L’antimafia neomelodica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Sono da sempre favorevole alla cultura pop. Penso che il vero rimedio contro i sepolcri imbiancati non sia cambiare il colore, ma scoperchiarli: e in questo la decontestualizzazione di un messaggio di alto valore civile può essere utile. Ma ci sono dei codici ineludibili da rispettare: una qualunque cosa non è cultura pop, può diventarlo se si riesce a renderla differente da una cosa qualunque.

La partecipazione di Gigi D’Alessio al dibattito nel chiostro della questura di Palermo, nel giorno delle commemorazioni per la strage di via d’Amelio, suscita qualche perplessità proprio perché è fuori da quei codici. Perché se è vero che pur di veicolare un’idea di antimafia moderna è lecito ricorrere a personaggi simbolo, è pur vero che l’idea ci deve essere a priori e deve essere chiara. Soprattutto nel sancta sanctorum dell’investigazione e nel giorno in cui ci si stringe sul ciglio del cratere di Palermo.

D’Alessio era stato invitato in quanto esponente dei cosiddetti neomelodici, dopo il caso di un suo meno noto collega che in tv aveva detto che Falcone e Borsellino se l’erano cercata. Eppure non ha parlato né di mafia, né della strage Borsellino, né di legalità, non ha nemmeno condannato l’improvvido neomelodico di cui sopra. Ha attirato fan, certo: ma basta il “successo di pubblico” per definire l’evento come una missione compiuta?

La ricerca di nuovi modelli non deve far perdere di vista l’obiettivo che è quello di spiegare ai giovani cosa non gli è stato spiegato. O peggio ancora, cosa gli è stato raccontato male, magari con narrazioni storte, deviate. E per fare questo non credo che il personaggio migliore sia uno che qualche mese fa ha dichiarato: “Alla camorra ho regalato un sacco di canzoni”.

La cultura pop è un valore aggiunto non è il “liberi tutti” delle idee.

Scatto d’accusa

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Se anche si trattasse di spie, ben vengano. La nuova campagna del Comune – ultimo atto che sa anche di disperazione – per arginare il fenomeno dell’abbandono irregolare dei rifiuti prevede il coinvolgimento di cittadini volontari armati di cellulare e una sorta di inconfessato slogan tipo “lottate e fotografate insieme a noi”. Non sono in grado di abbozzare sull’efficacia di un tale metodo, ma di certo non si può non salutarlo con favore. E non solo per l’ambizioso obiettivo, convincere l’incivile palermitano che la città non è una discarica anche se lui si meriterebbe di viverci da cittadino onorario, ma anche per la felice declinazione dell’uso del mezzo telefonico. Pensate, in mezzo a mille scatti pensati e realizzati a uso social ce ne sarà qualcuno pensato e realizzato a uso sociale. Non saranno solo labbra a cuore, tette, piedi, pornfood e tramonti a giustificare l’esistenza di smartphone che costano quanto un’utilitaria e montano ottiche da telescopio Hubble. Ci sarà anche, e finalmente, l’immagine dell’incivile che abbandona rifiuti dove non dovrebbe e sarà un clic a suo modo glamour nel trasmetterci un’eleganza solo anelata ma possibile, se solo il mondo si affrancasse da quel lestofante. Nessuna tentazione di giustizia sommaria, niente pulsioni delatorie: la munnizza a Palermo non si presta a strumentalizzazioni nella sua endemica essenza trasversale. Lambisce il ricco e il povero allo stesso modo, non ha colore politico al contrario di quella romana (che notoriamente è stata inventata per mettere in crisi la sindaca Raggi e il suo partito). La munnizza di Palermo diventa un’esca per stanare il predatore di igiene, l’accaparratore di sogni altrui… e cos’è una città pulita se non un sogno eterno e lontano?

Mai come oggi a Palermo serve uno scatto. Che sia di fotocamera o di orgoglio, ma scatto sia.

L’ultimo tribunale

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Quando il 4 ottobre 1994 presso Corte d’Assise di Caltanissetta si aprì il primo processo per la strage Borsellino neanche la più pessimista delle Cassandre giudiziarie poteva prevedere il groviglio di procedimenti che ne sarebbero scaturiti per i decenni a seguire. Tra ordini e contrordini, rivelazioni e allucinazioni, gradi di giudizio e tormenti di pregiudizio, di processi sull’eccidio di via d’Amelio se ne sono contati, sino a oggi, dieci. Ma il dato è ovviamente provvisorio, come solo gli errori perduranti promettono di essere. Le ultime indagini sui presunti depistatori – poliziotti o magistrati che siano – arrivano talmente in ritardo da far sì che il sentimento prevalente dinanzi a questo accatastarsi di verità sia quello della delusione.     

