Finire ovvero ricominciare

Dalle parti di Santiago.

Eccomi alla fine. Anzi rieccomi in un’altra fine. Perché di finali come questi ne ho vissuti un bel po’ negli ultimi anni. L’arrivo di un Cammino è l’esatto contrario della fine di un viaggio: non fai consuntivi, ma al contrario guardi (ancora) avanti perché non sei andato a cercare qualcosa ma, almeno nel mio caso, qualcosa ti ha raggiunto. Il percorso che farai adesso sarà di certo diverso, nuovo rispetto a quello fatto finora.

Un Cammino cambia. Cambia tutti, persino quelli più refrattari ai cambiamenti o quelli scafati, e parlo per cognizione di causa. Per questo l’arrivo è una partenza: c’è sempre una fulminazione che ti ha preso strada facendo e che, insinuandosi nelle pieghe della tua inerzia di uomo abitudinario, darà i suoi frutti mesi, anni dopo. 
So della vita poco, perlopiù recensisco quello che mi gira intorno, e manco troppo perché spesso mi rompo i coglioni e giro i tacchi (l’ho fatto con giornali, cristiani, istituzioni, compagnie sentimentali, finti amici eccetera).  
Eppure ogni volta che ho finito un Cammino ho combinato qualcosa di utile per me stesso. In fondo siamo fatti di un 90 per cento di decisioni non prese, quindi basta prenderne un paio in più per poter dichiarare a se stessi di essersi dati una mossa. 

Un pensiero ricorrente che dà frutti inaspettati, passo dopo passo, è quello che investe il rapporto con gli altri, nelle sue infinite declinazioni: è innegabile che un Cammino rappresenti uno stress-test in tal senso. L’idea consolidata è che non ci aspetta nessuno (per le implicazioni e le eccezioni vi rimando a questo post di qualche anno fa). Il che non significa affatto che la solitudine sia la panacea: io odio la solitudine perché è uno stato d’animo che induce depressione, isolamento, masochismo. Al contrario – ma non è tema nuovo per chi segue queste pagine – il muoversi da solisti spinge a guardare l’altro, a dargli l’attenzione che merita, a coltivare con passione la positività che è pianta siccagna, e che vive con pochissima acqua fuori dalle staccionate del Mulino Bianco. 
Credo che imparare a stare da soli sia qualcosa di molto simile a fare un corso di primo soccorso, solo che il paziente siamo noi. Che poi diciamolo stare da soli è un eccitante trampolino verso la socialità di ritorno, anzi del ritorno. Solo prendendo una rincorsa si salta più lontano: il mio settembre è generalmente il mese più sociale dell’anno ;) 

Tutto questo per dirvi che in questo Cammino Francese è andata bene nonostante i mesi precedenti siano stati bruttini (e bruttini è un eufemismo, come i miei amici più cari sanno bene). Sono ideologicamente contrario ai panni sporchi lavati malamente in pubblico quindi su questo argomento metto un punto e a capo. Come si fa in un Cammino, punto e a capo. Ci vuole sempre tempo per ricominciare, e ricominciare è il principio dell’arte e della natura. La prima dipende da noi, l’altra dal nostro Principale.
Ecco, un Cammino serve a rendere compatibili queste visioni, ci aiuta a esplorare la lunga ferita della nostra felicità –  una felicità che non ha sanguinato è un imbroglio – ci fa ridere davanti al nulla e commuovere persino davanti al qualunque. E ci induce a godere di tutto ciò che, immenso, ci sta nel mezzo. 

Grazie di avermi letto.

21 – fine

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Cammino, un pretesto di felicità/2

La seconda parte del podcast sul Cammino (del Nord) come pretesto per una storia di emozioni in salita e fantasie in discesa. O viceversa, se preferite.

La prima parte del podcast la trovate qui.

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Cammino, un pretesto di felicità/2
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Cammino, un pretesto di felicità/1

Non è una frase a effetto, ma per scrivere questo podcast ci ho messo anni. Anni di passi (molti dei quali falsi), di fatica (e quella fisica è la meno importante), di stupore (il vero motore di ogni felice intuizione). Il pretesto è il Cammino del Nord, 830 chilometri con uno zaino in spalla e nient’altro, ma la realtà sono molti altri cammini ed esplorazioni fatte nel tempo e nei tempi.
Questa non è una guida, ma un racconto, una storia di emozioni in salita e fantasie in discesa, una (a volte pericolosa) concatenazione di pensieri: pensieri che ci prendono quando ci rendiamo conto che non c’è limite di età per imparare davvero a sbagliare da soli. Soprattutto per afferrare finalmente la consapevolezza che non è mai troppo tardi per mollare tutto ed essere felici.

