La banalità del bene

C’è la contrapposizione tra bianco e nero che è un crimine. C’è l’aspetto fisico per il quale manco cento Ave Maria possono perdonare un pensiero trasversale. C’è un politically correct che è religione e mantra, scienza di vita e droga salvifica. Persino il sesso è sterilizzato: tutti uguali, maschi, femmine, altri; e guai a dire che una donna è fisicamente diversa da un uomo (guardando proprio l’anatomia che ha il difetto di essere una scienza).

È l’orrendo trionfo della banalità del bene che sta uccidendo tutti i nostri aggettivi e soprattutto la meravigliosa ricchezza delle diversità. Ne parlavo con un caro amico, l’altra sera, mentre da un palco in piazza echeggiavano gli slogan un po’ consunti di un composto Gay Pride. Lui, omosessuale, mi rappresentava i suoi dubbi: che ne pensi? Chiedeva a proposito dei tempi, delle vie d’uscita, degli orizzonti che rischiano di essere miraggi. Ho risposto che se avessi una bacchetta magica farei in modo da salvare tutte le diversità, ma proprio tutte anche quelle più fastidiose: perché una lotta esasperata per essere “tutti uguali” è in realtà un affronto alla cultura, al ricco caleidoscopio del mosaico sociale. Il problema non è il diverso, ma il diverso discriminato. Che è un’altra cosa.

Questa banalità del bene che pervade e invade le coscienze critiche, cioè il motore del pensiero contemporaneo, criminalizza le parole ordinarie che servono per dar luce a idee magari straordinarie. Hanno messo in discussione persino “Via col vento” e le creme sbiancanti, con una mitragliata di dietrologie da far venire i brividi. Da ragazzino avevo gli occhiali (spessi) eppure quando mi appellavano come “quattrocchi” nessuno chiamava la polizia. Oggi se ci provi, finisci alla gogna del primo influencer d’acchito e se ti va male ti devono dare la scorta (se ti va bene, finisci al prossimo programma della D’Urso). Ricordo amici grassi e amici scheletrici, amici poveri e amici viziati, amici con le gambe storte e amici drogati, maschi, femmine, generi assortiti, indecisi, innovatori (l’innovazione nel sesso è sempre una gran cosa comunque la si pensi) e conservatori. Mai nessuno di loro si è lamentato dell’aggettivo assegnato: c’era “la Sarda”, “il Grasso”, c’era “il Corto”, “la Quattro gusti”, c’erano “Filtrino” e “Padre Pio”, “Agonia” e “Rock’n roll”. Per rimanere nell’ambito del dicibile…

Non c’erano i palchetti per i bacchettoni, che ontologicamente finivano in minoranza. Non c’era la possibilità di propalare minchiate con un clic. Non c‘era il reato di dare bianco al bianco e nero al nero (pensate alla musica…). Non si era tutti uguali per decreto: c’era chi era migliore e chi era peggiore, e basta. C’era la gioia libera e liberatoria di chiamarsi con gli antesignani dei nickname: “Ue’ Sarda, cosa hai respirato per pranzo oggi?”; “Ue’ Grasso, minchia quanto sei grasso!”. E di abbracciarsi, ognuno con la sua circonferenza .

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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