Per questo, maneggiando la storia dei misteri delle stragi del ’92 abbiamo scelto di inventarci una sorta di tribunale di fantasia. E di raccontarla, quella storia, nel posto che secondo noi, meglio di altri, poteva contenerla con i suoi drammi, le sue deviazioni, i suoi risvolti grotteschi, le sue fiamme raggelanti. Abbiamo scelto un teatro, un teatro lirico, il più grande d’Italia: il Teatro Massimo di Palermo.

L’opera-inchiesta scritta insieme con Salvo Palazzolo – s’intitola “I traditori” ed è recitata da Gigi Borruso, con le musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri e la regia di Alberto Cavallotti – è un’indagine sul palcoscenico che parte da un presupposto: nel luogo dell’arte, cioè nel tempio in cui si celebra il primato della fantasia, si può trovare la libertà che serve per provare a evadere dalle prigioni delle versioni preconfezionate. Spesso la verità del dubbio è più utile della certezza di uno slogan. E i dubbi nelle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio non mancano. A cominciare da ciò che accade nell’immediatezza degli eccidi.

Passano poche ore dall’attentato in cui è morto Paolo Borsellino con gli agenti della scorta, e l’agenzia Ansa batte un take in cui c’è scritto che “fonti della polizia di Stato” sanno che l’autobomba è una Fiat di piccole dimensioni: “Una 600, o una Panda, o una 126”. Solo che ancora il blocco motore della macchina imbottita con novanta chili di tritolo non è stato recuperato (il ritrovamento avverrà l’indomani). E soprattutto ci vorrà un esperto della Fiat, fatto arrivare apposta dallo stabilimento di Termini Imerese, per capire che quell’ammasso di ferraglie appartiene proprio a una Fiat 126.  

I dubbi e le certezze. I primi ci accompagnano da ventisette anni, le seconde sono subito brandite da chi, come l’allora capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, sa troppo e non si capisce perché. Come fa la polizia di La Barbera ad avere identificato in anticipo il tipo di auto usato per la strage quando l’unica traccia che resta di quel veicolo è un blocco motore che non è stato ancora recuperato?   

La Fiat 126 è importante nella nostra ricostruzione poiché è su di essa che poggia gran parte dell’impalcatura del depistaggio grazie al sistema dei falsi pentiti. Poco meno di un mese dopo la strage di via D’Amelio, una nota riservata dei servizi segreti riferisce alla direzione del Sisde che “la Polizia avrebbe acquisito significativi elementi informativi per l’identificazione degli autori del furto dell’auto, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Ancora lo stridere di dubbi e certezze.  Se i falsi pentiti Salvatore Candura ed Enzo Scarantino ancora non sono stati arruolati, come fanno la polizia e il Sisde a sapere dove è stata rubata la 126? E soprattutto com’è possibile che Candura e Scarantino siano a conoscenza del fatto che la macchina è stata prelevata dalle parti di via Oreto a Palermo, circostanza vera, se loro in realtà non c’entrano nulla con la strage?

Tenete conto che i dettagli che smaschereranno l’impostura del depistaggio, li svelerà il vero autore del furto della macchina, Gaspare Spatuzza. Ma lo farà solo quindici anni dopo l’attentato, nel 2008. Fino ad allora il circo dei veggenti metterà in scena, indisturbato, quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito uno dei più gravi depistaggi della storia italiana. Ufficialmente, almeno sino alle latitudini giudiziarie a noi note, nessun magistrato tra quelli che hanno gestito le prime dichiarazioni di Candura e Scarantino (con l’eccezione di Ilda Boccassini), ha mai avuto sentore di imbroglio. La macchina della menzogna ha visto girare i suoi ingranaggi senza che mai qualcuno muovesse un dito. Oggi, ventisette anni dopo il boato, sappiamo che Scarantino, finto pentito inaffidabile per indole, per storia criminale, per physique du rôle, sta accusando del suo vergognoso indottrinamento solo un gruppuscolo di poliziotti a processo, come se i magistrati a quei tempi non ci fossero o stessero tutti a bocca aperta a tracannarsi l’intruglio allucinogeno preparato da La Barbera (che è morto da tempo e che quindi incarna l’essenza del colpevole perfetto). Fatto salvo il rito ecumenico dei rimbalzi di competenze giudiziarie che passa la palla da Palermo a Caltanissetta, a Catania, a Messina – in un gioco di fratelli coltelli dove scarseggiano i parenti e abbondano le armi da taglio – e che adesso con una sorpresona attesa ventisette anni vede indagati per calunnia due dei fulgidi pm di allora, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.

