Quel no a Peppino Impastato

Nella storia dei ragazzi del liceo di Partinico che dicono no all’intitolazione a Peppino Impastato perché “troppo politicizzato” e/o “divisivo” ci sarebbe da andare a fondo che più non si può. Cioè bisognerebbe presentarsi a questi ragazzi, ascoltarli, impiantare una redazione in quella scuola, ora, subito. Spogliarsi di tutte le certezze giornalistiche prêt-à-porter e mettersi in dubbio, noi giornalisti, noi raccontatori di storie, noi orecchianti di vite che non sono le nostre. Perché in quel “troppo politicizzato” e/o “divisivo” c’è un sintomo importante: che sia malattia o evoluzione, ribellione o strumentalizzazione è tutto da scoprire.
In “1979” (scusate se ci torno ma è una ferita ancora aperta, come tutte le creature artistiche sono ferite felicemente sanguinanti) c’è un paragrafo dedicato a Impastato che definisco come bell’immagine trendy dell’antimafia, bella nel volto e nel messaggio (“la mafia è una montagna di merda” era uno slogan geniale, allora). Sino a ieri Impastato era un’icona intoccata in quello che un tempo si chiamava immaginario collettivo e che oggi potremmo chiamare mainstream.

Ora i ragazzi di Partinico lo hanno messo in dubbio. E avranno le loro ragioni se gli preferiscono l’ex sindaco Gigia Cannizzo o Rosario Livatino (che non sono concorrenti, ma semmai comprimari – ognuno col suo ampio merito – di Peppino).
La tentazione sbrigativa è quella di guardare alla giunta di centrodestra per trovare un appiglio di condizionamento. Ma è troppo facile. E le cose troppo facili sono per noi giornalisti una mano su una campanella: quando suona bisogna drizzare le antenne, almeno così dovrebbe essere.
Mi piace pensare che il Peppino Impastato politicizzato e divisivo sia in fondo il vero Peppino Impastato, perché dividere, far discutere e (ri)animare il cuore della politica è in fondo il vero ruolo dei leader. Un bell’esempio è colui il quale scuote gli animi nelle buone intenzioni che vanno oltre la messa cantata. Di santi e unti dal Signore siamo pieni fino all’orlo di una indecente sopportazione (in fondo siamo il Paese che celebra corrotti e riabilita criminali conclamati). E comunque per loro ci sono già chiese, opere pie, programmi tv. Insomma c’è spazio a sufficienza.
Una scuola intitolata a un ribelle, eroico e ironico, geniale e solitario, è secondo me il migliore omaggio alla rivoluzione nonviolenta contro i violenti di ogni epoca, di ogni censo, di ogni colore politico.
Questo, se avessi un giornale, direi a quei ragazzi.

La fortuna di saper essere tristi

Tutti quanti abbiamo momenti difficili. E per non darvene uno a tradimento vi preavviso che questo post fa degnamente parte della categoria long form. Quindi leggete solo se avete tempo e voglia di mettere mano a un argomento che inesorabilmente ci riguarda tutti, ma altrettanto inesorabilmente è nascosto e/o mascherato da molti.
Premessa dello scrivente in nome e per conto dello stesso, a scanso di equivoci: parlare di difficoltà, di sentimenti urenti, di tristezza non significa necessariamente essere in difficoltà o avere le zampe impantanate nelle sabbie mobili della vita.
Si può, e si dovrebbe, discuterne senza remore, senza aver paura di disvelarsi o di schermarsi. Quindi io ci provo e mi tolgo subito il dente delle questioni personali: sono un Doc (da disturbo ossessivo compulsivo), ho avuto la fortuna di trovare una psicologa che mi ha illuminato e non disdegno di vivere appieno i miei momenti difficili. Inoltre, sbagliando, non condivido i miei problemi se non quando ho trovato una soluzione: non fatelo, è un atto di presunzione di cui aver vergogna.
Non sono mai stato un depresso, anzi la mia condizione vira esattamente verso l’opposto (e ciò non significa automaticamente che vada verso la felicità, eh).

