Andate al post scriptum

Quando ho saputo della richiesta di archiviazione della Procura di Messina nei confronti dei magistrati accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, come d’istinto sono andato a fare una ricerca nei miei archivi. E mi sono perso. Zigzagando tra articoli, libri, opere teatrali, interventi televisivi e affini  mi sono ritrovato, esausto, con un senso di vuoto.
Da anni cerco di capire cosa veramente accadde a ridosso delle stragi del 1992. Per questo, vincendo la mia detestabile vocazione solistica del mestiere (e combattendo contro una certa indole di cui non vado fiero), mi sono fatto accompagnare e in alcuni casi guidare in questa missione impossibile da colleghi come Salvo Palazzolo, da registi come Giorgio Barberio Corsetti, da musicisti come Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri, da attori come Ennio Fantastichini e Gigi Borruso. Abbiamo suonato la carica dappertutto, sui giornali e nel più grande teatro d’opera d’Italia (il Teatro Massimo), nelle scuole e nelle piazze, in tv e alla radio, sul web e nelle università.
Il nostro obiettivo è sempre stato semplice: la verità, non una verità.  
Addirittura nel raccontare il singolare fenomeno, tutto siciliano, della moltiplicazione dei processi abbiamo riscosso la risata amara del pubblico quando abbiamo messo in scena l’incredibile accavallarsi del procedimenti per la strage Borsellino. Probabilmente perché dinanzi a certi drammi la risata è l’atto più rivoluzionario.   
Ora la procura di Messina ci viene a dire che l’inaudito depistaggio che porta fuori strada per sedici lunghi anni la macchina giudiziaria delle indagini sulla strage di via D’Amelio è stato opera solo di quattro poliziotti, il capo dei quali è ovviamente morto e sepolto da tempo, e di nessun altro. Ergo che una missione criminale di tale livello è stata architettata in modo talmente artigianale o sopraffino (dipende dai punti di vista) da escludere tutti – ripeto TUTTI – i magistrati in servizio alla Procura di Caltanissetta coinvolti nelle prime indagini. I quali, secondo la versione ufficiale che ci viene fornita, si bevevano tutte le minchiate che quei poliziotti gli servivano. E soprattutto se le bevevano incolpevolmente.
Questo post è pieno di link che rimandano ad approfondimenti quindi vi risparmio i tecnicismi. Tuttavia è bene incorniciare i dubbi di Fiammetta Borsellino, illustrati da Repubblica.

Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba?
Perché i pm non ne fecero mai richiesta?
Perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
Perché furono autorizzati dieci colloqui investigativi della polizia con Scarantino, quando già era iniziata la collaborazione con i magistrati?  

A questi dubbi ne aggiungo uno io.
Perché questa verità di comodo – furono solo quattro poliziotti ispirati da un’insana anarchia a insaputa dei poveri magistrati – non fa saltare sulla sedia nessun ministro, nessun premier, nessun presidente della Repubblica?
È come se qualcuno volesse sfiancare la memoria di chi ha memoria, seppellire sotto una coltre di tempo inutile la voglia di capire, sfidare la buona creanza e la pazienza dei sopravvissuti con una architettura complessa di coincidenze, di illogici corto-circuiti. Nel nostro piccolo noi ne abbiamo trovati molti, troppi, durante il nostro cammino nel sottovuoto spinto di verità. Ora cercano di spegnerci prendendoci per noia con la loro litania di “non so”, “non ricordo”. È la famosa strategia di distrazione collettiva di cui abbiamo spesso parlato.

P.S.
Tutti i magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio sono stati promossi. Ovviamente.

Forme varie di resistenza

Resistenza alla tentazione di valutare i vizi come virtù. Siamo un Paese che per anni ha premiato i peggiori, umiliando il merito e brandendo una finta uguaglianza dinanzi alla valutazione oggettiva: l’uno vale uno, che non è un’invenzione dei 5 stelle ma è figlio del ’68, ha impoverito classi politiche, consigli di amministrazione, facoltà universitarie, consessi artistici e via discorrendo. Come ha scritto qualche giorno fa Claudio Cerasa sul Foglio “il coronavirus ha avuto sul nostro sistema politico e statale lo stesso impatto che ha una safety car quando entra in un circuito di Formula 1”. Rallentare serve a pesare i difetti. Per ripartire quando gli effetti dell’incidente saranno stati eliminati.