Certo se non ci fosse di mezzo una ferita al cuore dell’Italia, quella delle stragi del ’92 sembrerebbe una storia scritta apposta per essere raccontata. Del resto con i colpi di scena al momento giusto, con una galleria di personaggi dalla doppiezza cinematografica, con il succedersi serrato dei nodi della trama, la solidità del plot è assicurata.

Poche ore dopo la morte di Giovanni Falcone, due magistrati della procura di Caltanissetta entrano nella sua stanza al ministero della Giustizia, mettono i sigilli e fanno ciò che nessuno si aspetterebbe: lasciano lì i due computer all’interno dei quali ci sono tutti gli appunti del collega appena assassinato. Manco li degnano di uno sguardo. Ma non basta. Una settimana dopo, gli stessi magistrati tornano in via Arenula e dissequestrano tutto: (o)missione compiuta. Anzi stavolta l’effetto della loro disattenzione è ben più grave, dal momento che lasciano i pc incustoditi, alla mercé di tutti.

Stesso modus operandi a Palermo, dove a casa del magistrato in via Notarbartolo un computer portatile viene ignorato con pervicacia quantomeno sospetta.

Nella nostra messinscena siamo entrati nelle cartelle telematiche di Falcone e abbiamo constatato ciò che purtroppo era annunciato: qualcuno è entrato in quei file già il primo giugno del 1992 ed è tornato nei giorni seguenti, facendo quel che voleva. Tanto i computer non erano più sotto sequestro. Oggi sappiamo che da quei pc sono spariti i diari di Falcone.

Da un colpo di scena all’altro.

Per l’agenda rossa di Paolo Borsellino, un totem dei misteri italiani, la forma d’arte più adeguata sarebbe il balletto. Un balletto tragico magari con uno sfondo di seta tempesta rosso sangue. Perché le figure note e meno note che si aggirano attorno alla borsa che contiene l’agenda sembrano muoversi tutte sotto le direttive di un coreografo: del resto l’inganno è anche arte di movenze. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 poliziotti, carabinieri e funzionari dei servizi segreti mettono le mani sulla borsa, tirandola fuori dalla blindata in fiamme nella quale l’aveva riposta il magistrato, aprendola e rimettendola nel posto da cui l’avevano presa: cioè l’auto in fiamme.

Nella concitazione di quei momenti – lo scenario di via D’Amelio dopo l’esplosione è un inferno di lamiere, carne, fuoco, – due, tre, quattro persone, ognuna col suo distintivo, prendono la borsa dalla blindata che brucia, la aprono, rovistano, e chiamano in causa l’ex magistrato Ayala che era sul luogo: lui smentisce di avere mai avuto un ruolo in questo mistero inanellando però troppe versioni diverse, almeno secondo Fiammetta Borsellino.

Quanti danzatori oscuri nel cratere di Palermo.

La finzione teatrale per raccontare gli infingimenti dietro i quali la verità gioca a nascondino. Tra i mille rivoli in cui questa storia si disperde, un espediente narrativo che può essere utile nella sua trasversalità è quello del cambio di soggettiva. Perché non provarci? Sinora avevamo raccontato la storia da un punto di vista classico: i buoni e le vittime da un lato, gli assassini di Costa nostra dall’altra. Poi abbiamo deciso di cambiare inquadratura, scegliendo di guardare le cose con gli occhi dei mafiosi. Ecco cosa ha detto Gioacchino La Barbera, già componente della task force criminale che si è  occupata di preparare la bomba da piazzare sotto l’autostrada di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia: “Mentre stavamo mettendo da parte l’esplosivo per l’attentato a Falcone, in una villetta di Capaci, notai una persona che non avevo mai visto, un estraneo. Questo tale arrivò con Antonino Troia, il capomafia di Capaci, parlò pure con Raffaele Ganci, il capomafia della Noce. Evidentemente lo conoscevano. Rimase in tutto dieci minuti, un quarto d’ora. Avevamo spostato l’esplosivo sul telone steso sotto la veranda. Non l’ho più vista quella persona. Penso che l’individuo non fosse di Cosa nostra perché poi non lo vidi più”.