Qualche anno fa la Pixar ambientò un cartone animato dentro il cervello di una ragazzina di undici anni. Ne venne fuori “Inside Out”, un’opera geniale e coraggiosa. Perché ci vuole genio per trasformare le emozioni umane nei personaggi di una storia. E ci vuole coraggio per rivendicare, tra queste emozioni, il ruolo fondamentale della tristezza, raffigurata come una bambina occhialuta, goffa e blu: blu, il colore dello spirito. Quante volte ci siamo sentiti inutilmente blu…
In pratica per buona parte del film la tristezza si accompagna alla gioia come un intralcio, una sabotatrice dell’ottimismo e della felicità. Ma alla fine la sua importanza viene riconosciuta.
Non è così nella vita vera, dove la tristezza è stata espulsa da qualsiasi discorso pubblico e privato. Trattata come un segnale di debolezza, una forma di sabotaggio.
Oggi come sempre il nostro sforzo quotidiano di giovani, vecchi, genitori, amici, figli, sopravviventi consiste nell’allontanare da chi ci è caro il fantasma della tristezza, quasi fosse una condanna a morte anziché un’occasione di crescita. È una questione culturale, frutto anche di una lunga epoca di imbonitori della politica che ci hanno sempre voluti pervasi da un entusiasmo ilare e beota. 
Per il pensiero comune e purtroppo dominante la tristezza è una iattura, è nemica dell’ottimismo nazionale, del negazionismo dei problemi, della sterilizzazione a uso social dei guai, insomma è un peso economico e sociale. In realtà basterebbe dare ascolto a un buon psicologo o a un’insegnante illuminata per rendersi conto che un essere umano incapace di accogliere la tristezza non è un essere umano, ma nel migliore dei casi un automa. Io la tristezza l’ho sempre vista come uno squarcio nel buio che ci permette di avere una visione delle nostre cose dall’interno, sotto una luce diversa, con una preziosa prospettiva. Talvolta mi sono rammaricato di non aver saputo essere triste abbastanza. Perché saper essere tristi significa essere consapevoli. E la consapevolezza è un buon grimaldello per le serrature dei momenti difficili.

Brevissima parentesi didascalica: ogni tanto serve, sennò discutiamo del sesso degli angeli. Oggi sappiamo che le emozioni fondamentali sono sette:
Gioia
Rabbia
Disgusto
Disprezzo
Tristezza
Sorpresa
Paura
Secondo gli psicologi servono a recapitarci dei messaggi. Come dei fedeli messaggeri, le nostre emozioni hanno uno spiccato senso del dovere: non accetterebbero mai l’idea di rinunciare alla loro missione. Quindi ogni volta che cerchiamo di intralciare la strada dei messaggeri, loro faranno in modo da trovarne una nuova: facendosi largo con ogni mezzo, scavando strade nuove, scavalcando muri e magari facendo qualche danno. Tutti abbiamo contezza di cosa significhi vivere una rabbia sempre più bruciante, oppure lasciare che una tristezza si tramuti, incontrollata, in un dolore sempre meno sopportabile.
Nel mio piccolo io adotto un metodo abbastanza semplice. Ogni volta che mi sto incasinando (e non immaginate quanto ciò accada spesso) cerco di riconoscere il messaggio, e soprattutto il messaggero, e di capire che minchia vuole.
Nei momenti difficili ad esempio ho decrittato che la tristezza incarna l’incontro tra il desiderio e i suoi limiti. E in particolare, spesso nel mio caso, non è l’esterno che in qualche modo delimita il desiderio, bensì è il limite stesso che è elemento costitutivo del desiderio. Quindi provare ad accettare la mia limitatezza aiuta in qualche modo a superare la tristezza. Ho detto provare, eh. Mica qui vendiamo le pozioni di Vanna Marchi.

E siamo alla parte più creativa del ragionamento: il rapporto tra tristezza e malinconia.
Victor Hugo scriveva della malinconia che è “la gioia di sentirsi tristi”. Non piace, ma è vero. A me non piace per niente, ma è innegabile che la malinconia genera creatività: non scriverei queste righe adesso se non fossi alimentato da una preziosissima malinconia, pur nella invidiabile serenità di casa mia.
Charles Baudelaire parlava di spleen: quel piccolo miracolo che si realizza quando la malinconia si traduce in una fertile produzione artistica e la sofferenza si trasforma in creatività.
Ecco, credo che solo se non viene scacciata subito, la malinconia può liberare questa energia ispiratrice. Poi c’è sempre un efficace termometro dell’umore facile da usare, ma questa ve la dico in un orecchio: quando siete felici vi piace la musica, quando siete triste capite i testi. Sssst!

