Io, sacchetto di immondizia

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Salve, sono un vecchio sacchetto di immondizia. Non vi rivelo la mia età – noi sacchetti siamo molto attenti a non farci scalfire dal tempo – ma vi dico solo che c’ero quando ancora non c’erano la differenziata, il porta a porta, quelle cose lì. Diciamo che sono il sacchetto zero. E dall’alto della mia lezzosa età vi rassicuro: gli assembramenti di miei simili che tanto vi indignano oggi, sono sempre esistiti, magari in forme diverse. Insomma nulla di nuovo a marcire sotto il sole. Siamo figli di tanti padri, ma di una sola madre. I padri sono la malagestione delle aziende deputate al nostro smaltimento, i comitati d’affari, i delinquenti che su di noi hanno lucrato, le colpevoli distrazioni della politica. La madre è la sciatteria incivile. Perché da qualunque parte si guardi quella che voi oggi chiamate emergenza, c’è sempre stata una vostra mano, sciatta e incivile, a principiare tutto. La mia storia ne è l’esempio. Sono nato per strada, da solo, lontano da un cassonetto. Mi hanno abbandonato dove nessuno si sognava di trovarmi, in pieno centro, mica in un vicolo di periferia. Mi sono guardato intorno e non ho avuto il tempo di avvertire la solitudine, che altre mani hanno fatto sì che mi sentissi circondato da altri sacchetti. Di minuto in minuto, dove nulla c’era, è cresciuta una comunità di immondizia. Come un seme gettato nella nuda terra, ho generato una ramificazione di prodotti di scarto, moltiplicandomi negli effetti (miasmi in primis) e negli affetti (noi sacchetti di immondizia siamo legati da un sentimento di affetto, per questo quando ci accatastano ci apriamo, è il nostro modo di abbracciarci). Quindi quello che vedete oggi è il trionfo dell’amore, il nostro per noialtri. Per il resto sono sacchi vostri.

Poco innocenti evasioni

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Esistono molti modi di sbagliare su un tema così delicato e attuale come il rispetto delle norme di contenimento del Covid-19. E sono tutti deprecabili. Ad esempio, a chi nel tardo pomeriggio capitasse di percorrere la via Monte Ercta, la strada che da Mondello sale a Monte Pellegrino, potrebbe accadere di imbattersi in una comitiva di ragazzini che, per sfuggire ai controlli anti-assembramento, si dà appuntamento sulla piazzola panoramica che un tempo era territorio di coppiette più o meno clandestine. È un tipo proibito di assembramento – assembramento, la più attuale tra le parole un tempo desuete – che spesso è imbarazzante da censurare. Chi è stato giovane sa quanto è innaturale non far cose da giovani. I giovani non sono creature solitarie e imporre loro di esserlo è un compito da svolgere con garbata fermezza. Ai ragazzi di via Monte Ercta va spiegato che esistono libertà alle quali si rinuncia proprio per poterne (ri)conquistare di nuove.      

Errori. Tutti deprecabili, dicevamo. Ma ce ne sono alcuni più irritanti, come quello dell’immarcescibile Angela Chianello, iconica creatura della tv spazzatura foraggiata in popolarità dall’algoritmo strabico dei social. La signora del “non ce n’è Coviddi” è tornata l’altro giorno sul luogo del misfatto, la spiaggia di Mondello, e infischiandosene del semi-lockdown ha ballato con amici e sodali a favore di telecamera, tutti rigorosamente senza mascherina (probabilmente è un modo per preservare il brand). Anche questo video è diventato virale, arrivando però all’attenzione della Polizia. La Chianello si è beccata una denuncia quasi a clamor di popolo: uno di quei rari casi in cui il problema della giustizia-spettacolo non è la giustizia.