Anche Gaspare Spatuzza, il mafioso che 16 anni dopo l’autobomba di via d’Amelio ha raccontato i misteri della strage Borsellino, ha fornito spunti interessanti. Il 18 luglio 1992 sta guidando la Fiat 126 (quella delle preveggenze di La Barbera e sodali) che dovrà essere imbottita di tritolo. “Non so dove dobbiamo andare. Io guido l’auto che mi avevano fatto rubare, la notte fra l’8 e il 9 luglio. Seguo Fifetto Cannella che fa da staffetta”. A un certo punto arriva in un garage dove si deve preparare l’autobomba. “All’interno vedo due uomini, uno è Renzino Tinnirello, della famiglia di Corso dei Mille, che mi viene incontro. L’altro è una persona sulla cinquantina, che io non conosco, perché non l’avevo mai visto. Intanto, arriva anche Ciccio Tagliavia, di Brancaccio, che in quel momento è latitante”. Un altro uomo misterioso sul luogo cruciale in cui si prepara il “botto” e per giunta in presenza di un latitante. “Non era un uomo d’onore, non era un mafioso, non l’avevo mai visto prima”, assicura Spatuzza, che ha dalla sua l’attendibilità di chi ha svelato l’impostura del falso pentito Scarantino.

I dubbi e le certezze. Le domande sulla reale identità di queste sagome misteriose fanno parte di un copione che sembra scritto anche per altri delitti eccellenti, precedenti alle stragi Falcone e Borsellino: Dalla Chiesa e i suoi diari scomparsi, i documenti trafugati a Peppino Impastato, il commissario Cassarà e la sua l’agenda rossa (un’altra agenda rossa!) che si volatilizza, gli appunti sottratti all’agente Agostino dopo che era stato massacrato assieme alla moglie sposata da un mese e incinta da due. La certezza è che c’è stato un metodo del delitto a Palermo.

All’antimafia non sono mai mancati i palcoscenici e anzi, in decenni che poi si sono rivelati cruciali per la credibilità di alcuni suoi protagonisti, si è assistito a una moltiplicazione di essi. Dal corteo alla tv, dallo slogan per strada all’articolo sul giornale militante, dal volontariato alla carriera, il treno movimentista della santa guerra (a parole) contro i boss si è lanciato a tutta velocità contro un obiettivo che si è rivelato sbagliato: dovevano essere i mafiosi, invece è stata una generazione sociale. Anche negli effetti è andata peggio del previsto: poteva essere binario morto, invece è stato deragliamento.

Forse è il destino delle storie storte, generare cantori sbilenchi. Forse c’è una luce piccola e seminascosta nell’abbagliante ribalta dell’eterno protagonismo istituzionale: i temi e i dipinti dei ragazzini che hanno visto “I traditori” con la scuola e che scrivono al teatro – sì al teatro –  come si fa a un familiare, “grazie, ora ne sappiamo di più”. Forse da qui si potrebbe immaginare il nuovo incipit di un’antimafia che è stata frutto da addentare dimenticandosi di dover essere seme.     

Il “tribunale del teatro” con la sua indagine sul palcoscenico non è argine né corrente. Non si sostituisce a nessuno né agisce per delega di alcuno. Brandisce l’unica certezza che si scorge, come terra emersa, da un mare di domande senza risposta. La verità del dubbio.

Questa foto non è solo una foto

L’articolo pubblicato su Repubblica.

Avrebbero potuto non dirsi niente, mettersi l’uno a fianco all’altra, posare immobili davanti alla macchina fotografica. Avrebbero potuto raccontare, muti, la storia di un’inaspettata addizione: drag queen più carabiniere. E scommettere sul risultato: simbolo di tolleranza o precipizio di indecenza?

E invece hanno pure chiacchierato, a margine del Gay Pride palermitano: lui, carabiniere nordico, e lei, drag queen nota come Lady Greg.

La foto che li ritrae insieme a piazza Virgilio, finita nel vortice di una viralità telematica che contagia molto e coinvolge poco, ci tramanda una strana urgenza perché, per dirla con Paul Cézanne, è necessario affrettarsi se si vuole vedere qualcosa, poiché tutto scompare. Nel tritacarne del nuovo sentire comune in cui i brandelli del diverso – per censo, natura, indole, religione, sesso, pensiero, persino intenzione – sono destinati a diventare poltiglia da smaltire, manco da riutilizzare, il tempo gioca un ruolo fondamentale. Bisogna far presto per mettere al riparo i simboli e cristallizzarne il significato. Prima che l’onda del nuovo ordine confonda schiuma e pesci. Prima che il carabiniere e la drag queen siano costretti a ripensarci, magari a scusarsi ciascuno col suo copricapo in mano.