Resistenza ai massimalismi che tendono a ottenere un (impossibile) risultato positivo azzerando ogni forma di soluzione intermedia. Ne sto osservando di ogni tipo. Sindacali: con atteggiamenti di inspiegabile rigidità in tempi in cui dobbiamo imparare a essere elastici. Artistici: con esilaranti opposizioni nei confronti delle nuove tecnologie (leggi web) che invece servono a raggiungere un pubblico che altrimenti si dimenticherà di teatri, musei, concerti e altro. Giornalistici: giornali che ritengono ancora di essere gli unici depositari della Cronaca Rivelata e che propongono al lettore le notizie che il lettore medesimo conosce dal giorno prima (a mezzo tv e web, ad esempio); i giornali stanno morendo perché non sanno ripensarsi così come stanno facendo altri settori cruciali della vita sociale e culturale del Paese, e ripensarsi significa fare cose che nessun altro ha il coraggio di fare (su questo magari ne parliamo in un altro post).

Resistenza al voyeurismo da isolamento. È un capitolo molto delicato di questa èra di contatti senza tatto. L’ho sperimentato su me stesso. Con la clausura si tende ad abbassare l’asticella dei contenuti da offrire in pasto ai social network. Così ho visto persone che conoscevo come timide e riservate postare proprie foto appena uscite dalla doccia (senza annessi e senza connessi), ho letto confessioni intime (condivise con 4.000 persone) che forse in altri frangenti non sarebbero state manco sussurrate al confidente di turno, ho assistito a cerimonie di socializzazione tra elementi che nel mondo reale si sarebbero tenuti a distanza con la canna. Tutto per noia o peggio, per paura della noia.

Resistenza alle scorciatoie. Dovrebbe essere un impegno prioritario, persino cristiano per chi ci crede. Penso ai complottismi che stanno insudiciando le nostre timeline, che dovrebbero essere invece spazi di riflessione pulita. Da anni mi dedico al debunking e sono abbastanza rodato (una volta mi inserirono in un elenco di “nemici della verità” da “abbattere”, ma poi appena la polizia postale fece bau, gli “amici della verità” se la squagliarono facendosela sotto) e sono abituato alla virulenza di certe offese. Ma mai come adesso ho assistito al dilagare dell’ignoranza travestita da libertà. “Ognuno la pensa come vuole” è il refrain di chi ti spaccia la minchiata del momento (solitamente manco l’ha letta): e invece no, su certezze acclarate da chi ne sa più di noi, soprattutto in questi tempi di post-antivaccinismo del cazzo, ognuno la pensa com’è giusto che si debba pensarla. Secondo scienza e coscienza. Del resto, come si dice, ci sono molte scorciatoie per il fallimento, ma non ci sono scorciatoie per il successo.   

La storia che sghignazza

C’è un mondo alla rovescia che potrà essere sanato (o salvato?) solo da una misericordia divina possibilmente centrista e post-democristiana. O al limite smemorata. La storia dell’uomo che entra in coma a Bergamo e si risveglia a Palermo è un romanzo che dovrà essere narrato alle generazione future, con la calma e la risolutezza dei nonni che diventerete (io sono fuori gioco).

Complicato spiegare a un fanciullo nato nel ventre di Facebook che la tomba del federalismo è stata proprio quell’Italia che, per sua fortuna, si è rivelata diseguale nel momento cruciale, cioè quando un virus che voleva essere livella (vedi Totò) si è ritrovato fregato da determinanti increspature orografiche e culturali. Impossibile conciliare, ai suoi occhi ingenui, le posizioni grottesche di analfabeti che brandivano un sapere scientifico non loro con l’evidenza di un universo ben confinato che per salvarsi deve fidarsi di una classe di studiosi che non è cresciuta sui social ma nelle antiche e desuete università. Divertente raccontargli che i concittadini di quell’uomo, e magari lui stesso chissà, qualche tempo fa ritenevano i terroni peggio dei negri (cit.) contando sulla peggiore delle sensazioni, quella indotta per ignoranza e per sentito dire.

Insomma la storia del bergamasco salvato dal Coronavirus a Palermo, in quello che lui sino a un paio di mesi fa probabilmente non avrebbe esitato a definire come il buco del culo del mondo, è la testimonianza che Fidel Castro sbagliava: la storia non sempre assolve. Molto spesso sghignazza.         

Coronavino

Faccio parte della generazione cresciuta con la pubblicità del “brandy che crea l’atmosfera” e che si domanda ancora com’è che con la Vecchia Romagna Etichetta Nera (che oltre a creare l’atmosfera consumava il fegato) finivi sulla vetrina di Carosello e con un grammo di marijuana finivi in commissariato. Siamo figli di molti errori, a partire da una mela, un albero e un serpente, roba che poteva essere l’incipit di una barzelletta e invece diventò il principio dell’umanità o giù di lì.