L’inverno forzato della cultura

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

In questo inverno forzato della cultura c’è un freddo al cuore che ci caccia in un antro buio. È una sensazione che riguarda tutti, artisti e spettatori, anziani e giovani, esperti di qualcosa e orecchianti della vita. Perché la chiusura al pubblico dei teatri, così come di tutti quei luoghi in cui la cultura è vissuta nella sua essenza più nobile che è la coscienza di sé e al contempo la relazione con gli altri, non è uno sbuffo burocratico, un mero capitolo di un decreto: è un atto politico che come un coltello lacera il tempo e i tempi nei quali un dio non ingiustificatamente severo ci ha dato mandato di vivere. Si è detto a lungo della sicurezza di questi luoghi rispetto all’aggressività del virus, si è detto del disastro economico che una chiusura reiterata provoca al settore e al suo indotto, si è detto del disagio di chi è privato del “cibo del bello”. E in questa interminabile sequela di momenti difficili in cui le stesse difficoltà scoloriscono giorno dopo giorno in uno sfondo sempre più incerto, sembrano mancare le parole per avvertire, per lanciare allarmi, per indurre alla ragione. Oltre a quello del già detto e del già sentito, c’è un rischio grave, di cui poco si dibatte, sul quale bisogna essere chiari al di là degli slogan dei partiti e della bulimia commentizia dei social: un popolo senza cultura è un popolo disarmato contro la politica cialtrona, contro le dittature, contro lo strapotere della criminalità. Nelle nostre vite gestite da algoritmi tanto spietati quanto imperscrutabili, il teatro resta la forma più sublime con cui riempire lo spazio che ci separa ma che non ci divide. Soprattutto alle nostre latitudini il luogo in cui si ritrova una comunità è importante giacché è nella natura di certi luoghi la capacità di condizionare le esistenze: non a caso viviamo in una terra in cui nascere in un quartiere anziché in un altro è già una sorta di marchio indelebile, di predisposizione sociale.

Ecco perché un teatro aperto è prezioso. Come un vaccino.

Zitto coglione

“Zitto coglione!”. Sino a qualche anno fa, e sembra passato un secolo, una discussione impari tra una persona mediamente intelligente e un ignorante presuntuoso (cioè uno che fa del proprio non sapere un’arma di attacco) si poteva ritenere chiusa con una frase del genere. Poi il senziente tornava tranquillo a casa, il cretino d’assalto restava isolato nell’eco di quelle ultime parole (“Zitto coglione!”) e il mondo continuava a girare più o meno tranquillamente con la parte sana del pianeta immersa nei suoi dubbi e quella bacata avvolta nella coltre oleosa delle sue certezze.

Oggi nell’epoca del “Social dilemma” – a proposito, ne parliamo giovedì 15 ottobre, alle 19, a piazzetta Bagnasco a Palermo – la moltiplicazione del dubbio è diventata un’emergenza e da strumento del saggio si è trasformata in alibi dello stolto. Perché se il dubbio è instillato in malafede siamo davanti a un’emorragia di buon senso. E dove il buon senso latita, la cretinocrazia impera.

L’adunata di no-mask negazionisti e fascisti travestiti da scienziati di oggi a Roma è in tal senso un esempio da enciclopedia. Prendi i peggiori imbecilli del paese, dagli una platea di cretini ammaestrati, forniscigli una motivazione politica cialtrona tipo il governo ci guadagna con l’emergenza, condisci il tutto con la truce sensibilità per le fandonie dell’algoritmo di Facebook, e il gioco (sporco) è fatto.

Non c’è spazio per l’ottimismo di Woody Allen secondo il quale “il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile”. Oggi il contrario è la regola di ogni meccanismo sociale. Il contrario giustifica, premia, innalza, erige, eccita. E non c’è rimedio se non il puntuale opporsi a ciò che non è, che non può essere e che non dovrà mai/più essere. Per questo è drammaticamente sbagliata la tesi secondo la quale bisogna lasciar correre, non dare spazio a certi fenomeni perché altrimenti si corre il rischio dell’effetto amplificazione. No, è dimostrato che una falsa notizia ha un’eco sette volte superiore a una notizia vera. Quindi deve essere crociata senza confine. Oggi, domani, sempre.
Il grido di battaglia? “Zitto coglione!”.    