Eppure il costume e l’uniforme, con lo sfondo ordinario di un pomeriggio cittadino caldo e sudista, sarebbero una perfetta narrazione per un sistema sociale che anela alla sicurezza come un naufrago guarda la barca di salvataggio (certo magari questo non è il paragone più opportuno, dati i tempi…). Sembrerebbero esser messi lì apposta per dire: tranquilli, non è questione di colore, persino l’arcobaleno finisce per poggiarsi sul grigio della terra. Invece, siccome Cézanne non era un fesso, è bene conservarlo in fretta, quello scatto, per gustarsi una novella trasversale su ciò che è e ciò che avrebbe potuto essere. Quella foto a Palermo, non una città a caso, la città che accoglie per vocazione in un Paese che respinge per decreto. Accogliere non significa solo aprire un porto o firmare una petizione, bensì aprirsi al confronto: che sia drag queen, ministro o carabiniere poco conta, ciò che importa e che si dovrebbe insegnare in tutte le scuole (compresa la famosa, affollatissima, università del web) è lasciarsi raccontare una storia nel senso più classico. A seconda delle nostre predilezioni, il carabiniere e la drag queen possono rappresentare un esempio di quanto sia potente la calamita della curiosità, oppure essere lo spauracchio per spacciatori di falsità a tutti i livelli. Ciò che è strano, stupefacente, esiste in natura ben prima di Facebook, ergo un’immagine vera e insolita può essere il miglior modo di combattere le realtà drogate. E per dire che nella nostra città accadono cose complesse e semplici al tempo stesso, e non c’è da stupirsi di questa mistura logica in salsa agrodolce perché complessità e semplicità sono categorie soggettive della nostra visione sociale. L’una non esclude l’altra. Come altre categorie meno soggettive: la munnizza e la cultura, il traffico e la libertà di manifestare, lo straniero e il nativo.

Sarà una favola o forse no, di certo c’è una morale. Per dipingere un nuovo mondo non basta requisire tutti i pennelli e pasticciare qualcosa sulla tavolozza davanti alla folla plaudente. Servono piuttosto una sana allergia alla noia e la felicità intellettuale di chi sa che l’unica uguaglianza alberga nelle diversità. Tutte.

Odio per odio

A mia memoria è una delle vicende più difficili da digerire, elaborare, sulla quale cercare di raggranellare i pensieri senza perdere il filo. Perché quella della Sea Watch e della sua capitana Carola Rackete è purtroppo una storia perfetta di odio elargito come se fosse oro, di disfattismo un tanto al chilo e di confusione istituzionale ben orchestrata.

Il braccio di ferro tra un ministro razzista, rappresentante di un’Italia infelice e feroce, e una ragazza fragile negli anni e nel ruolo (proviamo noi tutti a capire cosa significa avere una simile responsabilità, davanti ai denti aguzzi del mondo) è il simbolo di una realtà grottesca in cui tutte le bilance sono state truccate: quelle della giustizia, dei valori, della politica.

La capitana, sfiancata da diciassette giorni di attesa in mare, mica all’hotel delle terme, ha ceduto al più umano degli errori: sbagliare mentendo a se stessa, credendo cioè di avere ragione. E ha consegnato la partita ai suoi avversari, che hanno vinto a tavolino. Da lì, il finale tragicamente scontato: il fiume dell’odio si ingrossa, travolge tutto e tutti, basta ascoltare le parole di quei quattro delinquenti di Lampedusa che hanno vomitato sul comandante Rackete (che qualche coglione maschilista chiama Carola, come se fosse sua sorella) lo schifo dello schifo. Il rischio è che restino solo queste impronte sulla sabbia di un deserto di umanità che ci procurerà vergogna eterna, e spariscano i segni dell’altruismo di chi salva disperati in mare, il coraggio di chi addenta i propri trent’anni e va a lavorare dove nessuno vuole andare, il bel gesto di Sinistra Italiana, Pd e Radicali che, sfidando la derisione di questo Paese di merda, hanno difeso un principio universale salendo e restando sulla Sea Watch (facendo realmente qualcosa di sinistra).

Se resteranno solo i tweet del ministro razzista e le urla dei quattro derelitti sgrammaticati di Lampedusa (un’isola che non li merita) la storia dovrà essere raccontata in un altro modo. C’era una volta la terra della civiltà che, rapinata dei suoi valori e turlupinata dai signori dell’ignoranza, credette di diventare culla di un nuovo diritto e invece morì nella solitudine dell’odio.      

