Velocità, cultura o incultura?

L’articolo pubblicato sul Foglio.

“Grazie al telefono la donna moderna elimina la paura delle emergenze e sa che può chiamare il suo medico o, se ce n’è bisogno, la polizia o i pompieri in meno tempo di quello che di solito impiega per chiamare la cameriera”. La nostra storia inizia nel 1905 con questa pubblicità che Claude S. Fischer racconta nel suo “America Calling”. Il telefono come tecnologia dell’emergenza, e soprattutto come elemento tranquillizzante di una famiglia, col padre che nella réclame chiama per rassicurare la moglie o l’uomo d’affari che conferma un appuntamento, irrompe nel tessuto sociale americano. Sullo sfondo il motto lanciato dalla Bell nella sua illustrazione pubblicitaria: “Poche parole e l’ansia scompare”. È l’inizio di una rivoluzione lenta che però riguarda qualcosa veloce, l’interazione mediata dalla tecnologia. Una rivoluzione scientifica e sociale che nasce da un paradosso: la cultura della velocità viene fuori da menti che hanno una sorta di idea anarchica del tempo. Scrive Pekka Himanen nel suo libro “L’etica dell’hacker” (una sorta di Gronchi rosa dell’editoria dato che attualmente le uniche copie disponibili si trovano online, usate, con prezzi oltre i 130 euro, contro i 25 di copertina) che “sin dai tempi del Mit negli anni sessanta, il tipico hacker si alzava dal sonnellino pomeridiano pieno di entusiasmo, iniziava a programmare e lavorava buttandosi a capofitto nei codici fino alle ore piccole del mattino dopo”.

Gli acceleratori delle nostre esistenze nascono pian piano, fuori dall’orario di lavoro, nelle notti nicotiniche di garage californiani. È così che a poco a poco, invenzione dopo invenzione, lo slogan di Benjamin Franklin “il tempo è denaro” diventa il link più resistente tra l’etica protestante e i capisaldi nella new economy.

Sin dall’inizio di questa storia è chiaro che il concetto di rapidità in senso Calviniano, “più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere”, è un fregio letterario che poco o nulla ha a che vedere con la realtà atroce e sconfinata del web. Internet ci ha posto infatti davanti a incrementi numerici inusitati per la tecnologia di appena trent’anni fa: pensate all’impennata di guadagni del boss di un social network come Facebook o alla moltiplicazione dei gangli della Rete con crescite percentuali a quattro cifre. La velocità non è uno spettacolo, ma un gioco in cui chi non corre perde.

Himanen identifica due capisaldi per cercare di spiegare il valore della sollecitudine (di idee, di decisioni, di scommesse): la legge di Clark (Jim, fondatore di Netscape) secondo cui in una accelerazione continua si è costretti a collocare prodotti tecnologici sul mercato sempre più velocemente; e la legge di Moore (Gordon, fondatore di Intel) secondo cui l’efficienza dei microprocessori raddoppia ogni diciotto mesi. Mettendo insieme le due teorie si arriva a una realtà in cui nessuno è disposto ad attendere il futuro per arricchirsi, e l’economia si inchina a questa esigenza consentendo ad alcune aziende che operano nel web di acquistare valore molto prima che il loro progetto abbia una concretizzazione reale ed evidente.

Ci sono vari modi di sfruttare la velocità nell’epoca in cui virtuale e reale si scambiano di posto giocando a nascondino.

Uno è quello di Amazon, la più grande internet company del mondo. Jeff Bezos, oggi l’uomo più ricco del pianeta, era un semplice broker e ha iniziato la sua scalata vendendo libri online, poi si è cimentato con prodotti per la pulizia e accessori domestici, scarpe e vestiti, musica, libri e televisione. Ha acquistato di tutto: dal più grande rivenditore indipendente di pannolini online al Washington Post, dalla maggiore azienda che vende fumetti in rete alla catena di cibi biologici Whole Foods Market. In una consecutio di idee semplici eppure inesplorate, Bezos ha raccolto una serie di esigenze sul suo tappeto volante: non vale vendere solo cose, ma occorre realizzarle; i suoi server non servono solo a distribuire i suoi prodotti, ma è molto conveniente affittarli a terzi; non è solo l’innovazione tecnologica a fare da volano, ma la accurata e spregiudicata gestione dei capitali. E soprattutto, come ha scritto Robinson Meyer su “The Atlantic”, “gli investitori sanno che la sua è un’azienda monopolistica. È per questo che il valore delle sue azioni è così slegato dai profitti. Il mercato riesce a cogliere una realtà che sfugge alle nostre leggi”.