Ora, in questo mondo in cui per concederti due passi sotto casa devi avere un cane o un figlioletto perché senza sei un pericoloso criminale (più che se li avessi e li picchiassi), si scopre che il vino non è un bene necessario.

In vita mia ho sempre diffidato degli astemi militanti, cioè quelli che non si limitano a stare lontano dagli alcolici ma professano orgogliosi i motivi della loro scelta pretendendo di fare proseliti. Ciò significa che ognuno ha i suoi difetti, e il non bere vino è per me questione pregiudiziale quando scelgo una persona con cui andare a cena, ma anche che la più irritante delle presunzioni è quella da eleggere come manifesto. Il vino piace o meno, ma il piacer meno non può essere né motivo di orgoglio né elemento di discriminazione a mezzo decreto.

Il vino c’era quando il migliore di noi, uno che la sapeva lunga, spartì l’ultimo pasto con il mascalzone che lo avrebbe tradito prima del dessert. C’era quando gli artisti che avrebbero preso la fantasia del mondo sulle loro spalle scelsero di intrappolare un’idea su carta, tela o marmo. C’era quando la storia si accontentò di un paio di firme per deviare il suo corso. C’era al primo appuntamento di due innamorati e all’ultimo pasto del condannato. C’era ieri che sembrava un’altra vita e c’è oggi che non vediamo ancora un’altra vita.

Vietarlo incidentalmente non considerandolo degno di un’uscita regolamentata – allineati al supermercato come pedine su una scacchiera sperando che non sbuchi un alfiere in mascherina a mangiarci – è una carognata infame come solo certi burocrati possono immaginare. È una ragione in più per difendersi dalla presunzione di chi non sa, non vuole sapere, vuole calpestare chi sa. E per scolpire nel muro dell’eternità il vecchio adagio: bevo per rendere gli altri interessanti.

Stalli e stallieri

La polemica politica, in questo momento storico, ha connotazioni da esplorare. La storia ci insegna che esistono strapiombi e strapuntini. Qui siamo al punto che chi sta sullo strapuntino vuole discettare sul destino di chi sta sullo strapiombo.

Brevemente. Piaccia o non piaccia Conte e il suo governo, chi lo critica ora con un Paese alle prese con la più grave crisi della sua storia, immagina una svolta politica a breve? Tipo elezioni? Sapete quanto costa una tornata elettorale? Forse no, ma sapete di certo che è inutile immaginare una tornata elettorale con le prescrizioni sanitarie attuali. Quindi, fuffa a parte, siamo nell’iperuranio della sensibilità politica. In guerra non si perde tempo con beghe di quartiere, non ci si trastulla con le menate, ci si schiera nel segno di un obiettivo comune. Se fossero esistiti i social network ai tempi della Seconda Guerra Mondiale probabilmente lo sbarco in Normandia sarebbe fallito per colpa del coglionazzo telefonomunito di turno e saremmo tutti in un mondo tipo quello di The Man in the High Castle, senza la via d’uscita dei film 8 mm (chi non capisce il senso di questa frase ha quattro giorni di tempo per allinearsi) .

La politica in questa fase ha una prova ardua da superare: rendersi credibile una volta per tutte. Materializzarsi in quello che dovrebbe essere sin dall’alba dei tempi il bene dei cittadini. Il momento drammatico nel quale ci troviamo è un banco di prova poiché mette i partiti dinanzi alla responsabilità più grande, quella di saper rinunciare agli steccati, all’interesse di orticello. Complicato per un sistema in cui, da decenni, ci sono formazioni politiche nate solo per interessi di fattorie, fattori e… stallieri.   

E poi l’Europa, il sindacato… le entità più impalpabili che esistano. Tirarle in ballo quando si parla di emergenze reali significa voler diluire le responsabilità. Ci dimentichiamo che sino a qualche mese fa il nostro precedente governo sputava in faccia all’Europa, invocava confini e divisioni, rideva e si faceva ridere dietro nello scenario internazionale. Improvvisamente, quando abbiamo le pezze al culo, ci riscopriamo europeisti. Quanto al sindacato, stasera ho visto in tv Landini che esortava il Governo “a costruire un’unità del Paese”, mentre nessuno sommessamente gli chiedeva conto del fatto che, in regime di emergenza, sono le parti sociali a dover fare un passo avanti in tal senso, non il contrario. È la storia, è il buon senso e quel che ne rimarrà.