L’amore insano per l’auto

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Ogni tanto a Palermo salta fuori l’emergenza traffico. Un’emergenza che non c’è. Una mistificazione o meglio un’invenzione dato che l’emergenza si sostanzia di circostanze impreviste e che il traffico è in realtà il tessuto connettivo della città, prevedibile e inesorabile come il florilegio di soluzioni che da decenni condisce ogni discussione sul tema. Più Ztl, più isole pedonali, più parcheggi, più semafori intelligenti, più targhe alterne, più mezzi pubblici, più multe, più telecamere e via addizionando. Il risultato è sempre lo stesso, un esercizio di retorica attorno al nodo del problema che riguarda il rapporto perverso tra il palermitano e l’automobile.

Gli ultimi dati, presentati dall’assessore Catania, ci dicono che otto cittadini su dieci si muovono in macchina (o in moto) per andare al lavoro, cioè ritengono che il vero cambiamento nella vivibilità di Palermo sia quello che devono affrontare gli altri. È un problema culturale, inutile girarci attorno. E ci sono le prove.

Basta analizzare la fenomenologia del parcheggio. Se il luogo da raggiungere è notoriamente una zona in cui posteggiare è impossibile, il palermitano non viene sfiorato dall’idea di mollare l’auto a casa e anzi parte lancia in resta alla conquista dello spazio negato. Un po’ come accade con l’immondizia abbandonata per strada, è tutta questione di chi fa il primo passo. Come il “sacchetto zero” figlia rapidamente (tipo abnorme riproduzione cellulare) una montagna di rifiuti, così la prima automobile abbandonata ad esempio al centro di una piazza, scatena una geometria complessa di lamiere in cui l’unico spazio vitale garantito è quello per il posteggiatore abusivo che si occupa di impilare i mezzi. Certe cose non si improvvisano, ci vogliono formazione, esperienza, caparbietà: cultura appunto.

Anche nello sguardo sdegnato nei confronti degli autobus c’è qualcosa di atavico, il marchio dell’indole. Secondo il mantra del palermitano automunito, il bus non si usa perché è lento e sporco. Lento e sporco di suo, secondo una logica blindata: non può esistere un bus veloce e pulito, è l’assioma. Il solo ammettere una lontanissima possibilità che da qualche parte, in una remota galassia dell’Amat, possa esistere un 101 nuovo nuovo rischierebbe di innescare un buco spazio-temporale dagli effetti catastrofici aprendo una sorta di stargate su un mondo terrificante dove quattro passi a piedi non uccidono nessuno e i divieti di sosta non sono un’offesa personale. No, meglio rimanere saldamente ancorati alla realtà e diffidare delle sirene della controinformazione secondo le quali se un autobus va a passo d’uomo forse la colpa è degli automobilisti che invadono le corsie preferenziali, e se magari è pure sporco probabilmente ci sarà chi lo usa come una pattumiera (oltre a chi non lo pulisce).

Ma l’effetto più interessante e recente che promana da questo fermento culturale è quello che riguarda i rapporti con le bici e i monopattini elettrici. Soprattutto i monopattini, la cui regolamentazione ha ancora molte falle ma i cui vantaggi in termini di eco-sostenibilità sono innegabili. Il palermitano odia i monopattini per motivi che si generano alla bisogna. Se sono in strada li odia perché sono lenti. Se sono sul marciapiede li odia perché sono veloci. Se sono sulle strisce, magari portati a spinta, li odia perché non sono ancora regolamentati e – lo giuro, è esperienza personale – non si ferma con l’auto, anzi tira dritto: come se in mancanza di una norma precisa ci fosse la licenza di uccidere.

“Lei non può circolare!”, mi ha urlato l’altro giorno una signora su un Suv mentre, distraendosi un attimo dal cellulare che aveva in mano, cercava di arrotarmi sulle strisce. Ero colpevole di monopattino abusivo. Il colpevole ideale per una palermitana ideale. 

Fottitene, adesso guido io

L’ho già scritto: ci sono viaggi che non si progettano, ma ti chiamano. Sono idee che vengono fuori nel bel mezzo di un inutile pomeriggio invernale, o che esplodono ascoltando i racconti di qualcuno che conosci appena, o ancora che germogliano, senza fretta, lungo i viali di un’esistenza.

A un viaggio chiediamo sempre qualcosa: uno schiaffo, una coccola, un sussurro, un lieto fine, una sorpresa. Chiediamo di farci spegnere il cervello o di accendere i sensi. Ci sono molti modi di ritrovarsi senza essersi mai persi: viaggiare è quello più entusiasmante e per certi versi anche il più pericoloso.