L’accendino fumante

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Noi siciliani siamo abituati a convivere col fuoco, in qualunque forma possa essere rappresentato. La fiamma in sé racconta una devozione coatta verso il potente, che sia un santo o un attentatore del racket. Si brucia per scacciare il malocchio o per ringraziare, per punire o ammonire. Dalla candela al rogo c’è sempre una mano che regge una convinzione, spesso molto personale, raramente condivisibile. Perché qui in Sicilia il fuoco è soprattutto mistero. Mistero della mente, di un profitto difficile da raccontare, di tradizioni criminali fuori dall’intelligibile. Chi avvicina un accendino a una stoppia mentre mira al bosco limitrofo è attore di una commedia che comunque la si reciti ha sempre un finale orribile. L’altro giorno un forestale sessantenne è stato beccato in provincia di Palermo mentre dava fuoco alla riserva naturale orientata “Serre di Ciminna”. Lo hanno sorpreso con l’accendino in mano: quando si dice con la “smoking gun”, la pistola fumante cioè la prova regina…

Poi è accaduto quello che accade generalmente in questi casi, che il gip ha convalidato l’arresto e lo ha rimesso in libertà: una sorte di ossimoro per chi non mastica cose di legge, che però non fa una grinza su fronte della corretta applicazione della norma.  

Il criminale – perché di criminale si tratta – che dà fuoco a un bosco e che torna a piede libero in tempo per la cena, difficilmente si ravvederà: il suo è un delitto per così dire ordinario, che non gli ha mai sconvolto la vita, ma semmai gliel’ha semplificata. Se non è giusto criticare la legge, perché quella si rispetta e basta, è giustificabile abbandonarsi a un pensiero di sconforto. Perché la nostra società si organizza e si adatta non soltanto in base al reticolo di norme che la sorreggono, ma anche in base a una perniciosa tendenza all’imitazione. Alla fine una mano che tiene un accendino può essere pericolosa più che se reggesse una pistola.

Noi siciliani siamo abituati a convivere col fuoco e con le pistole, ma non è detto che ci piaccia.

Una Chianello senza musica

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

In quello che verrà ricordato dai posteri come il sillogismo di Miccichè (Berlusconi è sopravvissuto al Coronavirus, Berlusconi ha 85 anni, quindi il Coronavirus non è più quello di una volta) c’è un solo difetto: manca la musica. Il verbo del presidente dell’Ars non è solo la versione noiosa del tormentone di Angela Chianello (“Non ce n’è Coviddi”), maître à penser formatasi nella battigia di Mondello e maturata nelle trasmissioni di Barbara D’Urso, ma anche un raffinato affresco di negazionismo scientifico applicato alla politica: “A Roma sono innamorati dell’emergenza perché nell’emergenza possono fare quello che vogliono”. Che è come dire che tutti i medici e gli scienziati che si sbracciano per metterci in guardia dall’aumento dei contagi sono in fondo complici di un gioco delle tre carte. Nel 2010 Silvio Berlusconi, in uno dei suoi noti slanci di realismo, disse che nel programma del suo governo c’era l’impegno di sconfiggere il cancro entro tre anni e probabilmente fu per un intoppo nel meccanismo della propaganda che non si stamparono i manifesti “Meno tumori per tutti”. Oggi Miccichè va ben oltre quel limite di panzane e si ricollega a quel filone culturale che dai “Gilet arancioni” di Antonio Pappalardo al “Popolo delle mamme” vede complotti a ogni angolo e anzi inventa nuovi angoli per non morire di noia. È in qualche modo un upgrade del sonno della ragione che non si accontenta più di generare mostri, ma li vuole retwittare, condividere, spammare, li alimenta per trovare uno slancio vitale verso qualcosa che proprio vitale non è. Il negazionismo di Miccichè è una cosa seria, esattamente come gli show della Chianello su Instagram e come la cialtronaggine dei no mask. Però almeno con la Chianello si ride.