Dopo anni di cazzate letali…

Nell’infinita fallacità delle nostre cronache dall’isolamento, fatte di gesti qualunque che d’improvviso scopriamo preziosi, di moderne ricette alle quali ci aggrappiamo come fossero scialuppe, ci sono segni che ritroviamo come orme nella sabbia. Ed è sempre la memoria a venirci in soccorso giacché persino il presente più imprevisto è figlio di un passato ben noto.

Apri e chiudi: i confini, il rubinetto della diffidenza, quello della speranza. Ci siamo sommersi nella merda di chi predicava frontiere chiuse, diffidenza nei confronti dello straniero, autonomia economica, monopolio della civiltà. Ci siamo ridotti a chiedere aiuto a chi avevamo sputato istituzionalmente in faccia, a elemosinare una mascherina a quelli che prendevamo per il culo, a chiedere aiuto in casa nostra a quelli che – noi, bugiardi patentati – ci ostinavamo a voler aiutare a casa loro.

È la nemesi di un potere perduto, di una generazione di incolti. È la degna sepoltura di una indegna classe di italiani che ha confuso l’ignoranza con l’innocenza, premiando l’incompetenza e additando il valore acclarato come un privilegio da abbattere. Ne parlavamo l’altra volta, basti pensare ai no-vax che in questa crisi mondiale dovranno faticare per trovare un’uscita di sicurezza che li salvi dal linciaggio morale: anni e anni di cazzate letali di cui dovrebbero essere chiamati a rispondere davanti alla giustizia. Ma non va dimenticata un’intera classe politica di negazionisti, di supponenti della ragione, perché quando un ministro e/o un sottosegretario (cioè persone che stanno ai vertici assoluti della catena di comando) insinuano il sospetto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna dovrebbe scattare l’obbligo di camicia di forza: chi regge le sorti di un Paese non può disorientare, gettare sabbia negli occhi della popolazione quando si occupa lo scranno più alto è qualcosa di simile all’alto tradimento.

Apri e chiudi. Alla fine abbiamo capito con una morale feroce che il grande nemico non veniva dal mare con i barconi dei disperati, ma da un jet con volo intercontinentale e parlava italiano, anzi lombardo. Se davvero c’era qualcosa da chiudere, era la bocca della “rana dalla bocca larga”. Se c’era qualcosa da aprire era la nostra mente, e che cazzo.

Nell’infinita fallacità delle nostre cronache dall’isolamento c’è poco da raccontare, a parte cibo, adipe, serie tv, intrattenimenti vari, multichat e nuovi onanismi. C’è però molto su cui riflettere sugli errori che non dovremo mai più commettere, sulle persone di cui non dovremo mai più fidarci, sulle scorciatoie che mai più prenderemo.

Impariamo a essere intolleranti.
Il “sì però” ci ha portati a questo punto.
Ora proviamo a praticare il “mai e poi mai”.  

E sono cazzi

Mettiamola così: l’isolamento forzato è un’occasione imperdibile per capire di cosa e di chi avremmo potuto fare a meno da secoli. Del resto l’evoluzione ci insegna che i pesci meritano di essere catturati perché sono pigri: due milioni di anni e ancora non si sono decisi a uscire dall’acqua. Parola di vegetariano, eh.

Ecco, forse c’è un motivo per cui noi non ci siamo decisi a uscire dalla nostra bolla per capire di essere pesci parlanti.

Non so cosa resterà di questi mesi tremendi. So di certo che non resteranno le sensazioni di fragilità e di smarrimento che pure ci farebbero bene, perché il nostro difetto di specie è la memoria corta. Noi – sempre e sempre – finiamo per giustificare l’assassino dell’altroieri, per votare il ladro che ci ha affamati, per frequentare il mascalzone del villaggio che ha il solo vantaggio di essere simpatico, per affermare senza vergogna che si stava meglio quando si stava peggio. Ecco – una mia ossessione quasi letteraria – il nostro problema generazionale, anzi epocale, è la memoria irrimediabilmente corta.

Non si spiegherebbero altrimenti i ritorni di fiamma nei confronti di parti politiche che hanno azzannato questo Paese in tempi di pace e che lo hanno guidato verso la griglia rovente in tempi di guerra. Non si spiegherebbe l’orgoglio di ignoranza con cui si gestiscono battaglie insensate come quella contro i vaccini obbligatori che, negli anni scorsi, ci hanno costretti a dilapidare il nostro tempo per ribadire l’ovvietà a un esercito di scimmie manco ammaestrate.