Quest’estate farò il Cammino del Nord, 835 chilometri a piedi con lo zaino in spalla da Irùn a Compostela, ma non lo farò sposando l’ortodossia religiosa che anima molti pellegrini. Lo farò con me stesso, immagino serenamente, scommettendo un euro sul mio senso del limite e sperando di non perdere la monetina. Potrei dirvi dell’allenamento che, nonostante quel che sta scritto su molte guide, è fondamentale per saper usare insieme gambe e testa (accoppiata complicatissima). O di uno zaino dove devi stipare al massimo otto chili di vita per i 35 giorni che seguiranno. O ancora dell’ago e filo che devi avere il coraggio di usare per eliminare le vesciche sotto i piedi.    

E invece vi dico cosa può passare per la testa di uno che cammina sotto il sole, magari in salita, per cinque, sei, sette ore al giorno.

Ci sono due tipi di persone, quelli che amano raccontarsi una storia e quelli che si raccontano storie. I primi differiscono dai secondi per un dettaglio che riguarda l’autostima: godono di quello che fanno, anche quando nuotano controcorrente o quando non hanno il minimo consenso garantito. I primi viaggiano liberi, i secondi non sono liberi neanche quando vanno al cesso. Se vi è mai capitato di ribellarvi a voi stessi, capite di cosa sto parlando. Nel mio piccolo ho sempre mantenuto la democraticissima anarchia di alzarmi una mattina, dire “questo non sono io” e agire di conseguenza. Senza bizantinismi, ma col buon senso dello scriteriato consapevole. Risultati non garantiti, of course.

Un viaggio, estremo o meno (ho una pericolosa propensione…), è un modo delicato di afferrare la nostra narrazione per i capelli e dirle in un orecchio: fottitene del mondo, adesso guido io. Per poi buttarsi a capofitto nella prima trazzera che ti porti lontana dal ruolo che ti sei costruito, dall’immagine che hai difeso, dalle belve del circo di cui tu dovresti essere domatore.

Una scommessa.

Se la accetti corri il rischio di valorizzare la differenza tra chi si professa e chi è, tra chi vive e chi vivacchia, tra chi ammira la luna e chi si ferma al dito (che potrebbe utilizzare comunque meglio). Il mondo è pieno di pigri che, credendosi potenti o furbi, accettano di farsi scrivere la storia da altri, che a loro volta si sentono potenti o furbi. La storia scritta per procura.

Mettiamola così, il viaggio che ti chiama è un buon modo per allontanarsi dai ghostwriter delle emozioni e un pessimo modo di seminare consensi alla moda. Uscirne sano e salvo è un dettaglio.

La storia che cambia la storia

Ho una vera passione per la Seconda guerra mondiale e in particolare per la storia e i luoghi dello sbarco in Normandia di cui oggi si celebra il settantacinquesimo anniversario.  Sono stato tre volte a Omaha Beach, a Pointe du Hoc, a Colleville-sur-Mer, dove c’è l’immenso cimitero americano delle vittime dello sbarco.

E per tre volte ho vissuto quei momenti drammatici eppure entusiasmanti in cui le forze canadesi, australiane, belghe, cecoslovacche, francesi, greche, olandesi, neozelandesi, norvegesi e polacche, oltre a quelle britanniche e americane, muovevano le loro pedine sullo scacchiere della storia. Una storia che riavvolgeva il suo filo in quei pochi giorni.

Mi ha affascinato la strategia militare, coi suoi errori ma anche con i suoi leggendari trucchi. Primo tra tutti la creazione da parte degli alleati di  un intero esercito finto, per ingannare i tedeschi sul luogo in cui sarebbe avvenuto lo sbarco. Il FUSAG, First United States Army Group, fu affidato a un comandante vero, il generale George Patton, ed era formato da carri armati gonfiabili e aerei di legno, scambiati dai ricognitori tedeschi in volo sui campi militari britannici per veri armamenti. In tutti questi anni mi sono chiesto come si sentisse Patton (un militare di fama) a comandare una truffa di fantocci e mi sono risposto che il coraggio di un uomo sta tutto nel suo senso di responsabilità, anche nell’accettare di combattere con una spada di cartone, se serve.

Ho trascorso interi pomeriggi a Pointe du Hoc, in cima alla falesia che i ranger dovettero scalare sotto le mitragliate per espugnare una roccaforte della difesa tedesca. A mani nude, con chiodi e corde un manipolo di uomini affrontarono dal mare lo strapiombo di trenta metri. E io, da vecchio arrampicatore, non ho capito ancora da dove trassero quella forza. Ma soprattutto dove trovarono la serena ferocia con la quale, una volta giunti in cima, diedero fuoco ai bunker nei quali si erano asserragliati gli ultimi soldati tedeschi.