Vergognarsi per crescere

C’è stato un tempo in cui ho sbagliato molto e pericolosamente. Ci pensavo leggendo le notizie sull’assassinio del povero Willy Monteiro Duarte, pestato a sangue per aver cercato di sedare una rissa. Nella mia adolescenza e anche nel periodo confinante, proprio sul limitare dell’età adulta, sono stato un tipo manesco. Non ero aiutato dal fisico – non ero muscoloso, ero sportivo sì, ma ben lontano dal modello palestrato – ma per una misteriosa convergenza di fattori sociali e psicologici, se gli eventi mi davano il la ero pericolosamente incline a menare le mani.
Poi un giorno incontrai la persona sbagliata, che oggi definirei invece la persona giusta. Un tale che mi diede tante di quelle legnate che, come si dice, mi tolsi il vizio: ancora oggi ho un incisivo spaccato che mi ricorda quell’incontro. E dire che di mazzate ne avevo prese anche prima, ma quella volta fu quella giusta. Si trattava di uno che aveva bloccato la strada col suo furgone per scaricare sacchi di farina destinati a un panificio. Ebbi la sventura di trovarmi dietro di lui e di avere fretta. Mi accorsi troppo tardi della sua stazza, ormai ero già troppo avanti nel battibecco. Finì con la mia faccia contro il cofano di un’auto, e tutto quel che ne consegue…

C’è solo un capitolo, quello finale, esilarante che posso rivelare oggi.

Tutt’e due passammo dal pronto soccorso e finimmo l’uno accanto all’altro: entrambi mentimmo sulle cause dei nostri guai (io avevo la bocca malconcia, lui aveva il classico occhio nero) e nessuno seppe mai nulla di questa cosa tranne, per quanto mi riguarda, un paio di miei amici fidati (di cui uno è, appunto, dentista).
Sono stato fortunato perché ho capito in tempo che questo atteggiamento non aveva nulla a che fare col mio progetto di vita: vengo da genitori colti e onesti che detestano persino la violenza cinematografica; non sono mai stato attratto dal machismo; sport tipo il pugilato mi annoiano a morte. Però mi metto nei panni di chi ha un figlio adolescente che una sera esce e che incappa in una rissa – le cose accadono e nulla può impedirlo. Che farà quel ragazzo? Interverrà? Farà finta di niente? Fuggirà?
Che tipo di insegnamento si può tramandare in questi casi?
“Fatti i cazzi tuoi”?
“Difendi il più debole”?
“Non ti fare calpestare da nessuno”?
È davvero difficile trovare una strada quando nessuno l’ha tracciata prima. Di certo contano la formazione, l’ambiente familiare, l’indole. Ma più di tutto pesa la fortuna. Magari quella di trovare un energumeno che hai sottovalutato, provocato incoscientemente e che ti fa assaggiare il cofano di un’auto come antipasto per la vita, per poi sedersi accanto a te al pronto soccorso e fare finta che nulla sia accaduto.
Provare vergogna è un buon modo di crescere.