Se esistesse un culto religioso della velocità, Jeff Bezos sarebbe il suo profeta. O il suo angelo nero. Prima di lui la procedura prevalente per affrontare il futuro tecnologico del commercio era quella di costruire una bella pagina web e sbatterci dentro i prodotti da piazzare, in un catalogo più o meno ordinato, più o meno ammiccante, più o meno facile da consultare. La nuova via la indica nel 1999 Michael Saul Dell nel libro “Direct from Dell”: “La velocità, o la compressione del tempo e la distanza all’indietro fino alla catena dell’approvvigionamento e in avanti fino al consumatore, sarà la fonte suprema del vantaggio competitivo. Si usi internet per abbassare il costo di sviluppo dei legami tra produttori e fornitori, e tra produttori e clienti. Ciò renderà possibile ottenere prodotti e servizi da commercializzare più velocemente di quanto sia mai accaduto prima”.

Su questa scia Amazon ripensa l’intero procedimento della vendita, nonché della produzione, brandendo un imperativo che è una delle chiavi di questa storia: i prodotti devono restare il meno possibile nei magazzini giacché nell’agone dell’ipervelocità, peggio della lentezza c’è solo l’immobilità. Tutto ciò ha un prezzo, che non è quello stampato sulla confezione del prodotto, ma quello che riguarda il lavoro dei dipendenti. Qualche anno fa un’inchiesta del “New York Times” ha messo in campo un “esperimento per capire quanto Bezos può ‘spingere’ sugli impiegati per soddisfare le sue sempre più grandi ambizioni”. Nell’articolo, un ampio campionario di testimonianze: c’è chi giura di aver visto scoppiare in lacrime il collega sfinito e chi ricorda di aver lavorato per quattro giorni senza dormire, chi parla di ambulanze parcheggiate fuori dai magazzini pronte a portare via chi cede, e chi testimonia di lavoratori cacciati via solo perché non reggevano il ritmo delle 80 ore settimanali. Il reportage, contestato da Bezos al punto da scrivere che “in una società come quella descritta dal ‘New York Times’ io per primo non ci lavorerei”, ha un valore incontrovertibile: mettere a nudo il cuore del problema, cioè l’ossessione del cliente.

Tutto è stratosfericamente veloce nel mondo fatato di Amazon, cioè nel mondo visto da chi decide di comprare con un clic: la guida alla scelta, l’acquisto con un semplice sfioramento di dito cioè il paradiso (o l’inferno?) per ha il demone dell’acquisto compulsivo, il servizio clienti che ti richiama appena hai o pensi di avere un problema, il meccanismo dei resi e dei rimborsi. E soprattutto la consegna, tra due e cinque giorni lavorativi, di articoli che spesso arrivano dagli antipodi con una rapidità che sfida le leggi della fisica.

C’è un altro capitolo importante nella nostra storia e riguarda proprio il modo di raccontare una storia. Cioè come la cultura della velocità ha condizionato i metodi di narrazione televisiva. Le nuove serie tv in streaming sono forse il simbolo più evidente del cambiamento per accelerazione. La differenza è due termini: cliffhanger e binge-watching. Nelle serie tv dell’era pre-streaming, cioè quelle in cui un episodio veniva rilasciato ogni settimana si usavano i cliffhanger (dall’inglese cliff, dirupo). Alla fine di un episodio doveva accadere qualcosa che lasciava appesa la storia al “dirupo”: un personaggio in pericolo, un tradimento cruciale. Tutto finiva prima che si scoprisse l’esito dell’azione e lo spettatore aveva una settimana di tempo per interrogarsi, per condividere con gli amici i suoi sospetti, insomma per mantenere vivo l’interesse per la serie.

Con l’avvento di produzioni come quelle di Netflix, in cui gli episodi di una serie vengono rilasciati tutti insieme, entra in gioco il binge-watching (dall’inglese binge, abbuffata). Se cambia il modo in cui un’opera viene guardata, goduta, ingurgitata, deve necessariamente cambiare il modo in cui viene scritta. E allora il flusso ipnotico della narrazione deve catturare lo spettatore senza bisogno di tormentoni che durino mesi. I primi episodi non necessitano di effetti speciali o colpi bassi che inchiodino alla poltrona per una settimana, basta che abbiano ritmo e appeal per riempire un weekend o una vacanza. Nel segno della velocità, ovviamente. Non a caso l’opzione “guarda il prossimo episodio” è di default su Netflix. Scoprire il colpevole diventa una gara social con gli amici, vince chi arriva primo, chi dorme meno, chi viaggia come una saetta nel tempo in cui anche il tempo libero si espande per inerzia. Spesso si guarda la serie come se fosse un videogame in cui c’è un livello successivo da sbloccare, o una strada dal panorama tranquillizzante in cui non ci si cura delle stazioni di servizio o degli svincoli e si va avanti perché è il fluire stesso che diventa lo scopo del viaggio. Sotto questa luce sembra appartenere alla preistoria uno dei più famosi cliffhanger della televisione, quando la tv era lenta. Nel 1980 la CBS produceva la serie Dallas e alla fine della seconda stagione mostrò un personaggio misterioso che sparava al cattivo, J. R Ewing. Per otto mesi la frase “Chi ha sparato a J.R.?” divenne un tormentone e finì addirittura in una dichiarazione del presidente Jimmy Carter, che disse che non avrebbe avuto problemi a finanziare la sua campagna per la rielezione se solo avesse saputo “chi ha sparato a J.R.”.