Ammettiamolo, siamo stati folli a tollerare simili nefandezze. Lo dico da giornalista ai giornalisti. Occorreva una scelta dirompente, con un coraggio che non ci appartiene come nazione (le guerre alle nostre spalle parlano per noi, alla storia e ancor di più all’indole di un popolo che sa vincere inginocchiandosi). Bisognava saper gestire l’arma più complessa da manovrare quando si parla di sentimenti pubblici e privati: l’indifferenza.

Essere in grado di ignorare è il migliore antidoto contro le follie domestiche: in famiglia come nella casa nazionale.

Ora siamo agli arresti domiciliari e tutto è congelato. E il freezer non estingue il male, lo conserva, lo rende un po’ più eterno. E sono cazzi.   

Junior Cally vive, Tupac no

C’è questo gran parlare di Junior Cally e del suo testo violento e sessista che ha scatenato le immancabili polemiche politiche su Sanremo. Solo che, come spesso accade in Italia, preso un problema, si tende a polverizzarlo in mille coriandoli per farne effetto speciale anziché analizzarlo.

Il rapporto tra musica e violenza, per non dire di quello tra arte, etica e politica (un secolo fa ne scrissi qui), non è mai stato recensibile senza le adeguate precauzioni: ergo conoscenza, conoscenza e ancora conoscenza.

Tupac Shakur, il più grande e controverso rapper che abbia mai ascoltato, era legato alla criminalità afroamericana di Los Angeles, adorava Shakespeare, si batteva per i diritti civili dei neri, scrisse una canzone meravigliosa alla mamma attivista delle Pantere nere, e morì nel 1996 dopo una sparatoria a Las Vegas al termine dell’incontro di boxe tra Mike Tyson e Bruce Seldon all’MGM. Dichiaro che non sono un patito del genere, il mio rap ideale rimane quello della Sugarhill Gang che al massimo ammetteva una deriva del tipo:

“He can’t satisfy you with his little worm
But I can bust you out with my super sperm!”

La tentazione di piallare tutto con la scusa di un sentire comune o, come si diceva una volta, di un immaginario collettivo è sempre stata fortissima. Ma l’arte non è uguaglianza, altrimenti sarebbe welfare. Arte e welfare sono sistemi distanti, spesso antitetici. Ecco perché ogni tentativo di censura è odioso, quando si parla di opere dell’ingegno.

Questo vale per Wagner, per D’Annunzio, per Wilde, per Pasolini, per Tupac e per tutte le stelle che cadevano all’incontrario.

C’è solo un limite a questo ragionamento. L’arte non può mai essere un alibi o un paravento. Chiunque spari una cazzata e ci metta sotto una musichetta o la verghi su carta pregiata non acquisisce nessun diritto. Junior Cally, per quel che mi è dato sapere, non ha fatto nulla di congruo al di fuori delle sue bighellonate sgangherate. Quindi non facciamone un gran parlare e soprattutto non oltraggiamo la memoria di chi sapeva ferire le nostre coscienze ammaliandoci con la droga del bello.

Il welfare degli spaccaossa

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Il welfare delle mazzate. Dai verbali degli spaccaossa, la banda che truffa le assicurazioni con atroci ferimenti volontari e organizzati, il modello che emerge è quello di una sorta di stato sociale parallelo, con tanto di regole di mercato e linee economiche sanguinolente.

Lo scenario è quello di una Palermo tanto disperata quanto cinica, con personaggi che a tratti ricordano il Mister Wolf di Quentin Tarantino, interpretato da un favoloso Harvey Keitel, che in “Pulp Fiction” compare solo per 10 minuti, eppure emerge come un protagonista non solo della storia ma di una metafora sempiterna: lui “risolve problemi” e non si cura di sangue e dolore.

Allo stesso modo alcuni protagonisti della crudele storia degli spaccaossa si pongono come risolutori, coloro i quali cioè sono nella scena del delitto per proporre soluzioni. E non c’è nulla di asettico, almeno in principio poiché dai verbali degli indagati emerge un barlume di sensibilità (si fa per dire): “Io all’inizio di queste fratture non ne volevo sapere perché le persone si facevano veramente male”, ammette il capo della banda Antonino Di Gregorio davanti ai magistrati.