Ignoranza digitale al potere

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Sino a pochi giorni fa il governatore Musumeci protestava indignato in tv, sui giornali, sui social perché il Tar aveva sospeso la sua ordinanza sui migranti senza nemmeno ascoltare la Regione. Poi si è scoperto che la e-mail con la quale chiedeva l’audizione era stata inviata alla persona sbagliata. Per dirla con le parole dell’ufficio stampa della Giustizia amministrativa “la richiesta audizione è stata sì formalmente presentata, ma ad un indirizzo telematico errato, non idoneo alla ricezione degli atti processuali, e comunque tardivamente, sicché, per fatto imputabile alla stessa Regione Siciliana, tale richiesta non è stata tempestivamente acquisita nel fascicolo processuale”. Qualche anno fa il “New Yorker” scoprì che gran parte dei giudici della Corte Suprema degli Usa, il massimo organo giudiziario del Paese chiamato a dirimere anche questioni di tecnologia, non aveva mai usato la posta elettronica. Quindi Musumeci è, diciamo, in buona compagnia. Solo che qui l’imperizia telematica, magari non direttamente del governatore ma degli uffici preposti che comunque rispondono a lui e per lui, è in perfetta sintonia con una mancanza di attenzione e una sciatteria che concorrono a trasformare un errore in una figuraccia. Se un minimo della grinta e della determinazione impiegate per inventarsi un legame tra i migranti e un aumento del rischio sanitario in era di Coronavirus (legame, allo stato, categoricamente smentito dal giudice) fosse stato messo in campo per digitare il corretto destinatario di un’istanza, probabilmente non saremmo qui a ridere amaro di un’istituzione che non sapendo che pesci prendere, si inventa il complotto di agosto. Sarà il caldo.  

Perché scriviamo cazzate

Cercando di ragionare a colpo freddo sulla débâcle dell’informazione in occasione della bomba d’acqua su Palermo, con due o addirittura quattro morti inventati, bisogna innanzitutto mettere in chiaro un punto: questo non è un processo ai giornalisti, ma una riflessione che deve tener conto di cosa è oggi il mondo dei giornali e di cosa era prima. E va scacciata ogni forma di nostalgia che possa inquinare il giudizio di fronte a scenari non certo tranquillizzanti.

La domanda di partenza è: com’è possibile che si possa scrivere di due o quattro morti per un’alluvione, annegati in piena città, senza controllare la veridicità della notizia? E ancora: basta una testimonianza non verificata, generica e senza un solo appiglio (un nome proprio, una denuncia di scomparsa, un indizio corposo) per lanciarsi con tale tragica certezza nel racconto di un evento di cronaca così importante?

Purtroppo sì, oggi sì. Perché i giornali sono diventati, per colpa di editori dissennati e di una categoria di giornalisti che ha consentito tutto ciò, qualcosa di difficilissimo da gestire. La desertificazione delle redazioni, a parte l’ovvio vantaggio economico per l’azienda, porta un danno al lettore perché un prodotto fatto al risparmio non può essere spacciato per un’altra cosa.

Quello che una volta facevano quattro professionisti, oggi lo fa una persona sola: scrivere, correggere, scegliere una foto, impaginare, titolare, eccetera. E poi il tempo, fattore fondamentale per un mestiere che è ontologicamente fatto di fretta. Prima i giornali chiudevano a notte fonda, si mandava una prima edizione verso le 23 e poi si ribatteva (cioè si aggiornava, si correggeva, si raffinava). Ora alle 21 non c’è quasi più nessuno e non certo per pigrizia dei cronisti: i quotidiani sono manufatti sempre più freddi, preconfezionati per ottimizzare i ritmi di una produttività ragionieristica e, ai fini del valore dell’informazione, dissennata.

È chiaro che un giornalista oberato da mille cose che, come abbiamo visto, spesso non riguardano solo la notizia di cui si sta occupando, è più vulnerabile all’errore. Così come lo è un giornale che ha meno controlli di qualità perché svuotato di figure come archivisti, fotografi (sì, i fotografi ormai sono merce rara dato che esistono i telefonini, come se fare lo scatto giusto fosse un gioco da ragazzini), correttori di bozze, grafici, e che porta in edicola un prodotto chiuso alle 21,30-22, quindi irrimediabilmente vecchio in epoca di informazione liquida.