Quando Milan Kundera scrisse ne “La lentezza” che “la velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo” evidentemente non aveva considerato la possibilità del deragliamento non già dell’estasi, ma della buona creanza. Il tempismo, non più come qualità ma come smania, chiude gli orizzonti anziché aprirli. Come dimostra l’uso improvvido del più veloce dei social network, Twitter, da parte di ministri della Repubblica che in 280 battute bruciano sul tempo persino il più accanito dei troll cinguettando controvento e contro-logica. Risultato, una fiumana di fake news che promana dai loro account.  

Nessun problema però. Questa è l’epoca in cui le dichiarazioni più che leggersi, si contano, si misurano in ettari nelle lande sconfinate delle timeline. La bibliografia diventa bibliometria. E in una sorta di “ateismo dello sconforto” – con Hobbes che si rivolta nella tomba di frasicelebri.it  – la politica figlia della (in)cultura della velocità vive abbozzolata nella certezza che le misure contano, sì. E sghignazza, magari mandando bacioni, come la lumaca di Pirandello che gettata nel fuoco sfrigola, pare che ride e invece muore.     

Io e Alexa, e non è amore

Ho installato a casa tre dispositivi collegati ad Amazon Alexa: un Echo, un Echo Plus e un Echo Spot. Ho anche installato due lampadine Philips Hue che dovrebbero essere governate dall’assistente vocale. E il “dovrebbero” già vi deve mettere sull’avviso. Questa non è una recensione tecnica, ma il minimo resoconto di un’esperienza di tre mesi.

Andiamo con ordine.

L’idea di un governo vocale delle cose di casa è affascinante e cinematografico. Solo che nello specifico, quando si tratta di passare dalla fantasia alla realtà, le cose si complicano. Il sistema Alexa è una bella idea, ma – va detto – siamo ancora molto lontani da un concetto efficace di domotica.

Ecco i miei appunti.

  • Ascoltare la radio. Non tutte le radio sono sincronizzate e non tutte “girano” bene: Radio Capital, ad esempio, ogni tanto si prende una pausa.
  • Ascoltare musica. Uno dei tasti dolenti è la non completa compatibilità coi servizi musicali in streaming. C’è Spotify ma ad esempio non c’è iTunes (che è il servizio a cui sono abbonato). La scelta di default è quella di Amazon music, ma è molto limitata. L’alternativa è pagare. Amazon per esempio, che ha proposte a partire da 3 euro al mese, non una cifra eccessiva si capisce, ma la questione è di principio: perché devi costringermi ad abbonarmi a una cosa che ho già?
  • Il rapporto col telefono. Ho un iPhone X e quando ho acquistato il primo Echo Plus pensavo: “Che bello, adesso potrò usare il mio dispositivo come un vivavoce per casa”. Scordatevelo. Non c’è compatibilità per le telefonate con smarthphone e telefonini vari. Echo si mette in contatto, a mo’ di telefono, solo con un altro utente dotato di Echo. Inoltre se avrete la malaugurata idea di collegare via Bluetooth il vostro cellulare con uno dei dispositivi di Amazon, sarete tempestati dalle interferenze. Anche la semplice digitazione di un tasto sul telefonino interferisce ad esempio con la riproduzione della musica di un Echo.   
  • Luci e interruttori. Un’ecatombe. Sono stato costretto a cambiare o restituire tre lampadine: una Philips Hue e due Avatar. La prima si è scassata dopo venti giorni, nel senso che si è disconnessa definitivamente trasformandosi in una classica lampadina che si accende e spegne solo con l’interruttore. Le altre non sono mai riuscito a sincronizzarle con il dispositivo per motivi ignoti persino al centro assistenza di Amazon che mi ha consigliato di restituirle e chiedere il rimborso (cosa che ho fatto). L’interruttore ogni tanto si disconnette dalla rete wi-fi, pur essendo in zona ben coperta, e mi costringe a repentini reset. Inoltre dimenticatevi l’opzione in cui voi chiedete che una data cosa si accenda a un’ora e si spenga a un’altra ora: un’operazione così semplice è complicatissima con questi strumenti giacché bisogna impelagarsi nella gestione delle cosiddette “routine” e il risultato è che vi rompete le scatole al secondo dei trentadue passaggi e quel cazzo di ventilatore lo accendete e lo spegnete con le vostre manine.   
  • Riconoscimento vocale e capacità di reazione. Alexa impara e questa è una notizia buona e cattiva nello stesso tempo. Buona perché comunque mette dentro alcune delle vostre abitudini e diventa sempre più rapida a eseguire gli stessi ordini che date sempre a certe ore del giorno. Cattiva perché raccoglie dati, tutto quello che gli dite e forse anche altro. Per quanto si possa essere appassionati di tecnologia – è il mio caso – sometimes un brivido mi prende nel pensare che ho una trasmittente sempre accesa in camera da letto…