Ma il suo cuore tenero ci mette poco a cedere alle ragioni dei soldi perché, fatti bene i conti, se il lavoro non se lo fosse preso lui se lo sarebbe accaparrato qualcun altro. Insomma quando il business c’è, il vantaggio è di chi lo sfrutta per primo. Che siano tibie spaccate o carta bollata poco importa, fondamentale è massimizzare gli utili.

Il modello economico del clan cambia all’improvviso quando l’intuizione storta di De Gregorio lo porta a una considerazione gelidamente elementare: “Prima gestivamo le pratiche di chi si faceva male da solo… Ma lo facevano tutti a Palermo e i guadagni erano troppo bassi. Dovevamo evolverci e dal 2017 abbiamo cominciato ad occuparci di casi in cui le fratture venivano appositamente inflitte per ottenere i risarcimenti sostanziosi”. Ecco la svolta: dal modello estensivo al modello intensivo, tipo coltivazione del grano.

Nella terra del caos, nell’Isola della disorganizzazione come modello funzionale di organizzazione, le poche strutture ben coordinate sono quelle criminali, non è una novità. Così gli spaccaossa sposano una filosofia aziendale rigidamente compartimentata: c’è il settore reclutamento delle vittime, quello dell’assistenza post-frattura, quello burocratico con un’aspirante avvocatessa che  si occupa delle carte dei risarcimenti, quello operativo delle mazzate, e persino quello medico ambulatoriale con un infermiere che fornisce anestetici e antidolorifici. Manca solo il customer care, ma evidentemente la disperazione non si recensisce, non prevede la casella “giudizio dell’utente”. 

L’astrazione tutta siciliana del concetto di causa da quello di effetto diluisce il rumore sordo della mazza sul femore in quello del tintinnio della moneta. Un colpo ben assestato e l’affare è fatto in un sistema in cui la vittima è vittima due volte: di una violenza e di un modello. “Purtroppo in città c’è molto bisogno, in giro c’è molta povertà… gli davo 500 o 600 euro e poi facevo partire il sinistro…” chiosa il Signore delle Tibie ipotizzando, senza ammetterlo, che uno stato di necessità possa alimentare un mercato in cui la merce principale è il dolore fisico imposto. Nulla di nuovo nella terra in cui lo slogan “la mafia dà lavoro” non è mai stata una provocazione bensì una fede maledetta. 

Odio, fenomenologia del contagio

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Attenzione alle parole: “Non dormo più la notte da quando mi sono resa conto di cosa ho fatto, non dovevo insultare in quel modo su Facebook il capo dello Stato”. E ancora: “Era un periodo molto caldo, in cui gli animi erano surriscaldati da alcuni parlamentari dei Cinque Stelle di cui ero simpatizzante. Mi sono lasciata contagiare stupidamente da questi fatti. Io che sono madre, nonna, amante della pittura e degli animali”.

Sono alcune frasi pronunciate davanti ai magistrati di Palermo da Eliodora Elvira Zanrosso, 68 anni, una degli scriteriati che scrissero oscenità sui social network sul presidente Mattarella dopo che questi, nel maggio 2018, aveva respinto la nomina di Paolo Savona come ministro dell’Economia. La signora in questione è un prototipo perfetto dell’hater moderno giacché fornisce con la sua testimonianza tutti gli elementi che servono a identificare una fenomenologia dell’odio e del suo contagio.

In mezzo agli infiniti interrogativi su come sia possibile che una tranquilla persona “madre, nonna, amante della pittura e degli animali” si trasformi in una guerrigliera della volgarità, che al confronto “Napalm51” di Crozza è un monaco benedettino, scrivendo a Mattarella “Ti hanno ammazzato il fratello, cazzo… non ti basta?”, sorgono due certezze. La prima è che nulla di tutto ciò nasce in rete. La fonte dell’odio è sempre esterna al web ed è legata a un vento di irrazionalità e di incoscienza che soffia sul mondo delle cose reali, analogiche, sulle promesse della politica, sulle disparità di economie dissennate. Qualcosa di molto simile a una moda che si diffonde orizzontalmente calpestando culture, religioni, identità nazionali. Prendiamo il piercing, una pratica antichissima, addirittura preistorica, che serviva per marcare le differenze, i ruoli, tra i componenti di una tribù e che oggi, al contrario, è simbolo di omologazione: averlo significa essere nella tribù, aderire alla convenzione, vivere appieno il tempo in ci si è catapultati. Il piercing è una moda che è contagio fine a se stesso, senza ragione, senza storia. Esattamente come accade con l’odio.