Ciliegina sulla torta, il peso dei social network che trasformano in cotto e mangiato qualunque “alimento” ancora crudo o addirittura non commestibile. La notizia-non-notizia sparata su Facebook dal primo smartphonista di passaggio ammorba un’opinione pubblica i cui freni inibitori sociali sono praticamente nulli, poiché non c’è peggior istinto di quello che azzera la capacità di critica. Dinanzi a una cazzata digitata su un social network, siamo nudi con la nostra formazione, con il nostro pedigree culturale, con la nostra dignità. E non sempre si riesce a tenere alta la guardia.

Ecco perché scriviamo cazzate. E dobbiamo interrogarci sempre su come rimediare e come resistere alla tentazione di mandare tutto e tutti a fare in culo cercando di toglierci di dosso responsabilità che invece sono antiche e drammaticamente attuali.

La banalità del bene

C’è la contrapposizione tra bianco e nero che è un crimine. C’è l’aspetto fisico per il quale manco cento Ave Maria possono perdonare un pensiero trasversale. C’è un politically correct che è religione e mantra, scienza di vita e droga salvifica. Persino il sesso è sterilizzato: tutti uguali, maschi, femmine, altri; e guai a dire che una donna è fisicamente diversa da un uomo (guardando proprio l’anatomia che ha il difetto di essere una scienza).

È l’orrendo trionfo della banalità del bene che sta uccidendo tutti i nostri aggettivi e soprattutto la meravigliosa ricchezza delle diversità. Ne parlavo con un caro amico, l’altra sera, mentre da un palco in piazza echeggiavano gli slogan un po’ consunti di un composto Gay Pride. Lui, omosessuale, mi rappresentava i suoi dubbi: che ne pensi? Chiedeva a proposito dei tempi, delle vie d’uscita, degli orizzonti che rischiano di essere miraggi. Ho risposto che se avessi una bacchetta magica farei in modo da salvare tutte le diversità, ma proprio tutte anche quelle più fastidiose: perché una lotta esasperata per essere “tutti uguali” è in realtà un affronto alla cultura, al ricco caleidoscopio del mosaico sociale. Il problema non è il diverso, ma il diverso discriminato. Che è un’altra cosa.

Questa banalità del bene che pervade e invade le coscienze critiche, cioè il motore del pensiero contemporaneo, criminalizza le parole ordinarie che servono per dar luce a idee magari straordinarie. Hanno messo in discussione persino “Via col vento” e le creme sbiancanti, con una mitragliata di dietrologie da far venire i brividi. Da ragazzino avevo gli occhiali (spessi) eppure quando mi appellavano come “quattrocchi” nessuno chiamava la polizia. Oggi se ci provi, finisci alla gogna del primo influencer d’acchito e se ti va male ti devono dare la scorta (se ti va bene, finisci al prossimo programma della D’Urso). Ricordo amici grassi e amici scheletrici, amici poveri e amici viziati, amici con le gambe storte e amici drogati, maschi, femmine, generi assortiti, indecisi, innovatori (l’innovazione nel sesso è sempre una gran cosa comunque la si pensi) e conservatori. Mai nessuno di loro si è lamentato dell’aggettivo assegnato: c’era “la Sarda”, “il Grasso”, c’era “il Corto”, “la Quattro gusti”, c’erano “Filtrino” e “Padre Pio”, “Agonia” e “Rock’n roll”. Per rimanere nell’ambito del dicibile…

Non c’erano i palchetti per i bacchettoni, che ontologicamente finivano in minoranza. Non c’era la possibilità di propalare minchiate con un clic. Non c‘era il reato di dare bianco al bianco e nero al nero (pensate alla musica…). Non si era tutti uguali per decreto: c’era chi era migliore e chi era peggiore, e basta. C’era la gioia libera e liberatoria di chiamarsi con gli antesignani dei nickname: “Ue’ Sarda, cosa hai respirato per pranzo oggi?”; “Ue’ Grasso, minchia quanto sei grasso!”. E di abbracciarsi, ognuno con la sua circonferenza .