Insomma quei luoghi sono diventati un po’ anche i miei luoghi. Se non ci siete stati, programmate una vacanza da quelle parti: la storia non la si studia soltanto, la si può anche respirare. E in certi casi dà dipendenza.

In difesa della parolaccia in politica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Gianfranco Miccichè nella sua scoppiettante gestione delle antipatie ha riportato sulle pagine dei giornali un’antica pratica della politica, quella del turpiloquio. Già vent’anni fa Umberto Eco, in una sua celebre “Bustina di Minerva” aveva rivendicato “il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno”. Guarda caso, la stessa parolaccia usata dal presidente dell’Ars contro il suo bersaglio preferito, il ministro dell’Interno Salvini. Oggi molto è cambiato, soprattutto nella gestione dei messaggi pubblici. I social network hanno tracciato la nuova via: non importa cosa dici, ma come lo dici; non serve il concetto, ma la confezione giusta.

La prudenza di un tempo, quando il turpiloquio usato con acume poteva regalare effetti esilaranti con risultati efficaci, è stata sepolta sotto l’esigenza di colpire e affondare il prima possibile. Nell’èra della rabbia cieca la parolaccia è un mezzo arcaico per farsi largo nelle sabbie mobili della ragion perduta. È per questo che, se ci si muove senza i paraocchi del neo-bigottismo, il turpiloquio può essere visto come una sorta di antidoto contro il nullismo della menzogna, contro il mondo parallelo degli imbroglioni tutti clic e claque.

Lo “stronzo” al nemico politico non è certo un esempio di eleganza, ma ci costringe ad ammettere che c’è volgarità e volgarità. Negli ultimi dieci anni le nostre capacità espressive, il potere combinatorio della sintassi, il fascino della metafora, la carica creativa e non violenta della nostra aggressività sono state piallate da una nuova forma di linguaggio che punta a verità bastarde. Internet è il luogo dove non ci sono livelli, ma un amalgama che avvolge e corrompe senza apparente possibilità di scampo. La volgarità di una battuta analogica – cioè pronunciata da un essere senziente e consapevole, non da un bot o dal fake di qualcuno –  ha almeno il vantaggio di suonare come uno schiocco di dita davanti agli incantatori del web. Poiché in un onesto rapporto causa-effetto mette di fronte i contendenti tarandone la sensibilità, l’aderenza alla realtà. Ecco la differenza tra tipi di volgarità. C’è quella che impatta e quella che si traveste e si insinua. La prima era celebrata da Churchill senza troppe metafore: “Chi parla male di me alle mie spalle viene contemplato dal mio culo”. La seconda è un allarme sociale poiché ha a che fare col culto della menzogna. E lì non basta il più sonoro dei vaffanculo. 

Il Martini delle emozioni

Seguo da ieri le dirette di Radio Capital in cui si parla di Vittorio Zucconi e si celebra con garbo la sua memoria. Sono sempre stato un suo appassionato lettore e, da vero maniaco della radio, un suo ascoltatore sfegatato. Il senso di mancanza, in generale, è una sensazione che ho sempre accarezzato con indecente interesse: perché – lo sappiamo – è nella malinconia dell’assenza che troviamo il senso di molte cose che normalmente tendono a sfuggirci. Insomma da ciò che non c’è (più) ricaviamo il significato di ciò che ci piacerebbe avere ma che non ci curiamo di avere.

Così, nel rimpiangere uno sconosciuto così familiare, ho riannodato molti fili: il tepore di serate familiari con la radio accesa e il vino nel bicchiere; i ritagli di un suo articolo degli anni Ottanta  appeso al muro della mia stanza; il viaggio in moto ai confini del mondo con i suoi podcast a diluire lingue, costumi e climi a me magicamente estranei; le discussioni al giornale sulle acrobazie di certi suoi attacchi; la vita oltre le parole scritte e viceversa.

C’è nella morte un mistero insondabile che non è biologico né religioso né filosofico, ma egoistico. Perché ci sono dipartite che riescono a darti quel disturbo sottile che è dolore, malinconia e gioia tutti insieme? Perché la fine di una vita altrui rimbalza nella tua che continua, magari per forza di inerzia, tra mille scossoni?

La verità è che probabilmente non c’è nulla di definitivo se ci si trova dinanzi a qualcuno che vi racconta o vi chiede di raccontargli una storia (cvd). Il divenire è principalmente un esercizio di libera e inebriante malinconia. E chi non lo capisce è un troll delle emozioni e come tale va tenuto a distanza con la canna.

Insomma il senso della vita applicato alla morte è il cocktail Martini delle consolazioni: forte e inebriante, ma attenzione ad abusarne.