Il podcast è diviso in due parti. Questa è la prima. La seconda la trovate qui.

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Cammino, un pretesto di felicità/1
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Cazzi miei reloaded

Quando (ri)apro su queste pagine il settore cazzi miei è segno che cerco/trovo relax. Se un tempo la cronaca ossessionava solo i giornalisti e i lettori compulsivi dei giornali (benedetti!), oggi l’attualità è un divenire che spesso dribbla le notizie e investe tutta la nostra esistenza. Ecco, il mio relax è lontano dalla cronaca, per assioma. È generalmente fatica: che sia montagna o pianura, che sia neve o acqua, che sia polvere o fango, che siano ruote o quadricipiti, io per spegnere il cervello devo azionare le gambe.
Usualmente, in questo periodo, cammino.

Dopo la pausa forzata della pandemia e dopo il bell’assaggio di Francigena dello scorso anno, indimenticabile per vari motivi – la maggior parte dei quali afferiscono alla subdirectory dei cazzi miei, quella protetta da password – oggi torno sulla Francigena italiana in un tratto indefinito tra Mortara e Sarzana. Scrivo indefinito perché non ho ancora chiare le mie intenzioni: può darsi che decida di fare delle deviazioni, può darsi che decida di andare oltre. E poi c’è una caviglia destra che vorrebbe tradirmi tipo Calenda col Pd ma con effetti ben più seccanti (quanto sposta Calenda e quanto sposta la mia caviglia non è paragone da fare, eh). Insomma non è il Cammino del Nord con la sua sacrale successione di tappe e obiettivi, quasi una gara di sopravvivenza con se stessi.

Tornando alle motivazioni, che sono l’argomento di discussione preferito quando immancabilmente ti trovi a chiacchierare con estranei di queste insane passioni, non sono mai fuggito neanche quando c’era davvero qualcosa o qualcuno da cui scappare. Molte persone, soprattutto neofiti, che si mettono in cammino cercano di allontanarsi fisicamente da ciò che in fondo è dentro di loro. Io al contrario non ho mai cercato altrove cause e rimedi che stanno negli spazi angusti del mio cervello, del mio cuore o di qualche altro organo meno funzionale e più rompicoglioni: e non è un pregio, anzi.

Perché non dimentichiamo che la versione corrente di chi ha un problema è tutta nella legge delle tre A:
1 Affidarsi totalmente agli altri.
2 Abbracciare la religione del dolore ortodosso.
3 Aspettare che un rimedio arrivi dall’alto. Quindi sfruttare il principio dei vasi comunicanti applicati alla rottura di coglioni: dove la concentrazione è minore se ne può riversare…
Invece il sottoscritto paradossalmente quando ha problemi si chiude a casa e non ne esce fin quando non è presentabile.
Figuriamoci un viaggio.
In viaggio devo essere al cento per cento. Devo succhiare conoscenza da ogni cannuccia dell’ignoto. Devo resistere alla tentazione di essere il solito verboso portatore di noia, di cedere agli stessi vizi, di muovere gli stessi passi, di frantumare le stesse uova nel paniere.

Per questo mi rimetto in cammino anche quest’anno. Con qualche chilo e qualche pensiero in più (la pandemia ci ha segnati in tal senso). Con qualche anno in più, ma su quello non c’è alternativa, a meno che tu non viva in un romanzo di Stephen King. Con qualche responsabilità in più: devo scrivere un paio di cose di lavoro per me cruciali e l’endorfina è da sempre la mia droga preferita.
E con una sola speranza, che è quella di sempre: stupirmi e non perdermi in quelle controindicazioni dell’esperienza che il popolo senziente del pianeta chiama rimpianti e noi solisti della socialità chiamiamo, senza paura, errori.
Gli errori accadono. I viaggi si cercano.