La seconda certezza è che l’anonimato non più ha alcuna influenza sulla fabbrica della violenza verbale. Sembrano passati millenni dalle vecchie lettere minatorie, da quei messaggi costruiti con i ritagli dei giornali, simbolo di un artigianato della minaccia che ormai appare grottescamente desueto. Oggi tutto è in chiaro, esplicitamente vomitato. Pudore e paura – pudore nell’esporsi in una nudità di cattiveria, paura per le conseguenze che l’atto offensivo può innescare – sono seppelliti dall’impeto del clic: il mouse come una bomba molotov, la tastiera come la P38. I nuovi odiatori si mostrano col loro volto, sorridenti nel tinello, col gatto sulle ginocchia e il nipotino che dorme accanto. La pulsione li coglie alle spalle, senza quasi che se ne rendano conto.

Nel 1977 Don Siegel girò un film intitolato “Telefon”, il cui soggetto era tratto da un romanzo di due anni prima di Walter Wager. Si raccontava di un nutrito gruppo di spie sovietiche infiltrate negli stati Uniti, durante l’epoca della Guerra Fredda. Queste persone però non sapevano realmente di essere agenti segreti poiché erano state condizionate mediante lavaggio del cervello. Agivano e pensavano come perfetti cittadini statunitensi pur essendo inconsapevolmente pronte a svolgere il ruolo per cui erano state manipolate. L’impulso che attivava la loro volontà criminale arrivava per telefono ed erano alcuni versi di una poesia di Robert Frost, “Stopping by Woods on a Snowy Evening”: “I boschi sono belli, oscuri e profondi, ma ho promesse da mantenere e molte miglia da percorrere prima di dormire… molte miglia da percorrere prima di dormire”. In tal modo cittadini apparentemente innocui si trasformavano in sabotatori suicidi, che nulla ricordavano sin quando era troppo tardi.

Ora rileggiamo le dichiarazioni della signora Zanrosso: “Non dormo più la notte da quando mi sono resa conto di cosa ho fatto”: la sabotatrice che si risveglia.

“Era un periodo molto caldo, in cui gli animi erano surriscaldati da alcuni parlamentari dei Cinque Stelle di cui ero simpatizzante”: il meccanismo di attivazione.

“C’era Grillo che gridava da una parte, Di Battista dall’altra. Dicevano: prepariamoci a scendere in piazza. Buttiamo giù tutto il governo”: la paradossale chiamata in correità.

Tutto nel rispetto delle regole irregolari del contagio dell’odio. Ma il vero colpo di teatro non è il risveglio tardivo dell’”agente Zanrosso”, bensì il suo uno e due, il suo essere se stessa e un’altra.

Se fosse un film sarebbe trama poco plausibile, ma è la realtà e ci si butta senza rete. “Ti hanno ammazzato il fratello, cazzo… non ti basta?”, ringhia la nonna sui social. Ma dopo l’interrogatorio in Procura si materializza il suo alter ego: “Io li ho vissuti gli anni Ottanta, so chi era Piersanti Mattarella, il fratello del capo dello Stato. Voglio andare dal Presidente, voglio chiedere scusa”.

Dobbiamo ancora imparare a riconoscere i danni provocati da questo virus contagioso, però abbiamo piena contezza del sintomo principale: lo sdoppiamento di personalità.    

La domanda cruciale è: da dove origina tutto ciò?

Per cercare di capire dobbiamo andare indietro nel tempo, almeno sino al 1922 quando Walter Lippmann, premio Pulitzer, pubblica un saggio dal titolo “Public Opinion” in cui spiega come le idee dell’opinione pubblica possano essere distorte con relativa facilità. La sua tesi è che l’opinione il più delle volte non rispecchia la realtà, troppo complicata per essere capita. Inoltre questa dipende dallo pseudo-ambiente esterno che ogni individuo si costruisce in base a pregiudizi e in maniera più emotiva che razionale. Il concetto cardine di Lippman è lo stereotipo sociale, cioè una visione distorta e semplificata della realtà, una galleria di immagini mentali che ci costruiamo per semplificare il mondo e per renderlo a noi comprensibile. Che sfoci nel ciclone Black Friday o nel  dichiarazionismo forzato della Giornata contro la violenza sulle donne, il contagio della mobilitazione a mezzo social può contare su un abbassamento delle difese immunitarie del nostro libero arbitrio. Facciamo cose senza crederci: condivido ergo sum.