Le quattro vedove

Una breve storia vera. Breve purtroppo in quanto X, il suo protagonista, se n’è andato che era ancora giovane. Era un mio ex compagno di scuola, divertente e imprevedibile, uno di quelli che potresti definire tranquillamente dolce mascalzone, che vorresti accanto per un viaggio indimenticabile, per una cena all’una di notte, per una rimpatriata alcolica, per sanare un momento difficile, per scacciare un mostro che solo tu vedi. Ecco, X era uno scacciamostri. Era talmente bravo che i suoi (mostri) manco li lasciava materializzare. Una volta finì nei guai con la giustizia per questioni economiche e si presentò al giornale in cui lavoravo. Io, che ovviamente avevo la notizia, gli dissi “Non cominciamo, non ci posso fare niente!”, pensando che mi volesse chiedere chissà quale sconto giornalistico. In realtà la questione era davvero di poco conto ed era finita in fondo alle pagine della Cronaca di Palermo. X mi fermò subito: “Tranquillo, non chiedo sconti, ma un’edizione di Enna”.

Diavolo di un demonio, il suo piano era sopraffino e prevedeva un solo obiettivo: che i suoi anziani genitori non venissero a sapere dell’infortunio giudiziario.

Quindi cosa fece X? Attese che io gli sfornassi l’edizione di Enna che non conteneva la notizia che lo riguardava e andò a casa dei suoi. Che l’indomani si svegliarono col giornale sul tavolo della cucina e un bigliettino affettuoso del dolce mascalzone: “Ieri sera sono stato da Gery che vi omaggia il giornale di oggi”.

Gery omaggia il giornale.

Problema risolto.

Ma il motivo per cui vi racconto la storia di X non è questo. Potrei dirvi di quella volta in cui chiacchierando al telefono mentre giocava con un fucile da caccia di suo padre gli scappò un colpo che riempì una parete di pallettoni: parete che in un’ora ricoprì di quadri orribili acquistati al volo da un suo amico graffitaro, il tempo che i suoi genitori rientrassero a casa. O di quell’altra in cui decise di fare il pane solo con acqua e farina perché lui aveva una ricetta segreta, e soprattutto degli amici come noi talmente rincoglioniti da credergli, e partorì un paio di schiacciate di cemento armato mandandoci a fare in culo perché noi non capivamo niente dell’arte della panificazione eccetera. O di quando, giocando a nascondino (eravamo ragazzini sì), scelse il nascondiglio più impenetrabile, almeno fino a quando non arrivò il treno: una galleria sulla strada ferrata Palermo-Messina.  

Invece no.

Vi racconto di quando morì, il mio adorabile, detestabile, meraviglioso, impresentabile X. Al suo funerale si presentarono quattro ragazze, con devastata discrezione.
Erano tutte fidanzate ufficiali. Tragicamente nessuna di loro sapeva dell’altra. E, grazie a un drammatico lavoro di incastri e di strategia mio e di un altro paio di amici, nessuno di loro ha mai saputo dell’altra. Furono tutte allocate, nel loro dolore, nei primi posti della chiesa. Le baciamo e le abbracciamo con un’intensità dalla precisione millimetrica. Ci inventammo astruse geometrie davanti alla bara, al cimitero, pur di garantire a ciascuna di loro il diritto esclusivo alla pietà. Dimenticammo persino le lacrime in quel frangente – è una storia di quasi trent’anni fa – e ci dedicammo alla complicatissima salvaguardia della memoria trasversale del dolce mascalzone.

Me la sono tenuta fino a ora, questa storia. Perché la prescrizione non è solo un istituto giuridico, ma una maniera di prendere un ricordo, passargli sopra una mano di vernice e far finta che sia oggi e che sia tutto finito prima ancora di cominciare. Per riderci su, per scrivere sulla nostra lavagnetta personale “tutto andrà bene” anche quando non c’è un solo indizio che deponga in tal senso, per prendere la rincorsa verso il futuro con la base più solida che abbiamo, quella della memoria. Oggi X sta di certo seduto in consiglio di amministrazione da qualche parte lassù, del resto il Creatore non è uno che si lascia scappare uno così, che tappa buchi di proiettile in mezzo pomeriggio, che s’inventa il cibo dove non c’è, che non ha paura del buio quando c’è un treno che arriva. E soprattutto che aveva capito che il miglior modo di prevedere il futuro è inventarselo. Pace all’anima sua, caro e dolce maledetto X, e un pensiero alle quattro vedove il cui dolore genuino non è mai stato scalfito dall’insincerità di un indimenticabile spirito burlone.

Giudicare a cazzo

La vicenda dell’assoluzione di Ignazio Marino per la cosiddetta inchiesta degli scontrini mi ha fatto venire in mente un tipico corto-circuito del nostro meccanismo relazionale. Quando scoppiò il caso dell’allora sindaco di Roma, il Movimento 5 Stelle organizzò un linciaggio mediatico che al confronto una crocifissione sarebbe passata per un buffetto. Oggi, col senno di poi, sappiamo che la giunta Raggi ha problemi ben peggiori di quelli che ispirarono gli slogan grotteschi di “onestah onestah” e che con un sorprendente garantismo i grillini danno fiducia al loro sindaco nonostante la sua palese inadeguatezza (riconosciuta dai media di mezzo mondo).