1-continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Francigena for dummies

Non è il Cammino di Santiago, né qualcosa di simile. La Via Francigena è un’altra cosa. Attraversa una diversità orografica più complessa, ma ha un’accoglienza meno curata. È meno affollata (anche se il mio Cammino del Nord è stato perfetto su questo punto ma, si sa, il Cammino del Nord è uno dei più selettivi tra i cammini verso Santiago), ma ha una segnaletica peggiore. È più costosa, ma si mangia infinitamente meglio.

Insomma quest’anno, per via di una combinazione di impegni e di un mood che mi spingeva a diversificare, ho fatto (anzi, sto facendo) un’esperienza sportiva divisa tra alpi occidentali e Dolomiti.
Qui vi dirò di un mini itinerario di otto giorni per quella che chiameremo Via Francigena for dummies: da Aosta a Vercelli, 150 chilometri abbordabili che possono essere un buon banco di prova per cammini più impegnativi, anche in coppia. Dicevo, bastano otto giorni, uno zaino che dovrebbe pesare al massimo il 10 per cento del vostro peso corporeo ma che quasi sempre, ineluttabilmente, si aggira sui dieci chili, e un paio di scarpe scelte con attenzione: io consiglio scarpe da running (tipo Asics Cumulus); non fate porcherie con scarponcini di cuoio alti o peggio ancora con sandali e calze (ne ho visti da paura e sgomento, dio degli alluci assistili!). Scarpe leggere sempre, in estate. E vaselina a tempesta, dappertutto, in ogni piega del vostro corpo, sbizzaritevi, tanto siete in missione per conto del dio dei passi perduti: che è il dio che ci allontana dai sentieri pericolosi e ci guida sulla via per casa, insomma il migliore dio che si possa immaginare.

Le tappe (ma sotto troverete uno schema).

Le guide consigliano una prima tappa unica da Aosta a Châtillon di quasi 28 chilometri. Dimenticatevela. È un massacro di salite e arsura, di muscoli e cervelli cotti (d’estate, of course). Dividetela in due, questa benedetta tappa.

Fate Aosta-Nus e vi ricoverate all’hotel Dujany, un due stelle molto ma molto spartano che però ha un vantaggio ineguagliabile (a Nus!): una piscina mooolto fresca che è una gioia per chi arriva da 15 chilometri di salite e arsura, polvere e sudore. Vi mettete ammollo così l’indomani sarete carichi per i restanti 13 chilometri per Châtillon che sono pieni di salite.

Châtillon- Verres è abbastanza dura, se c’è caldo.

A Verres una tappa culinaria è senz’altro Tanpi (dove fanno degli gnocchi rossi e una cacio e pepe notevoli).   

La tappa per Pont Saint Martin è invece facile, ma c’è un’occasione imperdibile: mettere Bard tra le mete preferite. Ci passate un po’ stanchi e sfatti. Ma raggiunto il vostro alloggio, quattro-cinque chilometri più avanti, fate di tutto per tornare per sera (a Pont Saint Martin non c’è un tubo). Noi abbiamo osato alla grande: biciclette, luci frontali e via pedalare, all’andata in salita con quel che ne consegue, al ritorno segno della croce e affidamento al doping di entusiasmo.

A Bard fate due cose, o tre: un aperitivo in un piccolo bar che ha i tavoli quasi a strapiombo sulla stradina del centro storico; una foto sul ponte al tramonto; e una cena (per questa dipende dai gusti e dalla voglia di spendere) scegliendo possibilmente un pinot nero.

La tappa per Ivrea è più lunga e ha una serie di saliscendi da mettere nel conto. A Ivrea, almeno nella nostra esperienza agostana, c’è una strana percezione della temperatura: nei B&B e nei ristoranti (anche in quelli più quotati) è difficile trovare aria condizionata, persino con 35 gradi. Forse fanno incetta di calore per l’inverno. Comunque qui c’è un bel ristorante da visitare, sperando che abbiano migliorato il servizio, per via di una strana sindrome del ferragosto di cui abbiamo già parlato.   

