La prima volta

Pòvoa de VarzimEsposende

Vi ho già parlato del cronocentrismo, cioè di quella sensazione di vivere sempre in tempi eccezionali in barba al passato soprattutto quando il passato ci sbugiarda. Tipo non ci sono più le canzoni di una volta oppure ai miei tempi la morale sì che contava. Ho fatto due esempi banali e pertanto parecchio attaccabili per evidenziare l’aspetto più evidente del cronocentrismo. Cioè il vedere le cose solo in valore della nostra età: tutto era migliore, tutto era profondo, tutto era vero. Ieri o l’altroieri.
Si tratta ovviamente di una visione miope come abbiamo imparato solo qualche anno fa col Coronavirus: credevamo di avere a che fare con la peggiore epidemia della storia solo perché non l’avevamo studiata, la storia.
Questo modo parziale di raccontarci le cose, sottolineo raccontarci, può essere aggirato facendo realmente esperienze diverse che quindi sfuggono alla smania del confronto coi “nostri tempi”. Io sui Cammini mi sono cimentato in tarda età dopo aver fatto tante altre cose tipo le maratone, ma mi guardo bene dal dire e dirmi: “Certo prima cinque chilometri li facevo in meno di 25 minuti, oggi li faccio in un’ora. Uè, non esistono più le gambe di una volta!”. Non vi sfugge l’anacronismo logico di una tale affermazione giacché il passato non lo si prende per il collo per buttarlo in campo, ma lo si invita garbatamente nel teatro della storia.

Ci pensavo oggi mentre attraversavo spiagge nebbiose (l’oceano ha dato spettacolo in tal senso) per la prima volta e mi veniva in mente un gioco che avrei proposto ai miei amici il prossimo inverno (poveri loro): progettare prime volte. Ovviamente cercando di elevare il livello della discussione al sopra della cintola con la contestuale eccezione delle gambe, dei piedi e di altre appendici non sospettabili.
La prima volta fa cadere gli alibi su cui il cronocentrismo poggia. E vi svelo un segreto: la migliore prima volta è quella di cui non avete contezza sin quando non si è dipanata interamente. Non si progetta, altrimenti è appunto un progetto e ha requisiti che possono fondarsi sul paragone col passato (e non va bene): è una prima mela offerta o trovata o conquistata all’improvviso, mai coltivata.
Quindi partire, provare, scovare, liberarsi.
Dffidate delle persone che pur potendolo fare non viaggiano mai, che parlano solo del loro lavoro , che non sognano mondi in cui finalmente sono quello che non sono.

P.S.
Saldo brevemente il debito col post di ieri (ma ci torneremo a bocce anzi a gambe  ferme). In questo Cammino i portoghesi mettono garbatamente in mostra la loro raffinata civiltà. Ogni lido, ogni spiaggia vicina a un centro abitato (quindi la maggior parte di quelle lungo la Senda Litoral), ha i suoi wc, le sue docce, le sue fontanelle pubbliche. E soprattutto ha le sue “biblioteche da spiaggia” (nella foto sopra) dove chi vuole entra, sceglie un libro e si accomoda nei tavolini sistemati all’ombra: è un’iniziativa aperta a tutti dai primi di luglio a metà settembre. Di certo è qualcosa per me perfettamente al riparo da qualsiasi tentazione di  cronocentrismo: mai ai miei tempi e nelle mie lande si sognò tanta polluzione di saggezza.

18 – continua

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Sabbia

 Vila Chā – Pòvoa de Varzim

“Vai a nuoto?”. L’anziano ciclista mi guarda e ride. Capisco il senso di quella domanda con qualche secondo di ritardo e scoppio a ridere pure io.
Avevo sbagliato strada e mancato in pieno un ponte: la strada davanti a me si chiudeva inesorabilmente nel fiume (questa zona è piena di fiumi e canali che finiscono nell’oceano). Grazie alle indicazioni del simpatico cristiano sono tornato indietro e ho recuperato il bivio perso. 
Effetti collaterali della distrazione. E io in quel frangente ero distratto perché venivo da un’esperienza intensa e non mi ero ancora ripreso: la camminata a piedi nudi sulla battigia, con l’acqua fredda dell’oceano quasi alle caviglie.
L’avevo preparata bene, va detto.
Siccome camminare sulla sabbia è faticoso, e con uno zaino sulle spalle lo è ancora di più, ho fatto in modo da far coincidere questa tappa, in cui c’era un tratto di spiaggia che mi piaceva particolarmente, con le esigenze di praticità. Ergo l’ho accorciata, spostando in avanti (e conseguentemente forzando) la tappa di ieri. In pratica ieri mi sono caricato di qualche chilometro in più per avere mano, anzi piede libero oggi.
Nulla è per caso quando hai settecento chilometri da portare a casa (e per di più a una certa età). 

Camminare sulla battigia è divertente, o romantico a seconda delle propensioni e degli annessi, o very cool se lo fai per una decina di metri e in costume (magari vista Twiga). Ma se quei metri diventano chilometri, se sulle spalle hai almeno undici chili e gli spallacci dello zaino hanno già scavato la loro tana nelle clavicole le cose cambiano.
Senza tenere conto – lasciatemi aprire una breve parentesi di Superquark del Cammino – che spesso la sabbia non è proprio fina, che ci sono pittoresche conchiglie che aspettano i tuoi alluci al varco, e che la tua casa sul groppone rispetto alle tue caviglie è come lo Stato per Matteo Messina Denaro, il nemico giurato. Senza tener conto che questa sabbia sta a metà, per teoria, tra quella del deserto che adora il nulla e quella della spiaggia che accarezza i corpi.
Anche abbandonata la battigia – perché la passione per la natura e la full immersion in essa talvolta sconfinano nell’autoerotismo e un punto va messo – le passerelle in legno non è che concedano massima tranquillità. In questa zona infatti si snodano tra le dune (che mia amica Tiziana, biologa, definisce “un habitat meraviglioso e ormai residuale”… a me sembrano collinette e basta) e spesso finiscono per essere sommerse dalla sabbia. Insomma si cammina sulla sabbia smossa, non compatta, la più complicata e snervante.
Alla fine i quindici chilometri di oggi, della tappa che doveva essere la più breve dell’intero Cammino portoghese, valgono in termini di fatica almeno il doppio secondo il famoso teorema.

Ora mi godo la cena in ristorante a Pòvoa de Varzim dove tra i tavoli lavorano i figli del titolare e con fidanzati/e annesse (che ovviamente parlano tutti l’inglese). Una gioia di gioventù, entusiasmo, good vibrations che già da sola vale almeno metà del conto.

P.S.
Domani vi racconto di wc, docce e biblioteche. Incredibili le biblioteche.

17 – continua 

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