Il bagno più piccolo del mondo

Vila Franca de Xira – Azambuja

Faccio parte di quelli che pensano che i viaggi sono anche disagi. Non che me li vada a cercare, i disagi, ma è vero che ne tollero una certa quantità se essi sono in qualche modo parte di un contesto inevitabilmente bello e interessante. Del resto un camminatore che macina centinaia e centinaia di chilometri con lo zaino in spalla non è proprio il turista da resort maldiviano. Per dire, io alle Maldive ci sono stato, mi sono grattato la panza sotto il sole, bello bellissimo: poi basta però.
E’ una questione di soffi vitali, come nella musica o nell’abbigliamento. Ci sono periodi (di cui magari poi ti vergogni) in cui ti strozzi di hard rock, ti inguaini in jeans stretti o magari larghissimi (io ebbi il periodo “arancione” di cui credo di avervi parlato) e poi un giorno ti svegli tardo new wave, minimal black, nudista part time e tatuato pure nell’orecchio medio.
Insomma viaggi e disagi possono convivere a patto che ci sia una partitura che governi l’armonia della vacanza: rinuncio a una comodità se quella rinuncia è funzionale rispetto a una mia soddisfazione. E le soddisfazioni vanno coltivate con cura perversa altrimenti sono godimenti qualunque, sbadigli a cinque stelle, paranoie extralusso, rassegnazione da bordo piscina di resort esclusivo che accetta solo clienti con conto alle Cayman, ma di genealogia sumerica e per giunta mancini da almeno sette generazioni.
La buonanima di mio padre questa cosa proprio non la mandava giù e, come vi raccontai quando feci il Cammino del Nord, mi chiamava affettuosamente “il cretino”: proprio perché non capiva come un cristiano che lavora duro per undici mesi all’anno potesse decidere di fare le sue vacanze a scarpinare da solo invece di fare altro, e in quell’ “altro” c’era tutta la sua curiosità di giramondo comodista e buongustaio.

Tutta ‘sta manfrina per spiegarvi la foto che vedete sopra. Sono ad Azambuja, ridente cittadina (ina ina) a me nota per essere la terza tappa del Cammino portoghese. E sono qui solo per raccontarvi dell’esistenza del bagno più piccolo del mondo a me conosciuto.
Il lavandino, lo vedete, è poco più grande della mia mano. Quando ci si lava i denti il dilemma è tra ingoiare il dentifricio (menta sana in corpore sano) o sputarlo direttamente per terra. Sciacquarsi la faccia equivale a lavarsi i piedi (per fortuna la gravità rende alquanto impossibile il viceversa). Non dico del wc, per l’uso del quale non è contemplata la posizione eretta: o ci si incastra contorcendosi tipo gangbang di Rocco Siffredi o la si fa direttamente contro la finestra, che ovviamente è minuscola e difficile da centrare nel momento del bisogno, quindi resta il muro che è anch’esso piccolo quindi alla fine te la fai sui piedi (preferibilmente prima di lavarti la faccia). Ma è nella doccia che il vero combattente di viaggi&disagi, l’alfiere del turismo alternativo o, a seconda dei punti di vista, il cretino dà sfoggio della sua seducente perseveranza.
Non sono uno troppo voluminoso, però nel mio metro e settantotto per ottanta chili ho bisogno di un minimo spazio per il più elementare dei gesti: insaponarsi. E insaponarsi durante un Cammino è un investimento sul futuro dato che la quantità di sporcizia che si abbarbica alle carni in quei maledetti chilometri vorrà i suoi mesi per essere smaltita completamente: Bellolampo al confronto è una puzzetta al cinema.
Ve lo dico. La vergogna di muoversi con difficoltà sotto la doccia è l’ultima spiaggia per chi ha un minimo di autostima. Oggi, tra contorsioni e sbucciature di gomiti, credo di averla superata, quella benedetta spiaggia.
Alla luce di tutto ciò i 34 chilometri sotto il sole di domani (di cui venti senza fonti di acqua) sono una partita di bocce in un atollo tropicale dopo il gioco aperitivo.
Vi ho voluto bene.