Per finire vi riferisco di un’altra domanda che mi pongo quando il mio cervello rasenta il surriscaldamento: possibile che siamo prevalentemente chimica?
Qualche studio psichiatrico di cui ho letto (e di cui non trovo il link, mannaggia, ma fidatevi perché questa cosa l’avevo messa nei miei appunti di cassettista) è arrivato alla conclusione che un po’ di tristezza è utile alla nostra salute, mentre qualche altro, corroborato dalla nuda cronaca, ci dice che il mal d’amore può davvero uccidere.
Molti di noi conoscono il disagio o addirittura il dramma della depressione, pochi (io vorrei ardentemente essere tra questi) sanno leggere tra le righe del libro che scriviamo, giorno dopo giorno, con i nostri entusiasmi, le nostre incazzature, le nostre passioni e le relative delusioni. Siamo chimica, ci ricordano gli scienziati, siamo il frutto di un complicatissimo dosaggio istantaneo di ormoni, neurotrasmettitori, enzimi e chissà cos’altro. Dietro un sorriso c’è uno schizzo infinitesimale di serotonina. In una porta sbattuta c’è una mano dell’adrenalina. La visione biochimica delle emozioni mi ha consolato in qualche momento difficile, eppure mi ostino a valutare il calore di un abbraccio o l’incanto di un tramonto come qualcosa di estraneo ai composti del carbonio. Che la tristezza sia una tappa ineludibile nel lungo cammino verso la felicità ce lo insegnano i grandi artisti. Dietro un’opera memorabile c’è quasi sempre uno stato di insoddisfazione: uno scoppio propulsivo verso il meglio che si cerca e che non si trova. E – arrendiamoci – è questa tensione che ci regala il bello che non teme il tempo.

Soundtrack creata appositamente dalla mia amica Sarah

Schettino e il naufragio dell’informazione

Il caso della gaffe di Televideo su “Io capitano” associato alla storia di Schettino e del naufragio della Concordia rimanda a due considerazioni, che vi porgo in modo spero agile (perché il discorso potrebbe essere complesso).

La prima riguarda il disagio dei giornalisti come categoria in un Paese (verrebbe da dire in un mondo, ma restiamo circoscritti) che legge sempre meno e che, soprattutto, è sempre meno interessato alla qualità della lettura. E lettori pessimi si accontentano di giornali pessimi. Lo dimostra il fatto che esistono ottimi prodotti editoriali che nessuno compra, perché si preferisce la spazzatura gratuita dei social o di bassa lega.
Le redazioni sono svuotate per motivi economici, il lavoro che veniva fatto da dieci persone è oggi fatto da due, il che alimenta l’offerta di informazione scadente. In più ci si mette l’uso folle dell’intelligenza artificiale, che pare aver un ruolo nell’incidente di Televideo.

La seconda considerazione è figlia della prima. Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un loop paradossale (di cui stiamo già pagando le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Insomma – come scrissi qui qualche tempo fa – se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali.
La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Morale storta: cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.

1979, musica a gentile richiesta

Ci sono cose importanti che stanno a margine.  Soprattutto nei ragionamenti, negli incastri della socialità vera, nel semplice rapporto tra una domanda e una risposta.

Così, dopo “1979”, la principale domanda che mi è stata rivolta (dopo “ma come ti è venuta ‘sta cosa?” o tipo “chi te lo fa fare?”) è stata: dove possiamo trovare la playlist dello spettacolo? E, elemento di gran soddisfazione, la maggior parte di quelli che me lo hanno chiesto sono giovani (mai visti tanti giovani a un mio spettacolo, uuuh!).

È l’inaspettata conferma di quel che dico della musica proprio nei primi minuti di “1979”:

“…Serve perché per raccontare bisogna essere liberi e per ascoltare bisogna essere pronti a mettere a frutto la libertà che qualcuno ci porge. Soprattutto lasciarsi tentare dalla realtà che non è sempre triste e nefasta”.

Quindi, come si diceva una volta “a gentile richiesta”, eccovi in rigoroso ordine di apparizione, l’elenco delle canzoni dello spettacolo. Mentre qui trovate i link per la playlist su Apple Music e su Spotify