Ma questo era l’aggancio di cronaca e non voglio buttarla in politica.

Il focus è molto più universale. Ed è legato al rapporto tra dubbi e certezze (di cui ho parlato anche qui). In parole povere, quando organizziamo un tribunale, anche casalingo, per processare qualcuno dobbiamo tenere a mente che il destino gioca sempre con carte truccate. Fottendosene del calcolo delle probabilità ci proporrà, più prima che poi, un contrappasso dalla crudeltà medioevale. Così, per il semplice gusto di divertirsi alle nostre spalle. O chissà, per ricordarci che la cenere dalla quale veniamo ci sta poco a diventare fango, bastano due gocce sfuggite al nostro ombrello: e in nessun mondo, neanche in quello illuminato dalla fede più cieca, esiste ombrello grande come il cielo.

Se si è tentati di condannare qualcuno perché evidentemente colpevole, prima di emanare la sentenza è bene riflettere su due parole: evidentemente e colpevole.  La seconda è quella che abbaglia, la prima è quella che trama. L’evidenza infatti nasconde la trappola, che è quella di non saper calibrare la pena. Quante volte ci è capitato di giudicare a caldo in modo tranciante?

A me molto spesso, ma col tempo e con una buona cura del mio sistema operativo biologico ho cercato di correre ai ripari. Però oggi ricordo con rammarico le volte in cui sono stato oggetto di tale giudizio. Una persona, giustamente, vi condanna per un errore ma poi sbaglia tragicamente nel non saper calibrare la pena. Cosicché dopo avervi crocifisso in sala mensa, ignudo e umiliato, finirà per ritrovarsi vittima della crudeltà del destino quando commetterà un errore ben più grave di quello che aveva giudicato con drammatica intransigenza (la pagliuzza nell’occhio altrui e altre menate…) e si perderà nel buio di una ragione con la quale mai potrà riconciliarsi se non mediante un harakiri della sua fallace presunzione.

Ci sono due modi per salvarsi la vita quando c’è da esprimere un giudizio severo e legittimo. Il primo è quello complesso: calibrare, prendere fiato, pensare che può succedere a molti persino a noi, guardarsi dentro e poi, molto poi, deliberare.  L’altro, più semplice, è giudicare a cazzo e scegliere di vivere di fotogrammi che non raccontano una storia: che siano scontrini o lettere d’amore sarà il destino a deciderlo. Con le sue carte truccate.

L’impossibile

Molte persone hanno la fortuna di avere un luogo del cuore, un posto in cui andare, o sognare di andare, quando si cerca un’evasione, un po’ di tranquillità, il senso di qualcosa o più semplicemente se stessi. Io sono superfortunato perché ne ho diversi, di posti così. Ma uno è primo al traguardo dei miei sogni realizzati. È Monte Pellegrino, la montagna di Palermo, mica una roba esotica. Ne ho parlato spesso qui e altrove sui giornali, alla radio, ovunque ci fosse spazio per raccontare qualcosa di me e delle mie fughe. L’ho frequentata sin da ragazzino, prima con lo skateboard, poi con la moto, e ancora con l’attrezzatura da arrampicata, con la bici e ovviamente a piedi con le scarpette da running. Una volta con un amico più pazzo di me ipotizzammo di buttarci con gli sci dalla pietraia di nord-ovest, in una adolescenza di istinti forsennati: ma forse questa storia ve l’ho già raccontata o comunque ve la racconto un’altra volta

Insomma io a Monte Pellegrino ci vado spesso: per correre, per respirare un po’ di cose mie (ci sono pensieri che si affrontano solo a pieni polmoni), per abbandonarmi a due ore di fatica e musica a palla nelle orecchie, per ringraziare. Stamattina mentre scendevo da quelle curve dove si apre una vista inaudita su Mondello (è un peccato che la strada sia chiusa al traffico per problemi di frane e robe varie) mi sono fermato in un tornante. Lì ci sono un guard-rail squarciato e un nastro rosso che avverte del pericolo. È il punto in cui nel giugno scorso un’auto con due ragazzi è uscita fuori strada precipitando in un vuoto che è impressionante al solo pensarci. Mi sono seduto, fermando quel benedetto Garmin che mi ricorda feroce e inflessibile l’impegno di rispettare un tempo nella corsa, e ho immaginato l’inferno in quel posto che per me è un paradiso. Com’è possibile che il mio luogo del cuore custodisca il mistero di una tragedia così grande? Esiste un’oggettività del dolore che si insinua nella terra di una montagna come nella carne di un essere vivente? Come può l’infinitamente bello sconfinare così facilmente nell’urlo muto della morte. Questo non è l’Himalaya o il Nanga Parbat che nella loro bellezza disperata racchiudono, come un cristallo di allucinogeno, il segreto sommo di un inizio che può essere fine. Questo è Monte Pellegrino, la montagna che guardo ogni mattina da casa con la tazzina del caffè in mano e lo smartphone a distanza di sicurezza. È il conforto dei ricordi e l’eccitazione di una corsa a perdifiato mentre il sole tramonta e la città, sotto, macina impegni che in quel momento non ti riguardano.