Da Ivrea  a Viverone è una lunga sgroppata ciottolosa che parte da un netto di 20 chilometri, ma a seconda di quale struttura avete scelto per il pernottamento può riservare scomode sorprese. Ad esempio chi scrive è finito un “pizzo di montagna”, ufficialmente vista lago ma in realtà tre chilometri più in su. Letteralmente più su. Per arrivare all’hotel ho dovuto aggiungere alla dotazione del 20 chilometri altri 3 mila metri: che fatti poi in discesa per rientrare nella via, il mattino dopo, fanno sei chilometri in più. Attenzione, come ho più volte ripetuto, la scelta degli alloggi, la loro collocazione geografica, ha una grande importanza perché tappa dopo tappa raggiungerli e recuperare la via del cammino costa decine di chilometri. Quindi occhio, quando scegliete a freddo, magari d’inverno al comodo delle vostre poltrone…

Le ultime due tappe per Santhià e per Vercelli sono chilometri nelle gambe e quasi null’altro. Man mano che si abbandonano le montagne – esattamente come avviene nel Cammino del Nord – gli scenari si appiattiscono e il paesaggio diventa sempre più simmetrico. Dopo le viti, le risaie. Dopo l’acqua scrosciante dei ru, gli antichi canali di irrigazione, il caldo asfissiante della pianura.

Però arrivare è realizzare, chiudere un cerchio.

Soprattutto è importante tener conto per tutto questo cammino viaggerete sulla strada per le Gallie degli antichi romani: vi emozionerete ad attraversare ponti di duemila anni, o a calpestare le pietre segnate dai carri e dalle ambizioni di popoli che vivevano sotto un’altra luce e che temevano altre ombre.

È un’esperienza che può preparare o disilludere, stimolare o intimorire. Dipende dal passo con cui si incomincia, e non solo in senso fisico.

Camminare, in fondo, è la più azzeccata metafora della vita: non importa tanto andare avanti, ma guardarsi intorno. E possibilmente gioire.

Aosta – Nus 15 km

Nus – Châtillon 14 km

Châtillon – Verres 19 km

Verres – Pont Saint Martin 15 km

Pont Saint Martin – Ivrea 22 km

Ivrea – Viverone 21 km

Viverone – Santhià 17 km

Santhià – Vercelli 27 km

La seconda parte del viaggio qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Lento pede

Qualche settimana fa ho conversato con Donato Didonna sulla mia esperienza nel Cammino del Nord. Qualcuno che non è potuto intervenire all’incontro mi ha chiesto il video. Eccolo qui: è tratto dalla diretta Facebook dell’Associazione Piazzetta Bagnasco di Palermo.

https://www.gerypalazzotto.it/category/cammino-del-nord/

Per chi l’ha visto e per chi non c’era

I filmati di uno smartphone, la musica che viene fuori cazzeggiando col Mac, un po’ di prevedibile nostalgia. Ho raccolto le immagini del mio Cammino del Nord in un video, “per chi l’ha visto e per chi non c’era” (cit).

Buon divertimento. E grazie ancora.

Il mio diario di viaggio è qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

In caso di felicità

Finisterre.

(Mentre scrivo ascolto questa canzone, è giusto che lo sappiate. Se volete mettervi in pari con me, ascoltatela anche voi. Alla fine vi spiego…)

Sono in quella che un tempo molto lontano veniva indicata come la fine del mondo conosciuto. Il posto in cui all’arrivo, i pellegrini devastati da un cammino senza scarpe in gore-tex e materiali in microfibra ma con sandali da set sadomaso e abbigliamento fermentato, venivano ingannati col rogo dei vestiti e il conseguente bagno purificatore nell’oceano. Ci sono voluti secoli di emancipazione dal vincolo di cecità religiosa per ridisegnare il contesto di questo quadretto biblico. A Finisterre arrivavano torme di esseri umani che puzzavano come cadaveri nell’armadio di Andreotti, e la prima esigenza di salute pubblica era disinnescare la bomba biologica che questi poveracci tenevano inconsapevolmente sotto le ascelle. Quindi: bagno nell’oceano freddo (che il freddo, come dicono i nonni, disinfetta), e fuoco contro il male della Puzza Assoluta.

Io, pur essendo un fedele seguace del dio sapone, un bagno oggi me lo volevo fare. Ma, tastata l’acqua che ha una temperatura inconcepibile per un siciliano in agosto, ho scelto di posticipare le mie abluzioni di qualche giorno, in terra natia. Però ho celebrato con adeguata solennità il rito che mi ero promesso l’inverno scorso quando mi era stato inoculato il virus del Cammino del Nord. Mi ero detto: non so se ce la farò, ma se riuscirò io dovrò brindare a me stesso (non lo faccio mai, brindo sempre a qualcosa di relativamente collettivo, per inusitata scaramanzia) nel tramonto di Finisterre.