That’s the Way of the World – Earth, Wind & Fire

Fatti più in là – Sorelle Bandiera

Love to Love You Baby – Donna Summer

My Sharona – The Knack

Bad Girls – Donna Summer

Higway to Hell – AC/DC

Le Freak – Chic

Boogie Wonderland –  Earth, Wind & Fire, The Emotions

Y.M.C.A – Village People

Ma come fanno i marinai – Lucio Dalla e Francesco De Gregori

Too Much Heaven – Bee Gees

Je so’ pazzo – Pino Daniele

Another Brick In The Wall, pt. 2 – Pink Floyd

Don’t Stop ‘til You Get Enough – Michael Jackson

London Calling – The Clash

Message in a Bottle – The Police

Buona Domenica – Antonello Venditti

Last Train to London – Electric Light Orchestra

I Will Survive – Gloria Gaynor

I Can’t Tell You Why – Eagles

All My Love – Led Zeppelin

The Logical Song – Supertramp

Goodbye Stranger – Supertramp

Take the Long Way Home – Supertramp

Breakfast in America – Supertramp

Viva l’Italia – Francesco De Gregori

Come Keith Jarret

Ieri.
In una sera d’estate di quasi trentasei anni fa Keith Jarrett aveva cominciato a suonare (male) al Teatro di Verdura di Palermo quando uno spettatore lo fischiò. Il famoso pianista mollò tutto e minacciò di far saltare l’esibizione. Lo spettatore fu identificato e additato come un molestatore di arte pubblica. Mentre rischiava di essere ammanettato disse: “Amo troppo Jarret per sentirlo suonare così male”. Difesi pubblicamente quello spettatore, lui e il suo diritto di protesta. Perché non c’è contratto di consenso tra un artista e il pubblico pagante e perché, secondo me, nel merito aveva ragione.

Oggi.
Rientravo a piedi da una serata tra amici (fantastici, perché tutti loro rincasano allegramente a piedi come me e alla fine l’unico inquinamento prodotto da una simile adunata è quello acustico, per certe risate al di sopra di un’eventuale ordinanza). Lungo il tragitto ho incontrato un posto di blocco della polizia, in una zona dove spesso si posizionano le pattuglie per controlli.
Qualcosa ha attirato la mia attenzione. Ed era qualcosa di recondito.
La pattuglia aveva fermato una ragazza.

Reset.
Quante volte ho visto ragazze fermate a un posto di blocco?

Mi sono fermato, nel buio del marciapiede tipo maniaco dei giardinetti, senza l’impermeabile che cela nudità però.
E ho capito cosa c’era di recondito in questa mia esperienza.
Negli anni ho visto troppe ragazze e signore fermate ai posti di blocco. Infatti solo ieri sera, nel giro di pochi minuti, un’altra auto è stata fermata. E chi c’era alla guida?
Ora, io capisco che ci sono i controlli a campione, ma ‘sto campione lo vogliamo verificare, benedetto dio?

Non sono uno che sbava per certi estremismi moderni, per cui se non chiami avvocata un avvocato donna ti devono venire a prendere i carabinieri (anzi le carabiniere). Sono uno che se pensa alla schwa nella lingua italiana gli passa la fame di scrivere (che non è detto che sia un male per l’umanità, ma per me sicuramente lo è). Sono anche uno al quale piace la magia della contrapposizione maschio femmina, con le sue derivazioni maschio maschio, femmina femmina o quel che è, ognuno per i suoi gusti. Perché è fecondità mentale, curiosità, gioia, vita.
Però quest’immagine serenamente tollerata di posti di blocco pieni di femmine presunte sospette controllate da maschi presunti integerrimi, mi insospettisce.
Anzi, da cittadino dico che non mi piace affatto.

Sarebbe bene dare una sbirciatina a campione negli elenchi delle persone controllate ogni sera nelle nostre città, sempre che questi passaggi di “favorisca i documenti” siano documentati. Perché le nostre forze dell’ordine sono garanti, da me ammirate, di forza gentile, e di ordine indiscusso anche se talvolta la mia fede vacilla. Fugare un sospetto quando si parla di cose così delicate è un sollievo o un miraggio, a seconda del gradi di ottimismo. Comunque fa bene a quell’anima comune e desueta che un tempo chiamavamo società.
Insomma come allora al Teatro di Verdura, oggi scrivo da fan e difendo chi fischia se sul palco si stecca.
Amo troppo le nostre forze dell’ordine per vederle cadere in fallo.
Le amo come Keith Jarrett.

Angeli, demoni e manganelli

Nel caso delle manganellate agli studenti di Pisa e Firenze (ma anche negli altri, perché i manganelli rompono ossa in ogni tempo) oltre agli errori innegabili di chi ha picchiato ragazzi inermi, di chi ha stabilito le regole di ingaggio, di chi ha comandato la carica, di chi la difende e di chi la ispira, ci sono alcuni passaggi chiave per capire che se persino Mattarella si è incazzato la situazione è davvero grave.
Il problema infatti non è il singolo evento, che non è singolo, ma l’ambito. Che poi influenza i modi.

