del mercato; l’esasperazione delle polarizzazioni economiche, sociali e politiche.
Quando il passato diventa un alibi, la verità muore.
Quando la nostalgia cambia pelle, la ragione muore.

Misurare la felicità

Quando ero giovane mi dava felicità correre a perdifiato, mangiare biscotti su un albero, impennare con la moto e stare sdraiato sulla neve di notte a guardare le stelle (che per un siciliano è una specie di bug genetico). Col tempo ho cambiato modelli e gusto per certe situazioni e mi sono chiesto se la nostra idea di felicità si basa su ciò che ci è ontologicamente inaccessibile o difficile da raggiungere.
Goethe diceva che la felicità è una palla a cui corriamo dietro ovunque rotoli e che quando si ferma vogliamo spingere avanti coi piedi.  
Nel mio piccolo credo che il problema della felicità non sia il suo raggiungimento, ma la sua misurazione. Cioè so bene come e quando posso essere felice anche in modo trasversale, ma non so nulla di come stilare una classifica dei miei istanti felici. La foto di un bel momento, tipo un matrimonio o la conquista di un risultato sportivo o il primo giorno di scuola o l’ultimo di lavoro, cambia il suo peso emotivo a seconda dei tempi, dell’umore, dei destini che si sono aggrovigliati (la trasfigurazione di momenti incantevoli in incubi è un classico di chi ha vissuto in prima persona e non per procura).

Il problema si risolve togliendo alla felicità il suo presunto valore di ricompensa e considerandola come piacevole e inaspettato effetto collaterale. Una corrente di pensiero di quelli (tipo il sottoscritto) che si aspettano poco e niente dal genere umano punta all’estrema contingenza dei desideri, alla soddisfazione che non intacca il disastro altrui, insomma alla felicità che è tutto tranne che un vantaggio sull’altro. La filosofa e scrittrice albanese Lea Ypi ha stigmatizzato sul Guardian la frase “Don’t worry, be happy” (non preoccuparti, sii felice):

“Non credo che eliminando la preoccupazione resterebbe molto della felicità. Ogni azione richiede un misto di insicurezza, incoerenza del gesto, tentazione del male, incertezza della soddisfazione. Se astraiamo tutto questo dalla ricerca della felicità, è difficile dire che cosa rimane”.

La felicità è destabilizzazione e anarchia. È un paio di ali che ti si sollevano a tradimento senza chiederti il biglietto. È l’uscita di sicurezza che hai identificato quando non ce n’era bisogno. È il sogno non realizzato che, in quanto tale, continuerà ad accenderti sin quando avrai luce. È appartenenza a un branco in cui tu e solo tu sei capo, seguace e persino vittima.
È – scusate la semplificazione estrema – libertà.

Sul diritto di faziosità

Moltissimi giornalisti – io sono tra questi – nella loro carriera hanno avuto a che fare con scelte editoriali contestabili, persino odiose. È nei poteri del direttore scegliere cosa scrivere, come scriverlo e se scriverlo, inutile girarci intorno.

Molto spesso la parola censura viene usata a sproposito dentro e fuori le redazioni, perché un giornale (e in generale una testata giornalistica) vive di scelte. E anche le scelte più impopolari, se guardate con altri occhi, possono essere viste come scelte di comodo o addirittura di saggezza. Insomma esistono manuali di giornalismo, ma non di prudenza. E per fortuna, perché il nostro mestiere è fatto ogni tanto di colpi di testa, di idee balzane, di piedi nella minestra.

Leggendo del caso Petrecca a Rainews viene a galla l’unica eccezione rispetto a tutto questo ragionamento. Che ha a che fare con la realtà dei fatti. Quando un direttore vuole cambiare la realtà dei fatti, siamo dinanzi non già a una censura bensì a una cazzata. Tagliare non serve a servire un padrone. Ragionare sī. 

Anziché sfrondare i servizi su La Russa, Facci e Roccella vari, un direttore iperfazioso o fortemente asservito ma abile avrebbe potuto arricchire il suo tg di contropareri, di editoriali, di dettagli. La notizia come un ingrediente della minestra, più ce n’è meglio è. Anche i palati più raffinati (o diffidenti) possono essere ammaliati da un piatto ricco, magari troppo ricco. È una visione cinica lo so. Ma è realistica e soprattutto pratica. Il giornalismo romantico ormai esiste solo nei film: e ringraziamo il cielo che esiste ancora il giornalismo e basta.
Insomma ragionare, anche in termini fastidiosamente obliqui, non ha controindicazioni. Bisogna solo avere la capacità di farlo. 