Ce l’ho fatta, l’ho fatto.

Mentre bevevo la mia 1906, una birra da 6,5 gradi, aromatica quanto basta per non essere una birra qualunque, ascoltavo la canzone che spero starete ascoltando.
E scrivevo appunti sul mio block-notes sgualcito, macchiato di fango e sudore e altre sostanze sulle quali manco una perizia di CSI potrebbe dire la parola definitiva.

Le cose che mi resteranno sono cose semplici e disarmanti, come la goccia sulla pietra, la goccia che abbiamo sottovalutato.

Mi resterà l’immagine dei miei piedi bianchi che stride con le mie gambe arrostite dal sole. Perché la nostra parte nascosta prima o poi emerge sempre, e quando lo fa non si nota altro.

Mi resteranno i comportamenti diametralmente opposti di due albergatori: uno a Llanes che ha tentato di fregarsi i soldi della mia prenotazione e si è rivenduto il posto a qualcun altro (qui il link per evitarlo come la peste); l’altro a Boimorto, una signora premurosa e quasi materna che vedendomi stanco ha preso la sua macchina, mi ha offerto il passaggio per il ristorante più vicino e mi ha intimato “chiama quando finisci, ti vengo a prendere, che sennò mi dormi sul marciapiede” (qui il link di riconoscenza perenne).

Mi resterà la sana abitudine di riposarmi prima di sentirmi stanco. Perché la lucidità la perdi molto prima di quanto pensi: e metteteci tutte le metafore che volete.

Mi resterà il volto di quelli con cui ho condiviso un pezzo di cammino (qualcuno), una chiacchierata (pochi), una sbevazzata o una cena (pochissimi). La stragrande maggioranza non li vedrò più ed è affascinante quanto ci si possa (ri)scoprire con sconosciuti che, in quel momento, condividono con te la cosa più importante: un’esperienza complicata.

Mi resterà la rinnovata convinzione che sacrificare tutto alla gestione di un potere che ti dà luce solo nel palazzo in cui si dipana, che ti fa sentire re in un mondo di nani – e tu ne godi dimenticando che i nani sanno di esserlo mentre tu non sai di essere un gigante farlocco – è una becera banalità: soprattutto se non ti sei mai dato un appuntamento con te stesso, un dato giorno di un dato anno in un dato posto, per affondare i piedi nella sabbia di un tramonto che è tuo e solo tuo. E ve lo dice uno che ha fatto scelte lavorative che potevano sembrare più scriteriate che eroiche. Evidentemente il destino, lui che può, ogni tanto si fa una canna.

Mi resteranno i nomi con cui si annotano sul cellulare i nomi dei compagni occasionali: Matteo Cammino, Francesca Tallone, Christine Mappa…  In fondo è divertente pensare di essere, con leggerezza, ciò di cui abbiamo bisogno nei momenti cruciali: un consiglio, una crema, un’ambizione.

Mi resterà il dubbio di chi cazzo ha posizionato le conchas del Camino in Galicia, le immagini della conchiglia che guida i pellegrini: univoca dappertutto, tranne che in Galicia appunto, con le venature che una volta danno la direzione da prendere e un’altra quella opposta.

Mi resteranno soprattutto i messaggi, qui e altrove, di moltissime persone che in modo pubblico e privato mi hanno spiegato perché questo Cammino è stato anche il loro. E il merito ovviamente non è del sottoscritto, ma di una meravigliosa sensibilità liquida che ci dice che siamo migliori di come noi stessi ci dipingiamo. Non è il miracolo dei social, anche se in quel contenitore questo sortilegio si è amplificato, ma della umana circolazione delle idee. Uno racconta una storia, un altro la legge, gli piace, la storia diventa sua. È la più semplice delle interazioni, quella a prova di ciber-cretino. Ho conservato tutti i messaggi che mi sono arrivati e ritengo che siano il vero patrimonio di questa esperienza, comunque vada la mia vita. Me li rileggerò nei momenti tristi come nei momenti felici.  Anzi soprattutto in quest’ultimi. Sono uno strano tipo di nostalgico barra romantico barra rincoglionito: quando sono giù non mi faccio mai fregare dai ricordi luminosi, sarebbe uno spreco. Io più sono contento e più penso a quando sono stato contento. E adesso ho pensato, per esempio, al Natale. Quando sono contento penso sempre al Natale, è una specie di tic.
Ecco il perché di questa canzone.
Scusate il post un po’ lungo e scusate se per finire vi ricordo qualcosa che sapete già. Ma serve.
Non è mai troppo tardi per mollare tutto e diventare felici.