Com’è possibile che la morte di quei due quei ragazzi ora la traduco come un tradimento della mia montagna?

Non trovo risposta o forse non c’è.

So soltanto che al nostro posto del cuore chiediamo l’impossibile, perché se ci accontentassimo del possibile non saremmo lì.

A caccia dei traditori

Se fosse qui con me, chiederei al diavolo come ha fatto a progettare un piano così sottile con una materia così grossolana: mafiosi, tritolo, terra, carne, sangue, lamiere. Come ha fatto a ingannarci sbattendoci in faccia gli indizi, anziché nasconderli. Come ha fatto a immobilizzare la giustizia per tutti questi anni inventando piste di indagine al limite del grottesco. Come ha fatto a rendere tutto ciò plausibile, senza che nessuno di quelli deputati al controllo si accorgesse di nulla.
E soprattutto gli chiederei una cosa.
Come ha fatto a dare fiducia ai traditori?

Due anni dopo “Le parole rubate” io e Salvo Palazzolo torniamo sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo per indagare sui misteri delle stragi Falcone e Borsellino. Lo facciamo il 23 e il 24 maggio prossimi (ma il 24 è una data già chiusa, riservata esclusivamente alle scuole) con un’opera inchiesta che non fa sconti a nessuno: “I traditori”.

Poco o nulla vi anticiperò qui, perché è in teatro che scoprirete le inquietanti manovre, il rimando di scuse, il doppiogioco di alcuni uomini delle istituzioni che hanno portato al più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana. E constaterete con noi che la storia, così come ce l’hanno raccontata, è una storiella, un mazzo di coincidenze raccolte alla rinfusa e spacciate per verità ufficiale. Prove alla mano, cercheremo di rimettere a posto le tessere del puzzle. E lo faremo con la narrazione di Gigi Borruso, le musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri, la regia di Alberto Cavallotti, le suggestioni video di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone, la documentazione fotografica di Franco Lannino.

Non è un caso che tutto ciò avvenga in uno scenario che ci toglie il fiato, il più grande Teatro d’opera d’Italia, un teatro che ha il coraggio di uscire dal comodo orticello del “già noto” per affrontare la scommessa dell’innovazione dei temi, dei linguaggi. Ricordo ciò che il sovrintendente Francesco Giambrone mi disse il 19 luglio scorso in via d’Amelio, dopo l’ennesima replica delle “Le parole rubate”: “Noi queste cose dobbiamo raccontarle con tutta la voce che troviamo, con tutti i mezzi che abbiamo. È una scommessa”. E la scommessa l’abbiamo accettata, tutti noi.

Quindi se volete ci vediamo il 23 maggio, alle 20,30 nella sala grande del Teatro Massimo di Palermo (sbrigatevi perché poi i posti finiscono). Vi promettiamo di dire tutta la verità, almeno quella a noi nota che, in gran parte, corrisponde a quella universalmente poco nota se non addirittura sconosciuta.

L’importante è che nessuno ci parli più di coincidenze.
Le coincidenze sono menzogne scritte in anticipo.

La mafia, un teatro, una chiesa

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica Palermo.

C’è qualcosa di grottesco nella richiesta del pizzo al teatro Savio di Palermo, a parte la ruvidezza criminale dell’atto in sé. La mafia e la cultura sono mondi drammaticamente distanti. L’artista e l’estortore appaiono come esseri provenienti da galassie diverse: il primo regala al mondo la sua visione, l’altro lo deruba con la sua grettezza.

I mafiosi ci avevano già provato a chiedere il pizzo a quel teatro gestito dai salesiani e si erano presi un primo rifiuto. Ci hanno pensato su per un decennio e sono tornati alla carica. La risposta è stata la stessa. No. Poi il direttore artistico Francesco Giacalone se n’è andato dai carabinieri: nello spettacolo come nella vita, ognuno ha il suo ruolo.

Se ci pensate, l’arte è un bel pretesto per combattere la protervia di Cosa nostra: non ama imposizioni, si scatena alla minima carenza di libertà, sa essere felicemente ribelle.

