C’è un mondo alla rovescia che potrà essere sanato (o salvato?) solo da una misericordia divina possibilmente centrista e post-democristiana. O al limite smemorata. La storia dell’uomo che entra in coma a Bergamo e si risveglia a Palermo è un romanzo che dovrà essere narrato alle generazione future, con la calma e la risolutezza dei nonni che diventerete (io sono fuori gioco).
Complicato spiegare a un fanciullo nato nel ventre di Facebook che la tomba del federalismo è stata proprio quell’Italia che, per sua fortuna, si è rivelata diseguale nel momento cruciale, cioè quando un virus che voleva essere livella (vedi Totò) si è ritrovato fregato da determinanti increspature orografiche e culturali. Impossibile conciliare, ai suoi occhi ingenui, le posizioni grottesche di analfabeti che brandivano un sapere scientifico non loro con l’evidenza di un universo ben confinato che per salvarsi deve fidarsi di una classe di studiosi che non è cresciuta sui social ma nelle antiche e desuete università. Divertente raccontargli che i concittadini di quell’uomo, e magari lui stesso chissà, qualche tempo fa ritenevano i terroni peggio dei negri (cit.) contando sulla peggiore delle sensazioni, quella indotta per ignoranza e per sentito dire.
Insomma la storia del bergamasco salvato dal Coronavirus a Palermo, in quello che lui sino a un paio di mesi fa probabilmente non avrebbe esitato a definire come il buco del culo del mondo, è la testimonianza che Fidel Castro sbagliava: la storia non sempre assolve. Molto spesso sghignazza.