P.S.
La foto sopra l’ho scattata un anno fa a Copenaghen, mentre passeggiavo pigramente. C’era una pedana, c’era una radio a tutto volume, e c’erano questi ragazzi che ballavano al tramonto. È l’immagine migliore per un titolo tipo: in caso di felicità.   

(29 – fine)

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

La strana sindrome

Da A Brea a Santiago.

È la mia sindrome del Cammino. Non la conoscevo sino a questo pomeriggio quando alle 16,59, con l’ingresso in Praza do Obradoiro dinanzi alla Cattedrale di Santiago, è ufficialmente terminata la “passeggiata” che avevo iniziato a Irun, 830 chilometri di trazzere e montagne a sud-est, alle 9,33 del 25 luglio scorso. Arrivato alla meta ho provato una strana sensazione di stanchezza improvvisa, come se anziché 25 oggi ne avessi percorsi 250 di chilometri. Allora mi sono tolto lo zaino dalle spalle e mi sono coricato per terra. E non ero più stanco, ma ero affamato e non di cibo. Di musica. Dovevo ascoltare una canzone, alla quale non avevo minimamente pensato sino a quel momento: questa canzone, “Purple Rain” di Prince. Ecco la sindrome: ti illude di essere stanco per inocularti un sentimento quando sei fisicamente inerme, sdraiato per terra in mezzo alla strada come un animale randagio anche abbastanza puzzolente: un sentimento di inquieta serenità.
La mia sindrome del Cammino è tutta qui, in questo improvviso senso di tranquillità che sai sarà detonante perché a starsene da soli a faticare per 35 giorni si impara una sola cosa: a pensare. E vi assicuro che non è fanatismo o paranoia, al contrario è la consapevolezza di una lucidità che speri non ti abbandoni più. Sei leggero, ma saldo per terra. Sei pieno di quello che vuoi e non imbottito di quello che devi volere. Hai finalmente una storia tua, tutta tua, che da sola basterà a saziarti per gli anni a venire. A chi vive di creatività, il Cammino del Nord dovrebbe essere prescritto dal medico.

Non sono tutte rose e fiori, però. C’è qualche effetto collaterale che va tenuto sotto controllo. Quando metti un paio di occhiali nuovi, con una correzione migliore, vedi dettagli nitidi che prima ti sfuggivano. Allo stesso modo quando hai l’occasione di isolare le emozioni, capisci che il film è cambiato, la storia appunto.

La faccio breve e magari domani, in un post conclusivo, ci metto un po’ di ideuzze e di consigli per chi vuole anche solo ipotizzare di fare un’esperienza del genere.

Il Cammino non è un elisir di lunga vita, al contrario è fisicamente tosto e ti distrugge legamenti e articolazioni. Ma è una sorta di enzima che catalizza reazioni di cose che abbiamo dentro. Se non le abbiamo, niente. Non ti aiuta a capire cosa finalmente vuoi dalla vita, ti fa un servizio ancora migliore: ti aiuta a capire cosa non vuoi.

P.S.
Non mi sono commosso all’arrivo, ma quando mi sono sdraiato ho sorriso come Matthew Fox (minchia paragone!) nella scena finale di “Lost”. Esausto, coi pensieri lucidi. E non sono quelli

(28 – continua)

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il valzer del moscerino

Da Sobrado ad A Brea.

