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Misurare la felicità

Quando ero giovane mi dava felicità correre a perdifiato, mangiare biscotti su un albero, impennare con la moto e stare sdraiato sulla neve di notte a guardare le stelle (che per un siciliano è una specie di bug genetico). Col tempo ho cambiato modelli e gusto per certe situazioni e mi sono chiesto se la nostra idea di felicità si basa su ciò che ci è ontologicamente inaccessibile o difficile da raggiungere.
Goethe diceva che la felicità è una palla a cui corriamo dietro ovunque rotoli e che quando si ferma vogliamo spingere avanti coi piedi.  
Nel mio piccolo credo che il problema della felicità non sia il suo raggiungimento, ma la sua misurazione. Cioè so bene come e quando posso essere felice anche in modo trasversale, ma non so nulla di come stilare una classifica dei miei istanti felici. La foto di un bel momento, tipo un matrimonio o la conquista di un risultato sportivo o il primo giorno di scuola o l’ultimo di lavoro, cambia il suo peso emotivo a seconda dei tempi, dell’umore, dei destini che si sono aggrovigliati (la trasfigurazione di momenti incantevoli in incubi è un classico di chi ha vissuto in prima persona e non per procura).

Il problema si risolve togliendo alla felicità il suo presunto valore di ricompensa e considerandola come piacevole e inaspettato effetto collaterale. Una corrente di pensiero di quelli (tipo il sottoscritto) che si aspettano poco e niente dal genere umano punta all’estrema contingenza dei desideri, alla soddisfazione che non intacca il disastro altrui, insomma alla felicità che è tutto tranne che un vantaggio sull’altro. La filosofa e scrittrice albanese Lea Ypi ha stigmatizzato sul Guardian la frase “Don’t worry, be happy” (non preoccuparti, sii felice):

“Non credo che eliminando la preoccupazione resterebbe molto della felicità. Ogni azione richiede un misto di insicurezza, incoerenza del gesto, tentazione del male, incertezza della soddisfazione. Se astraiamo tutto questo dalla ricerca della felicità, è difficile dire che cosa rimane”.

La felicità è destabilizzazione e anarchia. È un paio di ali che ti si sollevano a tradimento senza chiederti il biglietto. È l’uscita di sicurezza che hai identificato quando non ce n’era bisogno. È il sogno non realizzato che, in quanto tale, continuerà ad accenderti sin quando avrai luce. È appartenenza a un branco in cui tu e solo tu sei capo, seguace e persino vittima.
È – scusate la semplificazione estrema – libertà.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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