4 – continua

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In passerella (e la moda non c’entra)

Alpriate – Vila Franca De Xira

In due giorni ho capito due cose (una cosa al giorno, non male!). La prima è che i portoghesi sono i maestri delle passerelle, le installano dovunque: nelle riserve, in riva a fiumi e mare, persino in mezzo alle aree industriali abbandonate. La seconda è che arrostiscono sempre e comunque, con qualunque temperatura, dappertutto. Per farvi capire, come noi friggiamo loro arrostiscono.  
Cugina evoluta della passerella, nella accezione portoghese, è la pista ciclabile. Che qui non ha la valenza sociale che ha dalle nostre parti: ciclabile, uguale inutili biciclette, spazio prezioso tolto alle auto; esempio da tirare in ballo nelle discussioni oziose, le ciclabili di via Libertà a Palermo (istituite dall’ex sindaco Cammarata) che si schiantavano contro alberi, edicole e trincee di eterni lavori in corso. E non ha neanche l’intransigenza che ha in paesi tipo Svezia e Danimarca dove se rallenti o ti fermi per prendere fiato rischi un tamponamento e una cazziata (infinitamente meglio il tamponamento). 

In Portogallo la ciclabile e la passerella sono il liberi tutti dalle paranoie. Vai come vuoi, al passo che vuoi, nessuno ti caga di striscio, ci si muove ognuno coi cazzi suoi senza un questuante di pensieri altrui, un’ostruzione abusiva, un’invasione di campo fisica o allegorica.
Oggi mi sono sciroppato chilometri di passerelle e ciclabili lungo questo infinito fiume Tejo, che noi chiamiamo Tago manco fosse un biscotto, e non ho mai avuto un’interferenza. Sapete quando siete immersi nei vostri pensieri, con la musica giusta nelle orecchie, vicini al famoso momento perfetto? Ecco, questo Cammino che è lungo ma non strappacarni vi dà la scenografia adeguata.
Mai invadente, un sottofondo che si fa sinfonia da solo.

Non sono un urbanista né un esperto di politiche sociali. Ma sono in grado di capire che un territorio è davvero ben gestito quando non deborda nell’effettismo. Quando è la sua ordinarietà civile e orografica ad accompagnare il turista nel suo essere libero di assemblare e assimilare scenari, idiomi, odori, senza che prevalga un senso civico imposto: la festa comandata, l’evento stagionale (che prelude al buio), la masculiata senza preavviso ovvero il coitus interruptus di una pseudo-politica culturale.
Per tutto questo non serve una bacchetta magica, servono curiosità e costanza. 
I portoghesi sono più indolenti di noi, se ne fottono più di noi (poi, per carità, ti fanno l’insalata con le patatine fritte). Però dimostrano di avere rispetto del loro territorio e soprattuto di chi lo attraversa. E per un popolo che fu di conquistatori non è poco. 

3 – continua

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Il dolore e il piacere

Lisbona – Alpriate

Vi ho già spiegato perché nei Cammini le misure non contano. Ma è un concetto talmente importante che ve lo ripropongo con un paio di esempi che hanno a che fare col Cammino portoghese. Oggi la mia prima tappa era ufficialmente di 22 chilometri e mezzo: la misurazione ufficiale si basa perlopiù sulle distanze tra gli albergue, cioè tra gli ostelli dei pellegrini (che io non frequento). Siccome alloggio in B&B o hotel, non perché sia ricco ma perché detesto la coltura intensiva di ascelle sudate e calzini fetenti, le mie misurazioni sono diverse, spesso molto diverse. Oggi, per dirne una, il luogo in cui mi trovo è a tre chilometri dalla via che devo seguire, ergo tra oggi e domani dovrò percorrere sei chilometri in più.
Ed eccoci al secondo esempio.
Quanto pesano sei chilometri? Un camminatore mediamente allenato e senza zaino può muoversi in pianura alla velocità di 5, 5 chilometri e mezzo all’ora. Che con lo zaino diventano automaticamente 4, 4 e mezzo. Se non ci si mette una salita. E poi dipende se la salita è sotto il sole. Insomma i chilometri, come dicevo, non si contano, ma si pesano. Quei sei chilometri richiederanno almeno un’ora e mezza in più di cammino. E parliamo solo della prima tappa.
Ok, prometto di non rompervi più le scatole con questi onanismi numerici ma, scusate la metafora – ho già una fame pazzesca e qui siamo un’ora indietro –  è importante capire come funziona la lievitazione prima di parlare di pane. 