L’ermeneutica del diritto a manifestare ve la liquido in poche righe, giacché il tema è talmente inscalfibile e ampiamente spalmato sulle cronache da stimarlo come assodato (almeno tra noi). È giusto tutelare il diritto di dissenso, ma è anche giusto attenersi alle regole che garantiscono questo diritto: ergo se manifesto per la foca mancina non devo rompere le vetrine dei fochisti destrorsi, non devo uscire dal tracciato concordato con chi tutela l’ordine pubblico, e magari non devo inventare che la foca mancina è vegetariana quando invece quattro pescioni se li mangia.

Il mondo in cui si muovono i giovani oggi è molto diverso da quello in cui ci muovevamo noi, quando comunque le violenze dei poliziotti esistevano già da tempo (i cortei operai degli anni Cinquanta e Sessanta non erano passeggiate turistiche). Oggi i ragazzi vagano in una rarefazione sociale polarizzata in modo grottesco. Pensate alla vecchia distinzione tra destra e sinistra e guardate come appare oggi desueta.
I ragazzi di questi cortei non sono in bilico tra fascismo e comunismo, ma tra guerra e pace, tra il divanismo e l’attivismo, tra l’informazione e le fake news, tra professori illuminati e professori cialtroni, tra chi li gasa di videoclip e chi li rincoglionisce di stories, tra esserci e selfarsi, tra ragione e microchip, tra verità e passaparola.
Di fronte hanno uno Stato che è sempre meno sensibile alle oscillazioni del sentire comune, sempre più blindato nella sua intransigenza gretta e retrograda.
È fin troppo scontato che quando queste due entità vengono a contatto, detonano.
Anche perché dall’altro lato, in quello che un tempo era il palazzo del potere e che oggi è il potere del palazzo, vige l’egemonia della cazzata al servizio della prepotenza e dell’incultura.
Dire, come è stato detto, che si sta sempre e comunque dalla parte delle forze dell’ordine perché rischiano la vita per pochi euro al mese equivale a difendere chiunque guadagni poco e rischi molto a prescindere dalle minchiate che combina: insomma un operaio che sbaglia con la ruspa e abbatte una palazzina pretende che si stia con lui sempre e comunque. Per non dire dell’incommentabile Salvini che si tira fuori dal cilindro frasi decontestualizzate come questa.

Dopo le inaudite violenze del G8 di Genova si cambiarono le regole per evitare al massimo il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine proprio per arginare gli abusi e per limitare la violenza di impeto. Oggi la sensazione è che l’impeto sia instillato da chi crede che la violenza sia l’unico modo di guidare una Nazione. È un concetto che ha avuto una sua evoluzione nel ventennio Berlusconiano dove però lì il pifferaio magico faceva ampio uso di fascinazione: insomma c’era della delicatezza nella brutalità dei temi e delle azioni.
Oggi no.

Diciamolo con chiarezza. Nessuna persona di buona creanza può tollerare che si inneggi ad Hamas, una banda di terroristi crudeli, o che si bruci il manichino che raffigura la premier. Siamo al famoso vegetarianesimo della foca mancina di cui sopra: bisogna aver cura di manifestare per una verità, non per una menzogna, anche se si è minorenni. Ed è bene che ovunque si spieghi, senza risparmiarsi, che Hamas è una cosa, il regime di Netanyahu è un’altra, la Palestina un’altra, Israele un’altra ancora.
Leggo appelli di insegnanti in difesa della libertà e della tolleranza. Il problema è che una buona parte rischiano di essere catene di Sant’Antonio al collo incipriato dei social.
La realtà è cruda e inequivoca.
Serve cultura. Serve informazione. Servono libri e dipinti. Servono cantori e scienziati, filosofi e storici. E servono menti da nutrire.

Il mondo migliore lo ha costruito l’arte ed è quello senza polarizzazioni, ma con sfumature, chiaroscuri, infinite scale di grigi. È dall’arte che abbiamo imparato la saggezza di un paradosso cruciale contro tutti gli squadrismi, i totalitarismi, i fascismi: esistono angeli all’inferno e diavoli in paradiso.