Non sappiamo quanto ci sia di nuova strategia e quanto di disperazione in questo atteggiamento di Cosa nostra, però siamo certi che in una città come Palermo bisogna stare sempre con le antenne alzate. Per questo, ad esempio, non si può non restare sgomenti davanti a un prete, don Mario Frittitta, che nella sua chiesa della Kalsa celebra messa in memoria del mafioso Tommaso Spadaro e per giunta minaccia il cronista che osa chiedergli come si sente a inventarsi una celebrazione per un boss scomunicato (salvo poi scusarsi, a frittata fatta, 48 ore dopo). Frittitta non è un personaggio qualunque. È un uomo chiave di un quartiere con poche serrature, passato attraverso complicate strettoie giudiziarie e poi assolto. Se la Chiesa palermitana fosse stata investita da un refolo di saggezza, o magari di semplice prudenza, quel prete sarebbe stato trasferito o comunque sarebbe stato oggetto di particolare attenzione. Invece, oggi dopo la messa per il boss e le minacce a chi gli chiede conto e ragione, è ancora lì. L’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice “stigmatizza”: chissà, se si va a fare un giro al teatro Savio magari gli viene un’idea migliore.   

Un certo miracolo

Il miracolo è quella cosa che se la racconti tutti ti prendono per scemo e se non la racconti sei tu a dirti scemo. Poi quello che sta nel mezzo tra ciò che è stato e ciò che poteva essere, attiene ai sedimenti del tuo pensiero, alle good vibrations che siano di origine religiosa o terrena, perché ci sono momenti in cui non è l’attimo che vale ma ciò che lo circonda.

E non conta più la cronaca che ti poteva vedere per una volta dall’altra parte del vetro, dell’oggetto del resoconto, ma quel filo di momenti che ti hanno accompagnato all’appuntamento cruciale e dal quale poi ti hanno tirato fuori con la stessa congerie di coincidenze sulle quali rifletterai per gli anni a venire.

Il prima. Un pomeriggio fastidiosamente fresco e un appuntamento per la famosa visita medica di controllo che hai schivato per mesi. Decidi di andare ma in moto, altrimenti dovrebbero paracadutarti in quell’angolo di città incasinato. Passi davanti al tuo ex giornale e un pensiero di deliziosa malinconia ti riporta a quei venti e passa anni trascorsi lì dentro a macinare parole da impaginare. Poche centinaia di metri dopo, rallenti: c’è traffico. Davanti a te un’auto dei carabinieri. Nelle orecchie hai una canzone di Ligabue che non ti piace. Pensi, che cazzo Ligabue se solo ci mettesse un terzo accordo forse sarebbe diverso…

Al posto dell’accordo arriva una Ford Fiesta guidata da un anziano che, per sua candida ammissione, ha scambiato il freno con l’acceleratore. Ma tu ancora non lo sai, sei preso dalla questione Ligabue, infastidito da quel cazzo di fresco che ti filtra dal casco, e poi c’è il traffico… Quel traffico che a un certo punto non sta più al suo posto, e manco la macchina dei carabinieri. A dire il vero neanche tu sei dove eri prima. Sei in aria, dopo un colpo secco che hai sentito alle tue spalle.

Il momento cruciale. In questa rarefazione di luoghi – perché vedi la tua moto che si allontana? Che ci fa la tua gamba sinistra lassù, verso il cielo? Perché la strada si è capovolta? – capisci che un’interferenza cruciale si è insinuata tra te, quel pomeriggio fastidiosamente fresco e la famosa visita di controllo che tanto ti rompe i coglioni.

Ecco, voli con una leggerezza che qualcuno ti ha donato, perché non è tua, lo sai. Come di incanto, anzi come di schianto.

Il dopo. Non è come te lo aspettavi, ma a questo pensi molto dopo quando ricorderai lo strano tepore dei grandi dolori e la dolcezza degli attimi che possono essere definitivi (chi ha provato l’esperienza del coma può capire). Solo i fortunati possono raccontare di esserlo stati.

Atterri. Il problema non è dove, ma quando. Atterri dopo attimi secolari in cui, molto prosaicamente, messi da parte i grandi quesiti rarefatti (la moto, la gamba, la strada) realizzi ciò che è accaduto: un tale ti ha falciato a tutta velocità e ora si sta schiantando contro la macchina dei carabinieri che sta davanti. Atterri di nuca e di schiena, ma è come se qualcuno ti avesse steso un materasso sotto. Benedetto casco, ti dirai. Ma il casco non ti prende per le braccia e ti adagia, non ti ferma a pochi centimetri da un’auto parcheggiata, non ti alleggerisce di 80 chili facendoti rialzare con una agilità che non ti riconosci. Poi scoprirai che l’investitore ti conosce bene, è un fattorino che ha lavorato proprio in quel giornale negli anni in cui c’eri tu. E che ti riempirà, urlando come un ossesso, delle sue folli attenzioni presentandoti a tutti come se tu fossi l’ospite illustre in una cena del Rotary: vedete l’uomo che stavo ammazzando è mio amico, negli anni d’oro (di chi, di cosa? Ci vuole un contest) faceva questo e quest’altro! Scoprirai che evidentemente quella visita medica oggi proprio non dovevi farla. Che le good vibrations sono come le polpette: nessuno sa cosa c’è dentro, come sono state preparate, ma nutrono ed è una gioia trasversale non chiedersi troppo. Che i miracoli hanno qualcosa a che fare con un percorso la cui unità di misura è l’attimo. Che un dio se c’è, è esplicito in certi suoi segnali. Tipo quello di non fartene andare con Ligabue nelle orecchie.