Fare da soli.
Anche il semplice allinearsi dei passi su una trazzera ,o la ricerca pacatamente disperata di una fonte d’acqua quando sei già in fase miraggio, rimanda a una modalità che ci appartiene sempre meno. E che proprio per questo andrebbe recuperata con orgoglio.
Fare da soli.
Seguire una mappa cartacea senza geolocalizzazione. Scrutare il cielo senza consultare la app meteo (oggi una persona mi ha scritto “che tempo fa lì?” E io ho risposto con la schermata del cellulare che lei stessa avrebbe potuto consultare da casa sua). Ascoltare il proprio corpo che macina passi, sussulta, innegabilmente soffre, ma ascoltare al contempo anche la propria mente che ride, felice e incosciente. Ci dimentichiamo di godere delle cose che spesso fanno male e bene al tempo stesso, ed è un peccato: fare da soli diluisce il dolore nel piacere e non è masochismo che, al contrario è dipendenza estrema dall’altro. 
Fare da soli qui nel sentiero sterrato lungo il rio Trancão è annusare l’aria stagnante e dolciastra e non catalogarla frettolosamente come maleodorante: contestualizzare è una regola del sapere,  decontestualizzare può esserlo del piacere, ma questa è un’altra storia. 

Insomma Lisbona è alle spalle (nella foto lo è davvero) e ora lo posso dire, non è vero che è una città malinconica. La malinconia non ha a che fare coi luoghi geografici, ma con gli esseri umani che li popolano. Il Fado no, quello è davvero strappa-attributi. Ma non mi pare il caso di aprire un dibattito. 

2 – continua.

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Fanculo al resto

Lisbona.

C’è un concetto cruciale che governa le esperienze di chi, come me, si imbarca da solo in cammini da centinaia e centinaia di chilometri. Ed è quello di abituarsi a sconfiggere le abitudini. Ad esempio, sto scrivendo dal tavolino di un bar molto rustico sul lungofiume di Lisbona: il tavolino traballa, la gente urla intorno a me, il vino “tinto” è caldino, la tastiera del mio iPad mini mi nasconde l’apostrofo e mi apre in continuazione finestre di funzioni sconosciute. Quindi sono davanti a tutto ciò che normalmente mi farebbe roteare i cosiddetti, eppure resisto con la consapevolezza che resisterò sempre meglio col passare del giorni e\o dei chilometri. Perché scardinare le abitudini è una ginnastica della mente o forse dello spirito (ma non voglio buttarla nel Terzanismo).
Questo preambolo serve a darvi un’idea di come si possono affrontare in modo diverso, non necessariamente spirituale o ginnico o religioso, percorsi come il Cammino portoghese.
Abituarsi è la parola chiave. Abituarsi a cose alle quali non siamo abituati, è la specifica dirimente.
Abituarsi alla fatica dei settecento chilometri del percorso (sui chilometri ci torneremo nel corso di questi diari) è molto più facile di cose tipo: trovare la “ù” o la “é” su questa maledetta tastiera che è poco più larga e infinitamente meno pratica di un iPhone; perdere oggetti nel quotidiano apri e chiudi dello zaino; cambiare letto ogni sera per 28 infiniti giorni; centellinare magliette e mutande; mollare tutto ma proprio tutto dei collegamenti ordinari e dedicarsi solo a se stessi (bella frase da social, ma provate a trasformarla in un concetto solido, senza emoticon).

Quando mi è stato chiesto, in tutti questi anni, qual è l’insegnamento di un’esperienza del genere  ho sempre risposto con l’illuminazione che mi venne, anni fa, al primo passo di una serie che mi avrebbe portato a quasi mille chilometri di distanza: la gioia di indossare un pensiero senza che nessuno si permetta di sgualcirlo. 
Siamo disabituati alla concentrazione, la riteniamo dei guru o dei fanatici. Degli altri più altri che ci siano insomma. E invece è la forma più sublime di cura di se stessi. 
Non sappiamo quando ce ne andremo, né chi ci sarà con noi stasera. Non sappiamo cosa faremo il mese prossimo, se abbiamo riposto fiducia in brocchi e abbiamo snobbato fuoriclasse. E ciò non perché ci manchino doti divinatorie (che palle prevedere il futuro…), ma perché ci manca il pit stop della ragione: fermarsi a pensare, e fanculo al resto.

Qui Lisbona. Zaino leggero, pochi vestiti, infiniti pensieri da indossare, zero abitudini, fisime, comfort, ronzii.
Si parte.  

1 – continua

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