1979

C’è un anno nella storia recente che è il baricentro della musica, della cronaca, della politica. Ma anche dei misteri, della tecnologia e del costume. È un anno in cui il mondo cammina con tutta la sua umanità verso un assetto che sarebbe stato quello della fine della guerra fredda e dell’inizio di nuove ere sempre più convulse. In Sicilia la mafia spara e uccide, tra gli altri, un giornalista che ha capito prima degli altri che purtroppo i corleonesi non sono solo gli abitanti di Corleone. Stati Uniti e Cina fanno accordi che stabiliscono una priorità per entrambi in funzione antisovietica, e l’Unione sovietica, sentendosi circondata, pensa bene di invadere l’Afghanistan.
In Italia nasce RaiTre in quota Partito comunista. Le vetrine dei negozi di dischi sono per i Pink Floyd, per Michal Jackson, per i Police, i Clash, gli Ac/Dc, per Bob Marley e i Supertramp. Dalla e De Gregori attraversano l’Italia con un tour dai numeri mai visti prima. Il Supersantos, un pallone che andava a vento, cede il passo al Tango, un pallone più pesante che più semplicemente va a calci. Molte cose accadono in quell’anno illudendoci che i sogni, se proprio non si avverano, spingono il destino un po’ più in là.
E poi nasce Giuseppe, che è figlio di Giovanna e di Pasquale, e fratello di Vincenzo e di Antonella. Giuseppe vivrà quell’anno con l’incoscienza felice di un neonato, un’incoscienza che manterrà per sempre.
Questa è la storia dell’anno 1979. Una storia di canzoni e sangue, di congiure e discoteche, di menzogne e rivelazioni. Ma soprattutto è la storia del piccolo Giuseppe. Che non invecchierà mai.

Dopo l’esperienza di quattro opere inchiesta (“Le parole rubate”, “I traditori”, “Cenere” e “L’altro”) per il Teatro Massimo di Palermo e l’opera di teatro civile “Invertiti” su Pier Paolo Pasolini per Taormina Arte, Gery Palazzotto – con le musiche di Fabio Lannino – sperimenta una nuova forma di narrazione. Stavolta il racconto è un intreccio stretto di parole e note, che non conosce mediazioni. Una forma di confessione pubblica senza finzione scenica, dove ognuno è quello che è.
Un narratore.
Un musicista.
Una cantante.
Un dee-jay.

1979L’anno in cui sognammo di essere quelli che non saremmo mai stati
Real Teatro Santa Cecilia di Palermo – 7 marzo 2024

Scritto e raccontato da Gery Palazzotto
Musicato da Fabio Lannino con Laura Sfilio
Remixato da Mario Caminita

Colpi di spugna e colpi di teatro

Le sentenze, anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare”. La frase, con sicurezza lapidaria, la scrive il magistrato Nino Di Matteo nel suo ultimo libro che ha un titolo spoiler, “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”. Se mai si cercassero frasi dipinte su un personaggio, o in questo caso sull’autore (che comunque è anche personaggio), che meglio ne rispecchiano le caratteristiche, di migliori e più calzanti non se potrebbero trovare.
Quindi le sentenze si possono criticare, persino quelle della Cassazione, ce lo dice Di Matteo, tutto a posto. Postilla: magari sono criticabili solo quando non rispecchiano le nostre aspettative fermo restando la nostra facoltà, negli altri casi, di impugnare la spada in difesa della magistratura e soprattutto del suo verbo fatto sentenza.

Nino Di Matteo è un coraggioso magistrato da anni nel mirino delle cosche mafiose. Ma nei suoi confronti si è sviluppato un paradosso tutto italiano. Quello del dibattito abortito per timore reverenziale. I pochi che si azzardano a criticarlo o a cercare di porre domande sul suo umano operato – sul resto vige l’impalpabilità di una sorta di divinità – vengono marchiati a fuoco che manco i vitelli di Yellowstone (la serie): solo che lì è senso di proprietà, qui è senso di infamia.
Insomma Di Matteo può dire quello che vuole perché è coraggioso (che è vero) e sotto scorta (che è vero). E chi osa non essere d’accordo con lui non è uno che dissente normalmente come accade col restante della popolazione mondiale (che è vero), ma uno che delegittima.
Ci ha provato più volte, in un’aula di giustizia, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, a cercare di mettere in fila le responsabilità di Di Matteo nella gestione del pentito farlocco Scarantino. Il magistrato, insieme con tutti i suoi colleghi di allora, non è stato ritenuto responsabile dell’indecente depistaggio della strage di via D’Amelio. Anzi, lui e tutti gli altri, hanno riscosso promozioni e si sono mossi agevolmente nel sotto vuoto spinto del clima di distrazione collettiva che ha caratterizzato le indagini sull’eccidio e sulla sistematica deviazione dell’inchiesta.

Disse Trizzino: “Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza (colui il quale svelo l’impostura di Scarantino, nda) senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose”.

Purtroppo il coraggio non basta. Perché ancora oggi, a distanza di 32 anni dalle stragi, pare che a nessuno importi nulla di quelle menzogne. Menzogne di Stato.
Il cortocircuito non è solo giudiziario, ma mediatico e sociale. La stessa libertà con cui un magistrato critica una sentenza di Cassazione non ha la stessa eco dell’indignazione dei cittadini che reputano scandaloso che nessun magistrato – anzi nessuno in assoluto – abbia mai pagato per lo scempio della verità sulla strage di via D’Amelio. Avete mai visto una manifestazione, un flash mob per stigmatizzare espressamente quel che combinarono la procura di Tinebra e i poliziotti di La Barbera?