Doveva essere una tappa lunga e noiosa. Dopo un inizio di stradine di campagna, il Cammino si incanala in un infinito rettilineo senza variazioni di panorama, tra eucalipti e piantagioni di mais. E soprattutto senza bar e luoghi di ristoro. Un nulla verde, ma sempre un nulla (nella foto sopra un contenitore d’acqua lasciato da un’anima pia per gli assetati che verranno). Sarà per questo che, scelti musica e pensieri giusti e armato di bocadillo di mezzo metro come carburante solido, ho cominciato a camminare senza curarmi del panorama. Unico problema la pendenza dei bordi della strada che alla lunga ti massacra le caviglie (infatti la stragrande dei “pellegrini di lunga distanza” cammina sbilenca). Rimedio presto trovato, grazie al mio doc che odia ciò che è dispari e asimmetrico: mezzo chilometro da un lato della carreggiata, mezzo dall’altro.

Solo che in questa estenuante cavalcata solitaria nelle lande del nowhere spagnolo l’attenzione è fatalmente calata, come una sorta di palpebra psicologica, e al 22 chilometro (anzi per precisione al 22,1) ho sbagliato strada in prossimità di un incrocio. Non ce ne erano molti, di incroci. C’erano molti alberi, molte mucche, molto asfalto, moltissime mosche (ne parlo tra breve perché ci vuole una trattazione a parte), ma di incroci ce ne erano davvero pochi.

Eppure sbagliai, preso dagli Steely Dan e da un pensiero natalizio (io quando sono felice penso sempre al Natale che verrà anche, tipo, il primo gennaio). Sbagliai come un cretino.

Finii così a oltrepassare la collina sbagliata, e passare una collina significa salire e soffrire per ore. Risultato: sei chilometri in più rispetto ai 31 e mezzo schedulati. Sei chilometri in più di cui cinque in collina, poiché ho dovuto rifare la collina sbagliata per salire su quella giusta. Insomma un’ora e un quarto di fatica supplementare.

Ma la vera piaga – e ve lo dico col tono della celebre scena del film Johnny Stecchino – è stata quella delle mosche. Mai vista una concentrazione simile, da farsi strada col machete. Saranno le vacche coi loro scarti naturali, saranno i pellegrini con la loro traspirazione innaturale, ma qui in Galizia c’è la Woodstock delle mosche: tutte lì a rotolarsi nel fango, ad accoppiarsi e prolificare come se non ci fosse un domani ronzante, a danzare nude nel sole. A ora di pranzo non potevo fermarmi per sbranare il bocadillo perché temevo che aprendo la bocca avrei ingerito in forma alata più dell’immaginabile. Quindi, seguendo alla lettera il Manuale delle Giovani Marmotte, da buon marmottone navigato, ho adottato due provvedimenti.

Primo, cercare una zona ventilata per disorientare gli odiosi insetti. Secondo, coprirmi quanto più possibile, soprattutto la testa

Il primo espediente è risultato vincente. Ho raggiunto una zona fuori dal percorso – ergo, distanza in più da coprire, fuuurbo! – su una altura. Effettivamente, a rischio di prendermi una polmonite per il ventazzo, sono riuscito a mangiare senza condimenti indesiderati.

Il secondo espediente invece ha innescato un altro mezzo disastro. La mia bandana gialla – minchia gialla, che io ne avevo una bellissima scura usata a Capo Nord e l’ho lasciata a casa perché volevo “colorare” la mia avventura, cretino again – scoraggiava sì le mosche togliendo loro un fertile atterraggio sulla mia capa incolta e sudata (ci penso ora e dico in coro con voi: che schifo!), ma al contempo attirava tipo calamita atomica tutti i moscerini del Patto Atlantico. Dico solo che ho percorso sei chilometri in più per l’errore di cui sopra e non sono le gambe e i piedi ad averne risentito. Ma le braccia e le mani, per quanti insetti ho scacciato e schiacciato. Insomma sono il Bolsonaro dei moscerini, e non mi pento        

P.S.
Domani, se il Padre di tutti i camminatori mobili e immobili vuole, arriverò a Santiago. Dopo 33 giorni, 800 e passa chilometri, un milione e centomila passi e ventisette post qui. Forse mi commuoverò o forse mi farò una risata, forse mi andrò a coricare alle sette del pomeriggio o forse berrò sino a notte fonda, forse tirerò la somma di tutti questi pensieri chilometrici o forse guarderò il cielo e basta, forse la racconterò o forse me la racconterò.
Di sicuro, ma proprio sicuro sicuro, vi ringrazierò. Perché molti di voi mi hanno stupito, e il motivo è una gioia che sarà mia e soltanto mia. Per sempre.

(27 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.