Uno spara una cazzata

Uno spara una cazzata.
Un altro gli va appresso e si tira dietro i ritardatari della cazzata.
Un altro gli va appresso e si tira dietro i ritardatari della cazzata.
La folla dei propalatori della cazzata si ingrandisce.
E soprattutto si arricchisce ad ogni passaggio di nuovi germogli di cazzate che originando da una cazzata non possono che generare cazzate ancora peggiori. Cazzate che non hanno neanche un minimo di riferimento con la realtà, dato che la cazzata primigenia almeno ha (spesso) un attaglio di cronaca.
Risultato: un florilegio di cazzate di cui si perde persino il gusto becero di affacciarsi al balcone delle maldicenze e godersi lo spettacolo: sicurezza è sapere che non interrogano te.

Contrariamente a quel che si pensa, questo non è un fenomeno esclusivo dei social. È sempre esistita la catena di Sant’Antonio delle cazzate con la sua pianta che cresce informe. Solo che prima cresceva in un vaso, oggi non bastano ettari.

Nei panni di un SS (e il nazismo non c’entra)

C’è una categoria mai ben classificata, che attraversa strati sociali, posizioni politiche, che risente di varie stratificazioni etiche e anche di molti pregiudizi. È quella dei cosiddetti single stagionati (SS, per usare, anzi osare un’abbreviazione) e comprende le persone cosiddette libere nella cosiddetta età stagionata, cioè diciamo dopo i cosiddetti cinquanta.

Ci sono vari elementi che certificano il valore civile dei SS ed è giunto il momento di tirarli fuori, perché come accade per ogni fenomeno incompreso, da Van Gogh al generale Pappalardo, è noioso che sia sempre la storia a giudicare le distrazioni della cronaca.

Innanzitutto la disponibilità. È il maggiore fattore di appeal per il conferimento della quinta stella a un SS. Sono quelli che ci sono sempre, dalla prima ora all’ultimo minuto, telefono amico e citofono complice, ore pasti e ore piccole, letto divano sedia poltrona tappeto balcone a disposizione a seconda del casino (altrui) che devono disinnescare. Per un SS è naturale accogliere perché nessuno più di lui sa cosa significa non essere accolti.

Poi c’è il sentimento, la parte più noiosa. Un SS è come un reduce del Vietnam dell’amore: forgiato e un po’ disilluso, ma mai indifferente al tema. Sa benissimo che l’amore più grande è quello che finisce, perché solo in quel modo se ne può tastare l’imponenza e l’importanza, ed eventualmente avere la libertà di esercitare il diritto di paragone senza un partner che rompa i coglioni. Ma sa anche che si troverà di fronte a non single non stagionati che cercheranno di rimbecillirlo con le loro storie che reputano uniche e irripetibili e dalle quali non riescono a emanciparsi (infatti vanno da lui, mica vanno a pentirsi da Giletti tipo Baiardo).

Inoltre c’è il tempo. Un SS paga a caro prezzo il bene più prezioso che chi non sa niente di queste cose pensa che sia l’indipendenza. E invece è la gestione del tempo. Imparare a impiegare le ore, i minuti è un dono meraviglioso che vale da solo tutto il compendio di sacrifici ai quali un SS si sottopone, spesso non per libera scelta. È sempre una questione di S: solitudine, spesa, sesso, stress, sincerità. Un SS sa che questo benedetto tempo, dato che oltre che single è anche stagionato, non va mai sprecato, ma senza assillo (che non inizia per S ma ne ha due comunque).

Prendetevi la briga di osservarlo, un SS, quando si muove nella sua casa, al supermercato, al lavoro, a cena con gli amici. Ha il migliore controllo del tempo: non è soffocato da impegni che non ha scelto; ha una discreta libertà di movimento; regge lo stress test del last minute meglio di chiunque altro.

In più un SS ha sviluppato – perché non proviene da un altro pianeta – una sensibilità in quelle aree della socialità che gli altri tendono a trascurare. Sa come sta l’amico/a che non si fa più sentire dopo che gli ha tritato i coglioni per anni: evidentemente si è riparato sotto lenzuola confortevoli nel primo accampamento disponibile. Sa come funziona il meccanismo della convenienza, quello stesso meccanismo che l’ha portato a pesare il colpo di fulmine e il colpo di genio. Sa perché imboccare la via più difficile non sia dirimente, ma utile per conoscersi: indipendenza e felicità sono strade ben diverse, ma hanno un paio di bivi in comune, basta fermarsi un attimo e scegliere invece di tirare dritto per inerzia.

Ascolta il podcast Non è un paese per single