Il massimalismo antimafia di cui l’antimafia sta morendo per asfissia ci ha insegnato che, ad esempio, lo stesso movimento delle “Agende Rosse” che ha contestato pubblicamente il sindaco di Palermo Roberto Lagalla per l’appoggio di Cuffaro e Dell’Utri nel corso della campagna elettorale, non ha avuto nulla da dire sulle accuse di Trizzino a Di Matteo. Anche qui non uno slogan, non un corteo sullo specifico: eppure l’agenda rossa da cui prende il nome quel gruppo di cittadini (sul cui impegno tanto di cappello) è proprio al centro del cratere lasciato dal depistaggio in cui i magistrati della procura di Caltanissetta hanno brillato quantomeno per inadeguatezza.
Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland, oddio sindrome da timore reverenziale in agguato –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti.
Se uno manifesta per la scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e poi si dimentica di chi per anni si è fatto intortare di minchiate dal “pentito” meno attendibile dell’universo mondo, qualche problema c’è.
E dobbiamo smetterla di considerare che il problema è chi dice che c’è un problema.

Ho visto (Palermo)

Ho visto una città bella, persino contenta di esserlo.
Ho visto una città in ginocchio, persino contenta di esserlo.
Ho visto ginocchia talmente consumate da sembrare zerbini.
Ho visto un laico fare quel che i preti si guardano bene dal fare.
Ho visto un prete che sorrise ai suoi assassini.
Ho visto magistrati depistare, farla franca ed essere promossi. Tutti.
Ho visto un bambino prigioniero.
Ho visto  il mare liberato.
Ho visto un sindaco parlare tre lingue con gente che manco ne parlava una.
Ho visto infinite nuche quando cercavo sguardi.
Ho visto un direttore di teatro che metteva in scena solo cose sue.
Ho visto un regista illuminato che si è inventato un fotoromanzo per spiegare una cosa difficile.
Ho visto un candidato alle Politiche spernacchiare, urlare e minacciare ed essere eletto come speranza della Sicilia.
Ho visto bare impilate da anni.
Ho visto giornalisti inventare in modo incivile ed essere premiati per il loro impegno civile.
Ho visto sollevatori di targhe a scrocco.
Ho visto intellettuali lodare il potere quando la strada era in discesa.
Ho visto amici smemorati e nemici con memoria ferrea confondersi tra loro.
Ho visto albe che sembravano tramonti e non avevo sonno.
Ho visto un tetraplegico che era sempre più avanti di me.
Ho visto lettori morire di noia.
Ho visto spettatori marcire nel pregiudizio.
Ho visto un teatro rinascere.
Ho visto vittime di mafia vittime del protagonismo.
Ho visto uomini e donne sole forti del loro (solo) coraggio.
Ho visto il trionfo dell’ignoranza nei templi della cultura.
Ho visto il trionfo della creatività nei vicoli più abbandonati.
Ho visto un carabiniere pianista.
Ho visto il potere della debolezza organizzata.
Ho visto calpestare il merito.
Ho visto uomini violenti farsela franca.
Ho visto donne violente impunite.
Ho visto porcherie spacciate per innovazione e innovazione gettata tra le porcherie.
Ho visto accuse sommarie molto circostanziate.
Ho visto ragazzi accesi e interessati, nonostante una città spenta e distaccata.
Ho visto che nessuno mi vedeva, anche se tutti mi guardavano.
Ho visto una preside che recluta alunni porta a porta.
Ho visto giunchi marcire aspettando che passasse la piena.
Ho visto un assessore che inneggiava alle SS.
Ho visto un tale che mangiava mortadella alla Camera e che passò per eroe.
Ho visto una titolare di palestra governare un’orchestra sinfonica.
Ho visto un bel ristorante perdere una stella per risparmiare sulla bolletta della luce.
Ho visto un questuante filosofo.
Ho visto un eretico vero, senza il rogo (al momento).
Ho visto il più importante giornale del mondo parlare bene di quel che si faceva dalle nostre parti.
Ho visto l’indifferenza per quel che si faceva dalle nostre parti.
Ho visto più resistenza in un corpo fiaccato che in un corpo nel fiore degli anni.
Ho visto un antimafioso brigare per una poltrona.
Ho visto un mafioso cedergliela.   