Gli immortali

Quando le cose sono troppe complicate, più che alla scienza conviene guardare all’arte per ottenere spiegazioni. Così, per provare ad argomentare il mio punto di vista sulla tragedia del Nanga Parbat in cui sono morti gli alpinisti Daniele Nardi e Tom Ballard, non mi viene nulla di meglio che prendere a prestito la frase di un grande drammaturgo e sceneggiatore, tale Neil Simon: “Se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della cappella Sistina”.

In quest’ambito l’errore delle persone povere di spirito che si travestono da anime candide è quello di giudicare il mondo dalla sedia del tinello. Visto da lì, tutto l’universo è fuori misura, fuori luogo, fuori di testa: del resto le grandi imprese, non solo nello sport, sono quelle che ci mostrano, evidente e spesso urticante, la differenza tra persone modeste e visioni modeste. Concetti pericolosi da sovrapporre.

Invece le cose sono molto diverse perché è quando finisce la presunzione della ragione che inizia il mondo in cui essa è orgogliosa di sentirsi superata.  Qualche anno fa conobbi Maurizio Zanolla, più noto come Manolo, uno dei più grandi arrampicatori esistenti. Mi chiamarono per intervistarlo al Feel Good Festival di Abano e da lì nacque un’amicizia leggera e fonte di mille ispirazioni da entrambe le parti, nel senso che io da ex arrampicatore mi nutrii dei suoi racconti e della sua inaudita visione del mondo e lui si (ri)mise a scrivere. Ne è nato un bellissimo libro, “Eravamo immortali”, in cui Maurizio racconta la sua vita in verticale, il suo fatalismo, le sue paure e anche l’inevitabile scia di dolore che accompagna l’illusione della felicità assoluta. È un mondo di folle pazienza e di razionale imprudenza, quello degli alpinisti estremi (così come quello di tutti gli altri grandi artisti, perché comunque sempre di una forma di arte si tratta). Un mondo in cui uno ci mette vent’anni per chiudere una via di arrampicata, perché è talmente liscia che solo una sensibilità superiore ti può mostrare ciò che è invisibile agli occhi. Così accadde per Eternit e per il grande Manolo.

Tutto questo per dire che il “se la vanno a cercare quindi è ovvio che muoiano” o il “peggio per loro” quando si parla di alpinisti, esploratori, recordmen che hanno fatto una brutta fine è un’offesa alla più grande magia dell’uomo, quella di saper sognare. La fantasia non è solo un tratto di penna, una nota azzeccata o un magico passo di danza. La fantasia è sapere guardare dentro di noi quando fuori tutto è buio, freddo, spaventoso. E accendere una luce che ci sopravviverà.
Lunga vita agli immortali che non ci sono più.     

Né Tears né Fears

Sono uno fortunato. Nella mia vita, per passione e soprattutto per mestiere, ho assistito a molti concerti dal vivo. Quello che ho visto sabato scorso al Forum di Assago lo ricorderò per due motivi contrastanti: era in cima alla lista di quelli che mi mancavano (e dovevo assolutamente mettere nel carniere) ed è stato qualcosa di molto diverso da ciò che mi aspettavo.
Parliamo dei Tears for Fears e del loro “Rule the World Tour”, (la tappa milanese che doveva essere recuperata dallo scorso anno quando fu annullata per indisposizione e/o bizze degli artisti). La mia avventura non era iniziata benissimo dato che il biglietto acquistato per oltre il triplo del suo valore, a causa di un secondary ticketing selvaggio che ho provveduto a segnalare per tempo alla Guardia di Finanza, aveva già messo a dura prova la mia pazienza. Tuttavia mi sono presentato all’appuntamento con passione e curiosità di ordinanza e, da un punto di vista strettamente musicale, non sono rimasto deluso. Il fatto è che Roland Orzabal e Curt Smith propongono uno spettacolo molto serrato e, diciamolo, abbastanza breve: un’oretta e mezza scarsa (bis compreso) di musica con quel repertorio lì è un antipasto, altro che cena completa. I Tears for Fears mettono su una macchina molto professionale – troppo, al limite del freddo – per concentrare in un tempo relativamente breve una carriera di successi stellari. Gli arrangiamenti poco lasciano all’emozione live poiché raccontano esattamente la storia che conosciamo tramite il prodotto discografico: precisione, compostezza e rapidità. Anche nella scenografia, uno schermo grande ma non troppo propone il déjà-vu di immagini note (e apprezzate) nei loro prodotti e quasi ostenta la pigrizia di tralasciare telecamere a favore di chi, in uno spazio così ampio, vede il palcoscenico da troppo lontano pagando un biglietto salato.
Insomma ci si diverte, si balla e si canta per la forza delle canzoni, non certo per quella dei loro autori e interpreti che probabilmente nascondono una stanchezza sotto una corazza di solida imperturbabile professionalità. Un compitino ben fatto, un sano artigianato di larga scala.
Voto 7+, si poteva fare meglio.