Col tempo affiorano nuove tecniche, sempre più raffinate, per plasmare come creta l’opinione pubblica. Si arriva così al grande inganno della sondocrazia, cioè quel falso modello di democrazia in cui la politica finge di governare per cambiare la società basandosi su “quello che la gente vuole”. È il modello demagogico attualmente in voga su Facebook e similari, che insegue persino le pulsioni più insane dell’opinione pubblica, stimolandole, per poi svolgere il vero ruolo, quello diabolico, di persuasore occulto.

Bobby Duffy, professor of Public Policy, direttore del Policy Institute presso il King’s College di Londra e soprattutto ex direttore generale della società di ricerche Ipsos, ha lavorato a lungo per studiare i rischi della distanza tra percezione e realtà (ci ha scritto anche un libro, “The perils of perception”) e lo scorso anno ha scoperto che gli italiani sono quelli che stanno peggio al mondo. “Hanno ipotizzato che il 49 per cento dei connazionali in età lavorativa fosse disoccupato, mentre in realtà si trattava del 12 per cento. Hanno valutato che gli immigrati fossero il 30 per cento della popolazione, quando la cifra reale era del 5 per cento. Hanno ipotizzato che il 35 per cento delle persone in Italia avesse il diabete, quando in realtà è solo il 5 per cento”, ha scritto. Ma non finisce qui. In Italia tendiamo a sovrastimare anche il tasso di criminalità, i livelli di obesità, perfino la percentuale degli ultrasessantacinquenni tra noi.

Con un’opinione pubblica così, tutto è più complicato. O più semplice. Dipende dai punti di vista. Complicato per chi cerca di rimanere aggrappato ai fatti, semplice per chi li gestisce tramite la sondocrazia magari per sfruttare percezioni più utili per i suoi scopi.

Il quadro eziologico del nostro contagio adesso è più chiaro.    

C’è un virus dell’odio che giova a una certa classe dirigente.

C’è un vettore social dell’infezione, tipo zanzara con la malaria.   

Ci sono gli untori, cioè gli spargitori (o spammatori?) del male.

E poi c’è il precario stato di salute del corpo nel quale si diffonde l’infezione, un Paese gravemente fiaccato dall’analfabetismo funzionale: i dati della più importante indagine di settore, lo studio Piaac, collocano l’Italia al quarto posto di questa triste classifica mondiale con il 28% della popolazione adulta “incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.

Schematizzando. Siamo un Paese in cui molte persone hanno pochi strumenti, o se li hanno non li sanno usare, per barcamenarsi in una realtà oggettivamente complessa, e che quindi cercano una scorciatoia per sentirsi adeguate: vanno a caccia di short-version magari condite con un’abbondante dose di emotività, che le aiutino a sentire quel che non sono in grado di capire. Ciò al netto del famoso effetto Dunning-Kruger, un bug cognitivo secondo il quale meno le persone sanno più presumono di sapere, causa di danni irreparabili soprattutto in sovrapposizione col dilagare di un’incompetenza talmente profonda e radicata da non arrivare neppure alla soglia della consapevolezza.

C’è infine la questione controversa della filter bubble cioè della bolla di filtraggio: gli algoritmi dei social media ci porgono prevalentemente contenuti che potrebbero piacerci, e che quindi confermano le nostre opinioni. Ma su questo fenomeno esiste una fronda di osservatori del web che tende a minimizzare gli effetti del filtro rinviando ai comportamenti della vita reale: in fondo anche quando la sera usciamo a cena scegliamo di andare con persone scelte sempre nella stessa cerchia di amici e conoscenti.

Quando Manlio Cassarà, un altro degli odiatori di Mattarella sotto inchiesta a Palermo, ebbe il suo “risveglio” dalla trance di violenza verbale che gli aveva ispirato un “hanno ucciso il fratello sbagliato”, la prima cosa che disse fu: “Ho scritto senza riflettere”. Confermando un concetto di libertà applicato ai social secondo il quale un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto. 

Anche la nonna emula di Napalm51 nel suo “risveglio” ha usato un simile argomento a sua discolpa: “Ho quasi 70 anni, faccio parte di quella generazione che non è certo composta da geni della tastiera, ho la terza media, sono istintiva. È stata la mia inesperienza, eravamo tutti su di giri in quel momento”.

L’idea di far passare per frasi buttate così, pseudo-argomentazioni violente e offensive è purtroppo un effetto secondario, ma non meno pernicioso del virus. Perché non esistono scuse che possano far rimarginare la ferita quando è il contagio che determina il destino di una teoria, anche la più balzana, non la sua validità.