Se la destra suona sinistra

Nell’arrembaggio della destra ai posti di comando della cultura italiana una delle giustificazioni addotte dalla medesima destra è la seguente: basta con l’egemonia di sinistra, ora tocca a noi. Insomma governare un teatro, un museo, una fondazione è per il governo Meloni solo una questione di turno: fatti da parte che ora guido io.
E a nulla valgono giustificazioni tipo: serve una certa specializzazione; curriculum non è solo una parola tronca; i risultati contano eccetera. Loro tirano avanti ridacchiando insieme al coro di troll, parenti e lecchini adoranti: è finita la pacchia!
Questa lettura della realtà risente di una mistificazione che ha del cialtronesco, e cioè che destra e sinistra in Italia siano la stessa cosa. Un po’ come la “famosa” questione del centro, che affrontai in Invertiti* e che ripropongo nella sua versione breve di seguito.


Per molti decenni la polarizzazione politica ha giocato a contrapporre idee giuste a idee sbagliate e ha trovato nel “centro” il rifugio del cosiddetto campo neutro.
In realtà non esistono opinioni di parte, esistono opinioni che si possono condividere o no: facile a dirsi, difficilissimo da spiegare a un politico contemporaneo.
In questo corto-circuito rientra un vizio che ha insanguinato le strade della nostra logica: le persone stentano a riconoscere ciò che non viene abbracciato nella loro visione del mondo. Il che significa che tendono a sottovalutare pericoli reali (tipo, il figlio bianco della mia vicina di casa non può molestare mia figlia) e a sopravvalutare situazioni in cui la minaccia è sempre “loro” e mai “noi” (tipo, il figlio nero della mia vicina potrebbe essere un problema per mia figlia).
Nessuno o pochi hanno il coraggio di confessarselo, ma il succo di questo ragionamento, che è politico, civile, sociale, culturale, è la difesa ossessiva dello status quo.
La sopravvalutazione del “centro” compie, di rimbalzo, un’altra ingiustizia: che destra e sinistra siano simmetricamente distanti da esso. Come se, nei secoli, le voci della sinistra abbiano raccontato o svelato storie comparabili a quelle della destra, come se i crimini con fondamento ideologico commessi dal comunismo (che tutto era tranne che qualcosa di affine alla sinistra che conosciamo) fossero comparabili con le ripetute e attualissime violazioni dei diritti umani perpetrate dalla destra.
Il pregiudizio centrista è un pregiudizio di carattere istituzionale un po’ stupido. Nella storia il centro ha pesato come destra e sinistra nel preservare le disuguaglianze e anzi, specialmente in Italia, ha salvaguardato trame e segreti che da quegli estremi provenivano.
Se una verità cerchiamo davvero sul centro, è che il centro è di parte. Anzi è di una parte che apparentemente non ha parte pur volendo mostrarsi come mediatore tra le parti.

Basta sfogliare i giornali, se proprio non si vogliono aprire i libri, per rendersi conto che “l’egemonia culturale della sinistra” ha portato, spesso in modo imperfetto, esattamente all’opposto di dove la destra, questa destra, vuole arrivare: la tutela delle minoranze, la valorizzazione della diversità, il gusto anche masochista per l’innovazione (la sinistra italiana muore un po’ per ogni passo che si fa nel futuro), la curiosità senza freni, il culto talvolta ossessivo della conoscenza.

Il mondo meloniano è invece teso a chiudere finestre, a limitare accessi, a togliere aria: il made in Italy compulsivo come se fossimo i padroni del mondo; il sesso ordinario come dio comanda; lo straniero nemico, un po’ invasore e un po’ colonizzatore; il diverso che ruba serenità ai cittadini tutto focolare domestico e crocifisso; il revisionismo degli orrori; la liceità del riso solo in caso di risata grassa; il bavaglio alle bocche che non intonano la messa cantata. Il tutto alimentato (inconsapevolmente?) da una narrazione antagonista che è un pericoloso mix di ingenuità e impreparazione: e quello della competenza è un dramma dell’opposizione in questo Paese.

Immaginare il governo delle politiche culturali – nelle quali persino la sinistra è stata capace di disastri, basti pensare alla gestione Franceschini nel periodo della pandemia – come una sveltina burocratica è tipico della destra. Che, tristemente, è sempre coerente con sé stessa e col suo passato.

*L’opera “Invertiti” mi fu commissionata nel 2022 da TaoArte, che non era certo un covo di comunisti, a conferma che quando si parla di cultura, c’è ancora chi sa tenere la politica fuori dalla porta.